Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Gianni Montieri
Non si può cambiare una passione
29 set 2020
29 set 2020
Un racconto di quando andavamo tutti allo stadio.
(di)
Gianni Montieri
(foto)
Dark mode
(ON)

Tra le immagini più vivide che ho in mente di mio padre, c’è quella in cui è seduto su una sedia della cucina che sta guardando una partita. Lo vedo di schiena, ha (lo so) le braccia conserte, non so di che partita si tratti. Potrebbe essere una qualunque partita delle coppe europee, quando ancora le trasmetteva la Rai, potrebbe essere una partita di Coppa Italia giocata dal Napoli o un’amichevole della nazionale, non è così importante. Conta, nei miei ricordi, la scelta solitaria di mio padre che dai mondiali del 1994 in avanti non ha mai più guardato una partita con altre persone, se non per qualche episodio casuale. Mi piace pensare che la scelta di mio padre sia dovuta alla mia partenza da Napoli del 1996; ero io a portare gli amici in casa per le coppe, per i mondiali, il nostro giardino diventava una piccola curva, riproducevamo in una scala ridotta ciò che per molte volte avevamo (e avremmo) fatto al San Paolo.

 

Mio padre si appassionava con noi, lui non era un grande tifoso, solo un finissimo intenditore, e non era nemmeno uno da stadio, che io sappia vi ha messo piede un paio di volte in tutta la vita. Da quegli anni fino alla sua morte ha guardato poche partite, sempre da solo, non ha mai voluto che gli regalassimo un abbonamento alle tv a pagamento, guardava da quella sedia quello che passavano la Rai o Mediaset. Mi pareva che da un certo punto in poi il calcio per lui fosse diventato qualcos’altro, non più un’emozione o una sofferenza da condividere, ma una routine che ogni tanto gli riportasse un bagliore o un ricordo, cercava in un lancio di Pirlo o di Totti ciò che aveva visto fare qualche volta a Rivera, Corso, Cruijff, Maradona. Uno degli abbracci più intensi tra me e mio padre avvenne dopo il gol di Maradona all’Inghilterra nel 1986, avevamo assistito (lo capimmo subito) a qualcosa di straordinario e lo avevamo fatto insieme.

 

«Un uomo può cambiare tutto ma non può cambiare una passione». Sandoval, uno dei personaggi principali del bellissimo film 

  (del regista argentino Juan José Campanella, premio Oscar come miglior film straniero del 2010), pronuncia questa frase rivolto a Esposito, suo superiore e amico. I due stanno svolgendo un’indagine, cercano un assassino/stupratore, Sandoval dice quelle parole compiendo un ragionamento sulla loro inettitudine, ha infatti scoperto che nelle lettere spedite alla madre, il sospettato ha usato molto spesso metafore che rimandano a calciatori che giocano o che hanno giocato nella squadra del Racing di Avellaneda, provincia di Buenos Aires. L’assassino sfugge loro sistematicamente ma Sandoval capisce che l’unico posto in cui possono prenderlo è allo stadio, a una partita del Racing, per via della passione, nemmeno la paura di essere beccato può impedirgli di andare a vedere la sua squadra. E lo troveranno, in uno stadio pieno zeppo di gente urlante, non lo prenderanno proprio perché tra tanta gente è anche facile scappare, ma lo trovano, perché come molti di noi ha quella particolare passione per lo stadio e per la squadra del cuore.

 

A noi ci avrebbero trovati al San Paolo, parlo di me e dei miei tre quattro amici di allora, fossimo stati degli assassini ci avrebbero inchiodati una domenica pomeriggio in curva B, mentre saltavamo abbracciati, impazziti per un gol di Maradona o di Giordano, gol che qualche volta non avevamo visto perché stavamo cantando, urlando da sempre, da casa. La nostra passione erano il Napoli e il San Paolo.

 


Etsuo Hara/Getty Images


 

Allo stadio, però, non ci andavamo solo per la partita. Il San Paolo era il posto in cui condividere una cosa magica con altre migliaia di persone, ci si andava per riconoscersi, misurarsi con gli estranei, per crescere. Chissà quante volte ho abbracciato uno mai visto, ho sorriso a uno spacciatore, saltato con un tossico o con un ingegnere, o magari con un ingegnere tossico. E i camorristi? Gli studenti? I disoccupati? I ladruncoli? Non sapevi niente di loro, non te ne importava. Vestivano tutti di azzurro, ecco cosa contava. Quella gente mi assomigliava, ero un ragazzino accolto in un mondo di adulti; erano adulti che tornavano ragazzini. Il ladruncolo che esultava con te magari ti avrebbe rubato il motorino il giorno dopo, lo avresti odiato a suo tempo, al San Paolo era amico tuo.

