Non si vince senza gioco
Intervista a Ivan Juric tratta dal libro “The goal. Le vie dello sport sono infinite”, edito da Sometti nel 2015.
Si parla tanto di cultura del gioco, attraverso la quale si potrebbe arrivare anche a vivere lo sport senza esasperazioni e derive. Coloro che hanno il compito di trasmetterla, come settori giovanili, scuole, media ecc. stanno svolgendo bene il loro compito?
Assolutamente no. I primi a doverla trasmettere sono comunque gli allenatori, che devono analizzare la qualità del gioco, le cose fatte bene e quelle fatte male indipendentemente dal risultato finale. Nelle società forti poi i direttori sportivi poi devono andare in questa stessa direzione, che devono percepire le stesse cose che percepisce un allenatore. Poi ci sono i presidenti, che li considero incompetenti e che dovrebbero stare proprio ai margini del sistema, e secondo me stanno facendo molti danni. Trasmettono cose non vere. Vantarsi di una vittoria arrivata però con una brutta prestazione significa mandare un messaggio completamente negativo alla squadra.
Ajax e Barcellona curano molto il gioco, che poi le porta a divertire tutto il mondo quando vincono. Per quanto riguarda le scuole, e parlo dell’esperienza che ho visto di persona attraverso le mie figlie, c’è un periodo in cui le cose mi sembra funzionino bene, sia alle elementari ma anche medie. Anche a livello di cultura dello sport, le mie figlie sono state educate molto bene, anche in termini di apertura mentale. Magari sono state fortunate loro ad aver avuto brave maestre, per carità, però sono state educate bene fino alle medie. È dalle superiori in poi il percorso si inceppa, e noti che probabilmente i ragazzi che arrivano dall’estero hanno una marcia in più. Forse è il periodo in cui i ragazzi italiani iniziano a essere troppi viziati. In Spagna i media spingono per il bel gioco. Mi ricordo un caso clamoroso: giocavo nel Siviglia ed eravamo riusciti a portare a casa un pareggio contro il Real Madrid. Il risultato era ottimo, ma come era stato raggiunto? Eravamo andati in vantaggio 1-0, ma dopo quel gol avevamo fatto una partita esclusivamente difensiva. Abbiamo smesso anche solo di pro- vare a giocare, il Real è comunque riuscito a pareggiare e la partita è finita 1-1. In Italia magari sarebbe stata una prestazione esaltata dalla stampa e dai tifosi, perché comunque è stato un grande risultato per la squadra. Invece ci eravamo presi talmente tanti fischi e critiche che era diventata una situazione allucinante, perché loro non accettano questo atteggiamento. Loro quando pagano il biglietto, si presentano allo stadio con sigaro e bocadillos da mangiare e vogliono guardare bel gioco in un ambiente abbastanza rilassato. È un fatto culturale. Un italiano è competitivo e vuole vincere, bisogna trovare l’equilibrio tra bel gioco e competitività. Mi sento vicino a entrambe le filosofie, devono andare di pari passo. Mi arrabbio quando magari vinciamo senza aver giocato bene, perché oggi posso aver vinto ma alla lunga senza gioco non si ottengono risultati.
Il commissario tecnico Cesare Prandelli durante la sua gestione ha scommesso tanto sul codice etico. È davvero un chiodo su cui battere per ottenere determinati risultati di immagine e cultura e non solamente sportivi? Proprio Andrea Anastasi nel commentare su Twitter una gomitata di Chiellini che avrebbe impedito al difensore di rispondere alla convocazione della Nazionale ha commentato: «Il codice etico nel calcio è come direbbe Fantozzi una cagata pazzesca, Chiellini ha sbagliato ma solo chi gioca con tutto quello che ha può sbagliare, viva l’imperfezione…».
