
Se creassimo un tag cloud delle parole ricorrenti nei discorsi di e intorno a Sergio Pellissier, "fedeltà" avrebbe la stessa rilevanza di "umiltà" o "gavetta". Pellissier profonde pacatezza, disponibilità, affetto: la sua voce, mentre parliamo per questa intervista, non tradisce mai una vena amara, non si acciglia, non si infervora. Neanche quando il discorso scivola sul Chievo Verona, la sua casa per quasi vent’anni, scomparso quest’estate, fagocitato dai debiti e radiato da ogni campionato professionistico. «Io credo che il primo fallimento sia stato allontanare tutte le persone che lavoravano per il Chievo per passione, per amore per quella squadra, e che non avevano secondi fini». Un fallimento, quindi, prima che economico, di concetto. «Quando all’interno della tua società scegli, cerchi di eliminare quelle persone, è normale che le cose non andranno più bene». «Il mio dispiacere più grande è che abbiamo perso una società importante, con cui ho passato tutta la carriera». È pacifico che tra quelle persone che amavano la società, e che ci lavoravano utilizzando come propellente in primis quel senso d’attaccamento, ci si metta anche lui.
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In un post su Instagram di maggio scorso, con cui si accomiatava dal Chievo, scriveva «non importa quanti bocconi amari ho dovuto ingoiare nell’ultimo anno e mezzo, quanti giudizi ho dovuto cambiare su persone, progetti e obiettivi. Tutto passa, calciatori, dirigenti, allenatori e anche presidenti: quello che veramente importa e che rimane è il valore delle persone». E chiudeva: «Grazie Chievo, e ti auguro di trovare persone che ti ameranno quanto ti ho amato io». In quel momento i rapporti con la società, con il presidente Campedelli, erano compromessi. Probabilmente Pellissier già aveva fiutato ciò che si sarebbe palesato di lì a poco. Quando aveva abbandonato i campi, in una cerimonia piuttosto commovente, era stata ritirata la sua maglia numero 31. «Avevo sempre sognato che potesse accadere, è una dimostrazione di affetto in cui speravo. Il presidente l’ha fatto e posso ringraziarlo, da quel punto di vista (i corsivi sono miei, NdA) ha pensato a me». Allo stesso modo, Pellissier ha continuato a pensare al Chievo. «Al presidente ho chiesto solo una cosa: non mi faccia fare l’uomo simbolo, son cresciuto con le responsabilità. Se non ho responsabilità faccio fatica, non voglio rubare i soldi», aveva detto quando era entrato a far parte dello staff dirigenziale.
Fenice
Pellissier, al Chievo, all’idea di Chievo, è rimasto fedele anche dopo essersi visto allontanare, e ancor di più dopo la cancellazione. Nelle ultime settimane è salito alla luce della ribalta, e immagino abbia visto la sua vita inghiottita da un maelstrom di impegni, per aver fondato una nuova società, l’AC Chievo 1929. L’ha registrata in FIGC. Ha cercato di iscriverla al campionato di Serie D. Ha cercato a tutti i costi di non far scomparire per sempre quel nome, quei colori, a cui è legato da vent’anni di convivenza. «Però non c’è stata possibilità, economicamente era un impegno veramente elevato: e quindi la prima idea era quella di “Vabbè, ci ho provato, richiudo la società e basta, finisce lì”. Invece poi ho continuato a ipotizzare idee, e alla fine ho deciso comunque di iscrivere la squadra in Terza Categoria. Al futuro ci penseremo in un secondo momento».
Dopo qualche giorno di impasse («la prima idea è stata quella di fare il settore giovanile, e poi pensare alla stagione successiva, ma mi rendo conto che siamo a settembre, la maggior parte dei ragazzi ha già trovato casa»), alla fine all’AC Chievo è stato permesso di iscriversi al campionato di Terza, a patto che il nome venisse modificato in AC Chievo 2021. La fenice che rinasce dalle proprie ceneri, uguale ma diversa. «Non è l’obiettivo che mi ero prefissato all’inizio, ma una piccola partenza ci vuole per poi pensare al futuro, allinearsi agli altri, creare qualcosa di carino». «È vero pure che fai la Terza Categoria, non puoi retrocedere, quindi a quel punto non c’è bisogno di fare una squadra così forte. Vogliamo solo fare bella figura, concludere l’anno nel migliore dei modi utilizzando qualsiasi idea o soluzione per migliorare la società». La prima pietra è stata l’ingaggio di Riccardo Allegretti come tecnico. Ora bisogna allestire la squadra. E chissà che non possa tornare a spuntare, in campo, un numero 31.