 

E una volta un motorino, durante una partita, ce lo rubarono, passarono ore prima che qualcuno si fermasse per un passaggio, ma non ci importava, avevamo quella luce negli occhi, la luce di chi ha visto il Napoli lasciare il terreno di gioco con una vittoria. Facemmo l’autostop con la sciarpa “L’orgoglio di essere napoletani” (col senno di poi che cosa ridicola), qualcuno si fermò, eravamo tifosi rimasti a piedi, dei bravi ragazzi. Fummo fortunati perché la nostra passione, negli anni che andavano dai tredici ai venti, coincise con il prodigio del più forte giocatore di tutti i tempi calato nella nostra squadra del cuore. Ma non saremmo stati meno stupidi e appassionati se fossimo nati qualche anno prima, avremmo amato anche Vinazzani, così come dopo abbiamo amato Montervino. La passione. Mio padre non aveva quella passione, ma conosceva la mia e finché ha potuto ne ha trattenuto un raggio, un riflesso per sé, fino alla fine, fino alle partite che gli raccontavo via Whatsapp.

 

Una foto molto bella di Henri Cartier-Bresson (del 1969, attualmente esposta a Venezia a Palazzo Grassi, titolo della mostra: “Le grand jeu”) tiene in una sola immagine i due aspetti della passione per il calcio. Cartier-Bresson scatta da un punto elevato: in primo piano, stesi su una sorta di collinetta cittadina ci sono tre bambini, uno guarda verso il basso, due un po’ distratti paiono conversare tra di loro. In basso, tra due file di macchine parcheggiate, quattro ragazzini stanno giocando al pallone, è molto difficile staccare gli occhi dalla fotografia, quel attimo fermato più di altre cose spiega come le vite di chi gioca e di chi guarda siano legate da qualcosa di molto profondo. Il ragazzino che guarda in basso, di cui non vediamo gli occhi è chiaramente rapito, potrebbe lanciarsi in giù per fare il quinto della partitella, o potrebbe restare incantato a guardare quegli altri ragazzi per ore.

 

C’è molto di quello che siamo stati nel modo di protendersi del ragazzino, sembra quasi che il corpo si allunghi. C’è molto di quello che abbiamo sognato, e che poi, qualche volta in qualche modo, abbiamo anche fatto nel movimento dei quattro che si passano il pallone in un parcheggio al sole. Chi gioca e chi guarda sono il lato A e il lato B della passione, i due che si distraggono fanno pensare ai ragazzini nati dal 2004/2005 in poi. Mio nipote ha tredici anni, quando è andato allo stadio per la prima volta, mi pare fosse un Napoli-Cagliari, gli domandai cosa avesse provato, se gli fosse piaciuto. Mi rispose qualcosa come “bello sì, ma niente di che”, gli domandai dei gol del Napoli, mi rispose “vabbè, con il Cagliari è facile”. Non gli ho più domandato niente di calcio.

 

I capi opposti della passione, lo stesso capo. Eppure l’amore per il gioco del calcio è identico per tutti. Ama il ragazzino alla playstation, ama l’uomo che guarda la partita da solo, ama chi sta sul divano con qualche amico, ama chi la commenta su Whatsapp, ama chi - nonostante gli anni che passano - non vede l’ora di andare allo stadio.

 


MARIO LAPORTA/AFP via Getty Images


 

Olivia Laing nel bellissimo

(Il saggiatore 2016, traduzione di Francesca Mastruzzo) esordisce così: «Immaginate alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre, alcune buie, altre inondate di luce verde o bianca o dorata. Al loro interno, estranei nuotano avanti e indietro, presi dalle faccende delle ore private. Li si può vedere ma non toccare, così che questo comune fenomeno urbano, che si rinnova ogni notte in tutte le città del mondo, infonde anche al più socievole degli uomini il tremore della solitudine, la sua inquieta misura di separazione ed esposizione». Con il lockdown della scorsa primavera ci siamo ritrovati tutti quanti nella descrizione stupenda e amarissima che Laing fa della solitudine. Quello squarcio dalle finestre delle grandi città è diventato lo squarcio del più piccolo e sperduto paesino.

 

Dietro ogni cella, ogni finestra, abbiamo nuotato anche noi e ci siamo aggrappati a quello che avevamo e, tra le altre cose, ci siamo messi a scovare in tutti gli angoli nei quali la nostra passione potesse essersi nascosta. Di colpo siamo diventati tutti mio padre, seduti in cucina, in poltrona o sul divano, cercando in streaming, o ovunque si potesse, ogni vecchia partita che si potesse guardare. A tarda notte ci sono arrivati Whatsapp di chi aveva appena riguardato Italia-Germania del 1970, di chi aveva passato il pomeriggio con tutti i gol di Messi o con i migliori assist di Thierry Henry, di chi aveva riguardato alcune finali di

. I migliori erano quelli che ci avvisavano per tempo: “Ehi, tra un’ora danno Barcellona-Manchester United”. Eravamo soli al punto di guardare le storie Instagram dei nostri calciatori del cuore mentre si allenavano. Qualcuno di noi ha palleggiato in salotto. Ci mancavano lo stadio e il campionato, ma avremmo guardato anche mezz’ora di un Avellino-Milan degli anni ’80. Poi il pallone è tornato e abbiamo tirato un sospiro di sollievo.