In Italia è difficile da applicare. Magari come idea era buona, però poi ti massacrano non appena una tua decisione rischia di venire interpretata come incoerente. Qui è molto difficile applicarlo. Conte mi sembra uno che giudica solo ed esclusivamente quello che vede in campo, sia in partita che in allenamento. So che anche alla Juve si comportava nello stesso modo. Se ti alleni bene hai possibilità di giocare, se non ti alleni bene come Balotelli ti lascia a casa. È molto semplice. Io sono per la libertà completa fuori dal campo. Il mio codice etico è l’educazione di base, quello che fanno fuori mi interessa relativamente poco. L’importante è che uno non sbagli in allenamento e in partita. Penso sia un modo per responsabilizzare: se io metto limiti ovunque, comunque il giocatore che vuole sgarrare trova il modo di farlo di nascosto. Invece se lo lascio libero lo responsabilizzo: il giocatore ha libertà di fare, però se si comporta e perde il posto in squadra dimostra di essere una persona stupida. Devono pagare ogni errore, così crescono a livello mentale.
Ogni sport è in continua evoluzione, nel basket la sempre maggiore capacità dei lunghi di tirare da fuori ha cambiato il corso della crescita, così come nel calcio l’aver abbassato dalla linea mediana a quella arretrata il compito di impostare il gioco. Cosa dobbiamo aspettarci dallo sport fra cinque, dieci o quindici anni?
Se penso agli allenatori, io stravedo per Guardiola. Per me è un genio del calcio, ed è stata una vera fortuna vederlo lavorare per sette giorni. Ha esasperato il possesso palla, ma questo sta solo a indicare come la squadra si muovesse globalmente in spazi ridotti. E questo è utile anche in fase di non possesso, appena qualcuno perdeva palla l’avversario si ritrovata contro subito qualche altro avversario. La mia idea tende ad andare in queste direzione, che poi non vuol dire non sfruttare la ripartenza veloce o altri modi di giocare. Però il gioco di Guardiola è il metodo che mi ispira e che mi piace, avere controllo della partita e muovere bene la palla. Stare allo stesso molto larghi e molto corti ti permette di correre meno ma in velocità, pochi metri ma più esplosivi. Anche Mancini mi sembra stia provando ad adottare questo sistema, Montella lo sta facendo bene. Coloro che applicheranno questo metodo di gioco sicuramente avranno vantaggi nel futuro.
Anche la geografia del gioco è in costante mutamento. Quali sono le realtà che potranno inaspettatamente dire la loro?
Non credo che il Belgio sia un esempio che durerà molto, hanno sicuramente una generazione ottima ma non andranno alla grande per i prossimi vent’anni. Vedo il modello tedesco molto più a lungo termine. La mia Croazia è un popolo di talento, però corrotti anche peggio dell’Italia. Nell’epoca del comunismo c’erano tanti limiti, dalla mancanza di libertà d’espressione all’impossibilità di arricchirti perché chiaramente tutto era statale. Lo sport però era una via che ti permetteva di arricchirti, ti poteva tirare fuori dal sistema a differenza di altri campi perché economicamente non potevi emergere nonostante avessi capacità. Lo sport ti permetteva di andare all’estero e guadagnare, e in quel periodo avevamo una grande cultura. Basta pensare alla squadra di basket della mia città, l’allora Jugoplastika Spalato Split, è stata tre volte Campione d’Europa con giocatori esclusivamente del territorio senza americani, che erano riusciti a vincere anche alcune coppe e campionati nazionali. Avevamo Kukoc, Tabak, Perasovic e Rada, giocatori incredibili. E stiamo parlando di Spalato, una città di 250.000 persone, quindi non una grandissima città o metropoli. Negli anni abbiamo avuto tre diverse squadre che sono state Campioni d’Europa di pallanuoto, con giocatori esclusivamente di Spalato. Questo vuol dire che c’era una grandissima etica del lavoro e del gioco. E con la generazione che arrivava da quell’epoca, la Nazionale di calcio è arrivata terza ai Mondiali di Francia ’98, lo stesso gruppo che qualche anno prima aveva vinto il titolo Under 21.
Adesso manca completamente quella grande cultura del lavoro, specialmente nella mia città. A Zagabria riescono ancora a produrre grandi giocatori, ma a Spalato molto meno. C’è una flessione allucinante, poca cultura del lavoro, finti procuratori che mettono pressione su giocatori e società, genitori che vogliono fare i soldi grazie ai figli. Manca tutto il vecchio lavoro. In questo momento nel calcio non si lavora bene, nel basket poi non ne parliamo nemmeno: negli anni ’90 andavamo in finale contro gli Stati Uniti, eravamo un esempio per tutti e ora non abbiamo neanche una squadra decente che giochi in Eurolega.
Faccio questi riferimenti costanti al basket perché mi piace molto, è un grande sport da cui rubo certe idee. Per esempio mi piace l’idea di avere un giocatore centrale in grado di attirare l’attenzione di più difensori, e per questo mi piaceva un sacco Shaquille O’Neal che erano tutti costretti a raddoppiare, così facendo si libera qualcuno, nel calcio per esempio sulle fasce agli attaccanti esterni. Ho studiato il triangolo offensivo e il modo di gestire lo spogliatoio di Phil Jackson e sono tutte cose stupende. È stato bravissimo a togliere egoismo dalle sue stelle e metterle al servizio della squadra per ottenere tante vittorie, ha una psicologia fantastica nel far andare tutti nella stessa direzione. Così come è interessante che nei momenti di difficoltà a inizio stagione non chiami timeout, ma preferisce lasciarli giocare per farli crescere anche attraverso gli errori e i periodi negativi, li mette nelle condizioni di assumersi responsabilità. Io ho uno stile diverso, sono molto presente e urlo molto. Ma è perché sono fatto così, tutti mi dicono che il mio modo di fare sprona i giocatori ma non ci credo molto. Non credo che il mio atteggiamento sia quello necessario, mi comporto così solo perché sono fatto così. Anche Ettore Messina è un esempio per me. Bozidar Maljkovic è stato un grandissimo allenatore e un grande psicologo, lo caratterizza il fatto che non ha mai fatto un complimento a un suo giocatore: lui ha vinto tutto con la Jugoplastika Spalato, ma ai giocatori bastava non essere insultati per sentirsi già bene. Il suo modo di lavorare portava a risultati straordinari, magari rientravano alle 3 di notte da una trasferta e alle 8:30 erano già pronti in palestra per allenarsi. Questa era una grandissima cultura del lavoro, che ora nella mia città si è persa.
Quanto è stato importante lo sport nella vita e per la formazione personale?
Io rientravo nella parte di giocatori meno talentuosi, e di conseguenza nella mia carriera sono sempre dovuto andare a mille all’ora per competere con altri che magari erano più bravi. Sicuramente in questo modo sono diventato uno tosto, molto tosto. Ho avuto anche la fortuna di conoscere persone come Gasperini che ha valori umani impressionanti per un italiano, perché ha veri valori di onestà e di lavoro, non cerca mai scorciatoie. E lui mi ha cresciuto molto come persona.
Alla fine di tutto, quand’è possibile riuscire a sentirsi appagati dal proprio lavoro? A sapere di essere arrivati alla fine di un percorso?
Io lavoro con molta intensità, chiedo molto ai miei giocatori. Per raggiungere questo obiettivo nei primi mesi devi urlare molto, ogni minimo errore cerco di mettere pressione. Specialmente ai giocatori che non sono abituati a lavorare con grande intensità sia fisica che mentale. Quando riesco a vedere un allenamento fatto bene e che non abbia richiesto delle mia urla, allora è il primo segnale che la squadra inizia a essere la mia squadra. Vuol dire che non hanno più bisogno più di me, che si aiutano tra di loro e che ognuno esige dal compagno grande intensità. Faccio un esempio: quando a stagione in corso sono arrivati due giocatori nuovi, Beleck e Gyasi, non erano abituati a rincorrere l’avversario che gli aveva appena portato via palla. Rincorrere l’avversario alla fine è più una questione mentale che fisica, è un concetto che va capito e reso automatico. Non appena i compagni si sono accorti che non lo applicavano, sono stati loro stessi i primi a farglielo presente. Non c’è stato nemmeno bisogno del mio intervento. Mi sento veramente felice quando facciamo una prestazione fatta bene a livello di gioco che ci permette di portare a casa anche una vittoria, e quando contemporaneamente vedo i giocatori molto soddisfatti.