Foto di Paolo Rattini/Getty Images
Pellissier ride, «non lo so», dice, «non è un mio pensiero ma non si può mai sapere. Magari anche solo una presenza per dire che c’ero. Chissà, vedremo». Di certo sarebbe il coronamento di una storia positiva, di una favola che torna a ripetersi. Quando gli chiedo a quale Chievo vorrebbe che somigliasse il suo, di Chievo, dice «al primo, a quello umile, gregario, dove si sapeva che qualità si avessero, ma si era abbastanza umili per capire che si andava ad affrontare qualcosa di più grande di te. Dove dovevi lavorare, lottare di più, far le cose da squadra. Una famiglia: ecco, quel Chievo che era una famiglia, e che purtroppo non rivedremo più». A meno che, ovviamente, non si reincarni in una nuova emanazione.
Ogni aspetto del connubio tra Sergio Pellissier e Chievo è imbevuto di una retorica improntata sull’etica del sacrificio, sul self-help, sulla conoscenza - e coscienza - dei propri limiti. Votata agli stessi principi è stata la carriera di Pellissier da calciatore, anche se appena affacciato al professionismo lo chiamavano “l’Owen della Val d’Aosta”, un soprannome che lo fa sempre sorridere.
«Io li sapevo, i miei limiti: sapevo dove potevo arrivare, ma sapevo anche i miei difetti, oltre che i miei pregi. Ho sempre guardato tutto quello che facevano gli altri giocatori più vecchi di me, e cercavo di carpire le qualità che avessero per potermi migliorare. La mia forza è sempre stata quella di correggere gli errori che facevo, cercare di non ripeterli. Guardavo gli altri e cercavo di capire: perché io sbaglio e gli altri no? Ero abbastanza intelligente, da questo punto di vista. Ho avuto la fortuna di trovarmi in una società in cui c’erano tanti uomini, prima che calciatori, giocatori che non scendevano in campo per uno stipendio e basta. Era una famiglia, quindi ci si aiutava tutti, per crescere».

Foto di Paolo Rattini/Getty Images
Facendo perno sulla mutua assistenza, ma anche su un innegabile talento che tendiamo sempre a lasciare un po’ troppo sullo sfondo, Sergio Pellissier è finito per andare a segno 139 volte nell’arco della sua carriera. Quando gli chiedo qual è, secondo lui, il gol più difficile che abbia mai segnato, mi risponde che «fare gol è sempre difficile, difficilissimo: tante volte non ti aspetti di farlo e lo fai, altre volte la vedi già dentro e invece no». Io, in mente, ho il tacco di Genova.
«Mah, non è stato complicato», mi spiazza. «In quel momento avevo già deciso di fare così. Che poi magari in allenamento lo fai in scioltezza, senza neppure pensarci, e in partita finisce che ti capita che lisci la palla. Io l’ho fatto in scioltezza, non ho pensato a sbagliare. E non ho sbagliato». Neppure il tempo ha contribuito ad alimentare un minimo di automitizzazione, a convincerlo di poterlo ostentare. All’epoca, subito dopo la partita, fedele al suo low-profile, aveva detto «conta solo buttarla dentro, in un modo o nell’altro. Però devo dire che alla mia età mi muovo ancora bene».
Pellissierish
Tra le reti più belle ricorda quella segnata contro la Lazio, una fuga solitaria dal cerchio di centrocampo contro tre avversari.
Un gol segnato nel suo periodo più dirompente, quello in cui era in forma strepitosa, e in cui nondimeno non dà mai l’impressione di avere pieno controllo della situazione, ma di essere come animato da un fuoco divino. La sua corsa somiglia a quella dei concorrenti di Floor is lava: sembra sempre sul punto di cadere, di sbilanciarsi, di scivolare, un cameriere con troppi flute nel giro a braccio a un aperitivo di gala che però riesce, per fortuna o abilità, a non farne riversare neppure uno. I tre tocchi dopo aver superato l’ultimo avversario sono grezzi, primitivi, eppure meravigliosamente armoniosi: danno l’impressione che non solo il suo piede adori la palla, ma che il sentimento sia reciproco.
Per quanto possa piacerci l’idea, però, questo gol non è uno dei più rappresentativi del suo modo di interpretare il ruolo di punta. «Io giocavo sull’errore avversario, quindi forse il gol di rapina è quello che mi rappresenta di più».
Su un pallone vagante, chiamato da Consigli, Pellissier sbuca come un felino assiepato dietro un arbusto in limine alla savana in cui pascola un branco di gnu. «Questo, o il centesimo che ho fatto in Serie A a Palermo: sono questi i miei gol». Rapina come manifesto, quindi. Il che non significa che domini solo la fortuna: contro il Palermo nei suoi movimenti si scorge la premeditazione, la velocità di pensiero nell’anticipazione delle altrui intenzioni. «Non avevo le qualità di Ronaldo, di Del Piero, non inventavo i gol: io ero più esplosivo, cercavo l’errore, pensavo a come fregare l’avversario. Non avendo talento, qualità speciali, dovevo pensare ad altre cose per poter fare gol». Il che è, di per sé, un talento.
L’Azzurro e l’altrove
Un gol per nulla significativo di cosa fosse Pellissier in generale, come attaccante, è quello segnato nella sua prima (e unica) presenza in generale. È, però, significativo di cosa fosse Pellissier, come attaccante, in quel momento. Il 6 giugno 2009, in amichevole, l’Italia affronta l’Irlanda del Nord. Lippi la prende come una specie di esibizione di un All Star minore, convoca e manda in campo Brighi, Galloppa, D’Agostino, Dossena, Foggia, Pazzini. E Pellissier, che segna in mezza rovesciata.
«Bello, forse anche difficile. Quando ti programmi di far qualcosa di difficile non ti viene mai: in quel momento non ho pensato, la palla era all’altezza giusta e mi è venuto di spostarmi all’indietro e tirare così. È stato istintivo. Ma forse più giochi a certi livelli e più le cose ti vengono, semplicemente, senza pensare». Gli chiedo se il suo stato di forma in quel periodo, suggellato da quel gol, non potesse plausibilmente spingerlo a pensare di avere qualche chances in più in Azzurro. «Io sono vecchio stampo, non credo che meritassi la Nazionale: credo che in Azzurro debbano andare i più forti che ci sono, non chi ha fatto meglio in un anno. Adesso un giovane fa bene per due mesi e lo porti in Nazionale: lo rovini perché non avrà più un sogno, perché ci è già arrivato. Io me la sono coltivata: ho lavorato, faticato, e alla fine trovato un allenatore che mi ha voluto dare questa soddisfazione a trent’anni». Continua sul suo punto di vista, che per molti versi trovo affascinante: «La Nazionale deve essere simbolo e obiettivo massimo di un calciatore: se sei un fenomeno è giusto che ci vai anche a sedici anni, ma per gli altri, quelli che non hanno ancora dimostrato niente, c’è da fare molta gavetta».
Pellissier, però, in quel momento, di gavetta ne aveva fatta a sufficienza: «Devo ammettere che in quei due anni, tra la vittoria del campionato di B (nel 2007-2008, NdA) e la convocazione, ho dato il mio meglio. Ero fisicamente perfetto, stavo benissimo, ero dirompente: però c'erano tanti attaccanti forti, allora, e mi sentivo di non essere da Nazionale, di non meritarla». «Anche se forse, se stessi facendo quelle due stagioni ora, qualche possibilità me la sarei giocata anch’io», dice con un po’ di esprit de l’escalier. «Ma no, non mi sono mai reputato da Nazionale: mai stato un fenomeno, mai stato un giocatore che fa la differenza da solo. Io avevo bisogno di una squadra, di un aiuto».
In quel periodo, gli chiedo, devono essere fioccate offerte: «Non mi sono mai davvero visto altrove. Però avevo ricevuto richieste, gente che credeva in me. Ma io qua (intende dire al Chievo, dimostrando che la fase della recisione del cordone ombelicale non l’ha ancora superata, NdA) potevo fare la differenza, credevano in me, avevano bisogno di me». Rimanere sempre al Chievo, come dice giustamente Stefano Piri in questo pezzo, ha influito su Pellissier nella misura in cui lo ha anche un po’ limitato. Nonostante a Sergio Pellissier andasse benissimo così.
Fiducia
Perno inamovibile di un sistema copernicano ventennale di compagni e allenatori, Pellissier ha succhiato la vita calcistica fino al midollo, attingendo dalle fonti di insegnamento che chi lo circondava irrorava. Tra i colleghi, «in particolare ho due cari amici con cui ho passato tre anni insieme fantastici, non importava chi giocasse, esultavi anche quando faceva gol qualcuno al tuo posto: sono Amauri e Tiribocchi, in tre anni da loro ho rubato molto». Tra gli allenatori, soprattutto tre hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella sua carriera: «Iachini, che mi ha dato la fascia da capitano; Di Carlo, che alla fascia ha collegato a doppia mandata le responsabilità. E Pioli». «Ogni calciatore ha bisogno di un allenatore che sappia insegnargli qualcosa, ma soprattutto che abbia fiducia in lui. Tutti i giocatori che hanno avuto allenatori che hanno creduto in loro, alla fine, hanno fatto bene. La fiducia ti fa sempre fare qualcosa di più».
Nel 2006 il Chievo gioca una stagione strepitosa, qualificandosi per la Coppa UEFA. La sentenza di Calciopoli, però, ridisegna la classifica, e il club veronese si ritrova a giocare un preliminare di Champions League. È l’esatta fotografia del momento che precede il disastro. «(Nel 2007) non essendo pronti a quel tipo di competizioni ci siamo preparati per arrivare leggeri, scarichi: non abbiamo mai pensato che potesse essere un problema dopo». La partita cui fa riferimento Pellissier è il preliminare di Champions League con la Stella Rossa, «e non è che alla fine chi è passato fosse tanto più forte di noi».
La stagione degenera, e il Chievo finisce per retrocedere in B. È in quel momento che Iachini lo responsabilizza, affidandogli la fascia di capitano. «L’anno dopo c’era la rivalsa. Sarebbe stata un’annata difficile, perché dovevamo vincere, non è che potevamo…. Volevamo e dovevamo. Ogni partita per noi era decisiva, e quindi era fondamentale che tutti gli uomini fossero importanti, ma soprattutto uomini».
In quel contesto, in stagioni simili a quella trascorsa in B dopo aver sfiorato con la punta delle dita un lembo della veste delle Esperidi, le ninfe che costudiscono il giardino dei pomi d'oro della Champions League (scherzo: ma se volete il vero mito meglio che andiate su Wikipedia) tutta la squadra, incluso Pellissier, deve essersi sentita riportare alla sua dimensione naturale. In piena zona comfort, il combustibile primo del loro gioco era la fiducia reciproca. Che non è, poi, così scontata.

Foto di Stefano Novelli/ LaPresse
Ti può capitare anche, però, che un allenatore ti spezzi il cuore. All'inizio della stagione 2013-14, Eugenio Corini, peraltro suo vecchio compagno al Chievo, subentrando in corsa a Sannino, lo esclude dai titolari. Lo invia a allenarsi con la Primavera, lo relega ai margini. «Indubbiamente non me lo aspettavo, quando è arrivato sembrava che volesse ripartire proprio da me. Credeva in me, ha fatto la squadra intorno a me. Poi ha scelto altre strade, è giusto, ognuno fa le proprie scelte e deve prendersi la responsabilità delle scelte che fa».
«Non mi spiegava, e io non me ne capacitavo. Mi sono rintanato in me stesso, e mi è servito: ho capito che purtroppo tutto quello che fai lo fai in un momento specifico, perché poi passa e tu devi ridimostrare tutto. Allora mi sono messo di buona lena, come quando ero giovane: mi sono rimboccato le maniche, ho riconquistato il mio posto, ho dimostrato di valere. Devi sempre dubitare delle tue scelte. Pensare di esserti sbagliato, no?».
Per Pellissier i nodi tornano al pettine la stagione successiva, quando - dopo che durante l’estate gli era stato caldamente suggerito di cercarsi un’altra squadra - Corini viene esonerato dopo otto giornate di campionato. Gli subentra Maran, e a inizio novembre, contro il Cesena, Maran butta nella mischia Pellissier. Che segna il gol della vittoria, un gol pesante nel computo della classifica, che a conti fatti, a fine stagione, varrà la salvezza. È il suo novantesimo centro in Serie A, con cui eguaglia Van Basten e Zola. «Forse giocavo meno, ma in quella partita fortunatamente ho fatto gol ed è stata una soddisfazione riuscire ancora a fare gol, capire di essere ancora importante per la tua squadra. Quella è sempre stata la mia forza: rimboccarmi le maniche, ripartire da capo, riconquistarmi il posto in campo».
Una caratteristica che Sergio Pellissier non ha abbandonato, o smesso di esercitare, neppure ora che non scende più in campo, neppure ora che nessuna maglia con il numero 31 incarna più l’abnegazione, lo spirito, la mancata arrendevolezza di un calciatore feticcio, rappresentativo del nostro Calcio Degli Anni Zero, epitome di lealtà, sacrificio, sorpasso dei limiti imposti dal talento con l’impegno indefesso, che è poi esso stesso un talento. Un uomo che crede ai valori più fondanti in assoluto, senza vergognarsene, e che è disposto a mettere se stesso al servizio dei suoi sogni. Un uomo di calcio che attraverso un commitment quasi commovente sta cercando di perpetuare una storia che è stata anche - e forse in virtù di questo - la sua storia personale.
Sarebbe meraviglioso se avessimo tutti la fortuna di trovare un uomo, o una donna, che ci guardi come Sergio Pellissier guarda la parola Chievo.