 

Le prime (diciamo una decina) di partite mi hanno fatto uno strano effetto. Le cose stavano accadendo davvero? Tutto ciò era regolamentare? Nessuno di noi poteva andare allo stadio, nessun calciatore poteva esultare verso il pubblico. L’attaccante e il tifoso erano tenuti insieme da ciò che riprendevano le telecamere e da ciò che trasmettevano. Me ne stavo lì, in poltrona, il Napoli aveva appena vinto la Coppa Italia contro la Juventus, ma mi sembrava che non fosse accaduto davvero, le tribune vuote mi facevano pensare a un allenamento a porte chiuse, o -  se preferite - a una specie di prova generale. Per molti giorni mi è parso che si giocasse una partita unica, nella quale i calciatori ogni tanto si cambiavano la maglia; una partita in cui l’errore dell’attaccante a porta vuota non sembrava così grave, poteva riprovarci. Nessuno sugli spalti, nessuno fischiava, nessuno applaudiva. La Spal e l’Inter sembravano lo stesso team, poi – naturalmente – non era così, le cose accadevano, i gol brutti o belli che fossero valevano, che ci sentissimo strani o no qualcuno prendeva i tre punti, qualcun altro restava a zero. Alcune volte ho interrotto la visione di una partita a metà, stufo della sensazione di irrealtà che ammantava il terreno di gioco. Dopo una decina di minuti ritornavo a guardare, perché? La passione, immagino. Vedere il pallone rotolare, di quello si trattava, e accadevano tunnel, rovesciate, bellissimi tiri dalla distanza, grandi parate. Avevano lo stesso valore, l’emozione era la stessa? Non saprei rispondere. Una cosa bella è bella allo stesso modo se non puoi condividerla con qualcuno?

 


Francesco Pecoraro/Getty Images


 

Quando sono ricominciati i campionati e poi le coppe, tutti noi abbiamo fatto a meno di qualcosa. Abbiamo smesso di essere il ragazzino di Cartier-Bresson e siamo diventati come l’uomo solo in cucina, inseguendo un taglio dietro le linee, sperando in un colpo di testa del quale avremmo sentito anche il rumore dell’impatto. Così ogni calciatore non era più uno dei quattro ragazzini della foto, che giocavano ammirati da quell’unico tifoso. Erano professionisti in un catino vuoto, che esultavano verso chissà quale divano, quale sedia d’alluminio, quale tappeto.

 

L’estate è alle spalle, riparte la nuova stagione, con gli stadi vuoti. Non sappiamo per quanti mesi durerà. Quante partite guarderemo dai divani o, come mio padre, seduti in cucina con le braccia conserte, non lo sappiamo, magari sarà così per due, tre anni, forse per sempre. Il calcio resterà quella cosa che amiamo o ci apparirà come un grosso spettacolo muto? Siamo davvero pronti a passare le serate in cui l’audio si concretizzerà nelle urla ossessive di Conte e di Gattuso? Ce ne importerà di sentire Gasperini che urla al terzino più vicino di coprire? Giocare in casa o in trasferta non farà più alcuna differenza, tranne i 22 in campo, a casa - anzi, in trasferta, lontani dal campo - ci staremo tutti, a lungo andare bisognerà pensare di rivedere le regole classiche, tipo quella dei gol fatti fuori casa che valgono doppio.

 

Forse ci appassioneremo finalmente alle riprese degli armadietti degli spogliatoi, presteremo attenzione agli infradito di Lukaku, chissà, tutto servirà a quel punto. Le televisioni aggiungeranno delle telecamere in più, magari piazzate su una poltroncina in tribuna, su un seggiolino in curva. Il telecronista ci spiegherà che quelle telecamere saranno l’occhio del tifoso, guarderanno con i suoi occhi, e le chiameranno per nome, un giorno Luciana, l’altro Giuseppe. Basterà tutto questo? Avverto una sorta di malinconia, qualcosa che mi sta agguantando alle spalle, nei giorni in cui divento come mio padre mi accorgo di non essere pronto a fare anche a meno del pallone, basta e avanza fare a meno di lui.

 

No, non abbiamo perduto la passione, aveva ragione Sandoval, ma è cambiato il legame tra chi gioca e chi guarda, ci siamo dovuti fidare. I calciatori fidarsi del fatto che qualcuno li stesse guardando, i tifosi fidarsi che fosse tutto vero.

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura