Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Non gioco più, me ne vado
08 apr 2015
08 apr 2015
Gli ultimi anni della carriera di Steffi Graf, tra vecchie e nuove rivali e la costante ricerca del colpo perfetto. Storia di un'atleta che ha incarnato l'archetipo del gioco del tennis.
Dark mode
(ON)

A novembre del 1987, appena dopo la vittoria del Masters di New York in finale contro Gabriela Sabatini con il punteggio di 4-6, 6-4, 6-0, 6-4, Steffi Graf annunciava l’intenzione di ritirarsi a ventotto anni. Ad agosto del 1999 di anni ne aveva appena compiuti trenta, e aveva vinto l’Open di Francia contro Martina Hingis e perso la finale di Wimbledon contro Lindsay Davenport. La vittoria al Roland Garros era rimasta nella storia come una delle sue più grandi, una di quelle in cui partiva da sfavorita e che l’aveva resa felice più di ogni altra, come aveva dichiarato lei stessa dopo la partita. In generale, il torneo di Parigi era stato da sempre uno dei suoi preferiti.

Justine Henin, la cui carriera da professionista è datata 1999 – 2011, diceva, in questo tributo su Steffi Graf sul campo del Roland Garros, che la tedesca è stata uno dei grandi motivi per cui ha iniziato a giocare a tennis.

Ad agosto 1999, Graf era terza in classifica WTA, ma non era abbastanza. Dopo il ritiro, ha dichiarato a un programma radio australiano: «[...] quando ho capito che non mi divertivo più così tanto—quello è stato il momento in cui la mia mente ha iniziato a pensarci e, sai, cercavo di capire se fosse perché non volessi più giocare affatto o quale ragione potesse esserci dietro. E mentre andavo in aereo verso San Diego ho realizzato che in effetti non ero più pronta a partecipare a un torneo».

Prima

Monica Seles e Steffi Graf si sono incontrate per la prima volta nella semifinale del Roland Garros del 1989, e hanno giocato sei finali dal 1990 al 1996 su tutti i campi del Grande Slam. La loro rivalità è stata un racconto spezzato a metà dalla coltellata alla schiena subìta da Seles il 30 aprile 1993 da parte di un fan psicopatico di Steffi Graf, durante la partita dei quarti di finale del torneo di Amburgo contro Magdalena Maleeva.

Il gioco di Monica Seles era entrato nel regno di Steffi Graf come un terremoto. La finale che hanno giocato a Parigi durante il Roland Garros nel 1990 lo aveva dimostrato: quella ragazzina di appena diciassette anni, arrivata al professionismo da solo uno, aveva minato il territorio preferito della tedesca, che non era riuscita a tenerla abbastanza distante durante la partita.

Monica mangiava ogni pallina, rincorreva ogni punto, non lasciava spazio all’avversaria per pensare e, di conseguenza, ciò che di colpo usciva meno prorompente era la sicurezza di Steffi Graf. Entrambe facevano del tennis una sublimazione del gesto atletico, ma Monica aveva nei suoi colpi migliori un tocco di imprevedibilità. Forte di un talento cristallino, giocava di anticipo, con entrambi i fondamentali a due mani e dunque un’estetica di gioco nuova. Nella finale, incontrava una Steffi Graf all’apice del proprio successo, costruito invece su un gioco meticoloso e veloce, che si esprimeva al meglio quando esercitava il massimo controllo dei movimenti.

Durante il primo di questi scambi, Steffi Graf manteneva le fila del punto e Monica Seles non poteva che seguirla, arrendendosi all’ultimo mentre provava a rincorrere la ribattuta a rete. Al minuto 0:50, il rapporto si era ribaltato: la jugoslava conduceva dal fondo con la potenza dei suoi colpi e otteneva anche il punto seguente con un passaggio lungolinea, dopo aver costretto Graf, sempre più ritratta, ancora sulla linea di fondo. Infine, all’ultimo punto del match, la tedesca sbagliava proprio il suo dritto che finiva, impreciso, fuori.

Monica Seles aveva così minato il successo della sua avversaria, e l’anno successivo ne interrompeva il dominio, che durava da quattro anni, finendo prima nella classifica WTA. Tutti i se che hanno incessantemente incalzato la loro storia dopo il 1993 sono partiti dal presupposto che, senza la coltellata, Monica Seles sarebbe stata la numero uno incontrastata: era più giovane, più potente, più determinata. Più inequivocabilmente forte. In quell’anno, Seles era prima nel ranking WTA, aveva vinto il terzo Australian Open consecutivo e aveva perso solo una partita in stagione contro Martina Navratilova al torneo di Parigi di febbraio. Graf, invece, aveva perso contro Arantxa Sánchez per due volte in finale, a Miami e a Amburgo, e contro Martina Navratilova in semifinale a Tokyo.

A gennaio, nel torneo di Melbourne, Seles aveva battuto Graf disputando una partita eccezionale, con scambi spesso lunghi e tesi e pochissimi errori non forzati per entrambe: Seles non aveva sbagliato quasi mai, non aveva concesso molto e quando lo aveva fatto si era ripresa subito, forzando il suo gioco e portandolo a livelli altissimi. Dopo una delle sconfitte subìte da parte della jugoslava, Steffi Graf, rispondendo a una domanda di un giornalista su come mai la sua avversaria fosse così difficile da battere, aveva detto che i punti di forza di Monica Seles erano il desiderio di vittoria e la sicurezza. E sembrava, in questo modo, parlarsi allo specchio e chiedersi dove fosse finita: Seles la rimpiccioliva, aveva su di lei il potere della magica pozione di Alice. In quelle due parole—desiderio e sicurezza—si concentravano le difficoltà del momento per la tedesca, non solo contro Seles: era in Steffi che qualcosa non funzionava, quel meccanismo oliato e delizioso usciva ridimensionato dallo scontro con sé stesso.

Se durante la finale di Melbourne del 1993 la "Fräulein Forehand" Steffi finalmente aveva trovato un ostacolo scultoreo e la differenza era stata lapalissiana, nel 1995, sul campo dello US Open, nulla era più così chiaro. Monica Seles tornava dopo due anni dall’incidente; nonostante la ferita fosse guarita in poche settimane, le conseguenze di quel gesto le avevano provocato disturbi depressivi e alimentari, in seguito ai quali aveva visto l’anima del suo gioco compromessa per sempre. Nel 1995 aveva vinto l’Open di Canada a Toronto, il primo torneo dopo il rientro, battendo in semifinale Gabriela Sabatini, ottava in classifica e in finale Amanda Coetzer, numero ventisette, lasciando solo un gioco a entrambe. Durante questo torneo aveva dimostrato di essere in progressiva ripresa emotiva e fisica, ma il suo gioco risultava a tratti meno incalzante ed aggressivo. Era tornata, sì, ma era un’altra, almeno parzialmente: in alcuni momenti la razionalità e la grande lucidità che avevano fatto grande il suo gioco sembravano attenuarsi e andare scomparendo, in altre dimenticava la pausa e i traumi per fare esattamente ciò per cui era diventata la numero uno solo due anni prima.

Allo US Open del 1995, durante la partita dei quarti di finale contro Jana Novotna, (nel video a partire dal minuto 1:00), Monica Seles conquistava un punto “dei suoi”: con precisione, forza e talento, aggrappandosi al suo dritto e al suo rovescio con entrambe le mani.

Parallelamente, nel 1995 Steffi Graf aveva saltato gli Australian Open a causa di un infortunio, ma aveva partecipato, vincendone le finali, ai tornei di Parigi indoor, Delray Beach, Miami, Houston, ma soprattutto aveva battuto due volte Arantxa Sánchez Vicario al Roland Garros e a Wimbledon. Aveva perso una volta sola contro Amanda Coetzer a Toronto al primo turno. Come Monica Seles, ma per motivi diversi, attraversava un periodo personale molto difficile, poiché si stava difendendo dalle accuse di frode fiscale che avevano già coinvolto il padre.

Le due avevano trovato altrettanti modi per affrontare le rispettive questioni private: Seles aveva portato un po’ di irrequietezza nel suo gioco, Graf, invece, non era più sulla difensiva, riusciva a tenere un rinnovato controllo, trovando nel tennis ancora il rifugio più clemente. La finale dello US Open del 1995, che sarebbe potuta essere tesa e nervosa, è stata una ulteriore prova di grandissimo tennis. Ha vinto la tedesca in tre set, finalmente, dopo essere stata lasciata a 0 nel secondo, quando si è trovata di fronte di nuovo quel gioco incontenibile.

Sembrava aver trovato una strategia funzionante, coltivava un gioco più paziente e determinato.

Non si sa cosa sarebbe successo senza quella tragica pausa di due anni, né se il gioco di Monica Seles sarebbe ancora migliorato, né se la precisione nei colpi avrebbe continuato a sconfiggere il formidabile dritto di Steffi Graf. Quando Monica Seles aveva ottenuto i suoi primi importanti successi nel 1990, Steffi Graf era considerata la più grande tennista di sempre e aveva ottenuto un record mai più eguagliato: il Calendar Year Golden Slam nel 1988, vincendo tutti i singoli del Grande Slam e la medaglia d’oro olimpica a Seul. Per l’una si prospettava un futuro eccezionale, per l’altra la possibilità del confronto con una rivale alla sua altezza. Per questo, sarebbe pretestuoso dare per scontato che Graf non avrebbe cercato e trovato un rimedio alla qualità di Seles. Possiamo dare per certo, però, che questa è stata—e sarebbe continuata a essere—una delle più affascinanti battaglie della storia di questo sport, in cui il tennis aveva un valore che era qualcosa di più della somma delle singole parti.

Dopo

Martina Hingis è stata la prima a provare a ereditare la corona di Steffi Graf: nel 1999 si sono scontrate in una memorabile finale del Roland Garros. Il dramma, tra le due, si è compiuto sul 6-4 2-0 in favore della svizzera ed è andato avanti fino al ribaltamento completo dell’aspettativa e del risultato. Le due avevano undici anni di differenza, undici anni in cui una cresceva in fretta e l’altra diventava la più grande di tutte con velocità—e qui fretta e velocità sono tennisticamente due parole opposte, sintesi delle due diverse anime di gioco che si sono confrontate durante quella finale. Inoltre Steffi Graf da un paio di anni accusava sempre più spesso dolori alla schiena e alle ginocchia, che le permettevano di allenarsi con meno continuità e il suo gioco, improntato sulla qualità della tenuta fisica, ne aveva risentito: stava diventando l’atleta che il tennis iniziava già a rimpiangere.

Al cospetto di un grande match per la sua carriera, Hingis ha perso, ma non è stato questo il problema—contro Steffi Graf poteva succedere: ma in quell'occasione è crollata rovinosamente su sé stessa, voltando le spalle al suo sport, comportandosi come una bambina che non aveva ancora imparato quanto costasse perdere.

Non poteva diventare la più grande di tutte, non in questo modo.

Il tennis succhia concentrazione, richiede capacità di tenere i ritmi emotivi sempre alti per poter gestire quelli medi o bassi, quando l’avversario—la sua mente, il suo corpo—lo impone o quando non si inquadra il giusto percorso. Di momenti in cui i tennisti hanno perso il senno sono pieni gli archivi, ma in quello di Martina Hingis c’è stato qualcosa di imperdonabile: nella lotta fra l’emozione—quella di Steffi Graf che si è ripresa il gusto della vittoria—e la costernazione—quella provocata dalla Hingis e dalle sue promesse di colpo meno fulgide—si è compiuto un sacrilegio.

Durante la cerimonia di premiazione, la tedesca la pregava di non essere delusa, perché avrebbe avuto ancora tutto il tempo per vincere e rifarsi. Il rispetto del campo, dell’avversario, della forma è tutto: Martina Hingis aveva perso il contatto con il tennis nella sua forma più pura—questa è stata la sua colpa—e Graf gliel’aveva fatto notare, con quelle poche parole dette per consolazione. Steffi Graf non è mai stata un’atleta sofferente nei confronti del suo sport, non gli ha imputato ingiustizie o momenti tristi. Gli ha dimostrato una lealtà viscerale, che ha rappresentato uno dei pilastri del suo regno.

Ancora dopo

In un documentario di Sports Century per ESPN Classics sulla carriera di Steffi Graf alcune delle sue avversarie hanno elencato una serie di sue qualità: pazienza, resistenza mentale, straordinaria forza e resistenza fisica, preparazione atletica. Serena Williams, invece, ha posto l’accento sul valore totale della sua carriera: avere alzato il livello del tennis femminile e dunque, leggendo fra le righe, del confronto. Dopo Martina Hingis, infatti, è toccato a Serena provare a occupare il seggio vacante: oggi, dopo tanti problemi e altrettanti ritorni, l’americana può raggiungere e superare le vittorie di Steffi Graf negli Slam. Ventidue sono quelle di Graf, diciannove, ad oggi, quelle di Serena Williams.

Serena passava al professionismo nel 1995, ma la prima e la seconda volta in cui la sua carriera ha incontrato Steffi sono state nel fatidico 1999, negli ottavi di finale di Sydney prima, nella finale di Indian Wells poi. In Australia, Steffi Graf vinceva con un dritto apparentemente facile. Nel match point, dopo la battuta, Serena Williams respingeva con un dritto a effetto ma centrale, che permetteva alla regina di non cadere nella trappola: Graf cercava lo spazio per posizionare il corpo, allargare il braccio destro per aprire il dritto, caricarlo della giusta potenza e, infine, colpire precisamente, lasciando l’avversaria stretta sulla linea di fondo a rispondere male di rovescio. Steffi vinceva così, con un dritto dei suoi, uno senza troppi abbellimenti, se non quello, intrinseco, della vittoria; correva a rete con la racchetta in mano, tenuta a livello del fianco, sorridente e soddisfatta ancora una volta. Come una volta.

A Indian Wells il risultato, però, si è ribaltato. Serena riusciva a prendere le misure a Steffi: il lungo match point è stato l’esempio lampante della partita, giocata, da parte di Serena, con grande concentrazione, grinta e controllo del gioco a fondo campo. Quando Graf ha mandato fuori l’ultima respinta l’urlo di gara è diventato di gioia per Williams, che con aria fiera si è goduta uno dei primi grandi momenti della sua carriera. Steffi Graf guadagnava la rete, per arrivare il più presto possibile agli spogliatoi; Serena, invece, saltellava e giganteggiava. Lenta.

Per Martina Navratilova «il momento della vittoria è troppo breve per vivere solo di quello e niente altro», e probabilmente Steffi Graf lo sapeva talmente tanto marmorizzare da non aver bisogno di aggiunte. Ciò che appariva chiaro in quel frangente era non solo l’esplosione della potenza fisica di Serena, ma il suo carattere, l’entusiasmo, il godere della gioia banale della vittoria, esternazioni diametralmente opposte rispetto all’attitudine di Steffi, fondata su una religiosa custodia del momento.

Era questo l’altro tennis di cui tutti avevano iniziato a mormorare.

Velocità e robotica

La necessità di giocare è stata il principio fondante della carriera di Steffi Graf. Nonostante gli infortuni e le difficoltà di alcuni momenti personali, il suo desiderio si metteva al servizio del tennis e lo potenziava. In Roger Federer come esperienza religiosa David Foster Wallace scriveva: «La bellezza umana in questione è una bellezza di tipo particolare; si potrebbe definire bellezza cinetica. La sua forza e la sua attrattiva sono universali. Sesso o modelli culturali non c’entrano. C’entra, piuttosto, la riconciliazione tra gli esseri umani e il fatto di avere un corpo».

Questo concetto è applicabile, negli stessi termini, anche a Steffi Graf, ma con un’aggiunta: tutti gli strumenti che utilizzava erano parte integrante del suo corpo. Lo spazio del campo in cui si muoveva, la racchetta, le scarpe, la tecnica, la concentrazione, l’intenzione diventavano parte del colpo. Il suo celebre dritto era costruito come l’immagine del tempo perfetto, colpendo la palla a mezz'aria, dopo aver guadagnato il terreno elevandosi. Graf, in certi momenti, non ha giocato una partita, ma ha incarnato un archetipo del tennis. Ogni partita, ogni vittoria, ogni sconfitta aveva definito la sua capacità di tener fede o meno al bagaglio oneroso che portava con sé. Era facile, per questo, definirla un robot. E in effetti lo era, ma non nel senso emotivo della similitudine, quanto piuttosto in quello tecnologico. Anche nel gioco di Serena Williams spesso si nota una capacità robotica, che però risiede interamente nella forza fisica, ravvisabile fin dai suoi primi incontri importanti; è una tipologia diversa di robotica, più corporale, e piena.

Quando si sono incontrate, la determinazione strabordante di Serena ha spesso ceduto il passo alla precisione determinata di Steffi, che si muoveva sul campo con rapidità e cercava il punto migliore per mettere a segno il suo dritto irripetibile.

L'esigenza di Graf era questa: ottenere il match perfetto sempre, in qualunque circostanza, di fronte a qualunque avversario. Non era opporsi alla rivale di turno, non riguardava il mantenere un primato, era vincere ottimamente e alla svelta, come un’urgenza nascosta che sul campo da gioco si incarnava perfetta e definita.

Steffi Graf ha vinto il Roland Garros nel 1988 battendo in finale Natasha Zvereva con un 6-0 6-0 in trentaquattro minuti. Durante questo incontro, nessuno ha mai avuto l’impressione che la Zvereva potesse farcela. Graf sembrava procedere con metodo, come se avesse scritto lei stessa tutta la storia, la propria parte e quella dell’avversaria, senza concederci nemmeno un momento di sofferenza, lasciandoci nell’attesa di una vera partita ancora da iniziare. Questa finale è uno degli esempi più puri del suo gioco: durante un game del secondo set aveva concesso ben due punti e la Zvereva andava sulla linea di fondo per la sua battuta sul 30 pari. Era totalmente infelice: ha preso la pallina con la racchetta, sconsolata, poi ha servito. Sbagliando. Seconda. Graf ha piazzato un dritto dei suoi, senza pensarci troppo. Non era niente di personale, era solo vincere.

Il match point è stato vinto ancora con un dritto, il suo dritto, infilzato veloce e imprendibile. Non ha smesso nemmeno di correre: ha stretto la mano all’avversaria, è andata verso le panchine, ha salutato l’arbitro, era finita, ha infilato la giacca, salutato il coach e suo padre, era finita davvero. Ha fatto le interviste con un sorriso poco convinto, viveva in un mondo in cui lo spazio e il tempo venivano governati e mai subìti. Era la numero uno al mondo, lo sarebbe stata anche alla fine dell’anno e per i due successivi.

Sul podio si è scusata: «Innanzitutto devo dire che sono molto dispiaciuta di aver fatto così in fretta, ma... ma ero... voglio dire... mi è piaciuto moltissimo essere qui e questo è di gran lunga il Grande Slam che mi piace di più [...] ed ecco perché voglio giocare il mio tennis migliore [...] Io... spero di tornare il prossimo anno e provare a fare lo stesso e provare a giocare al mio meglio e non così in fretta! Mi dispiace... voglio dire... proverò».

Un manifesto programmatico di una tenerezza fragile e rispettosa. Fare del suo meglio equivaleva a stare nello sport ed è per questo che sapeva incarnarlo. Ed è per questo che per lei il tennis ha lasciato andare una parte di sé.

Non gioco più, me ne vado. E mi porto via un pezzo di voi

Il 20 settembre 2014 ero in coda per entrare allo stadio del Roland Garros di Parigi. Mentre ero in fila e il cielo minacciava pioggia, sapevo già dove dirigere tutti i miei sforzi: avremmo seguito un percorso obbligato, fatto di corridoi, scale, piazzali e ancora corridoi, e saremmo arrivati agli spogliatoi. A quelli femminili, soprattutto. E, se non avessi potuto mettere piede in campo, almeno sarei andata dritta dove mi serviva, facendo finta di aver appena finito di giocare la miglior partita della mia vita—da qualche parte, in un mondo parallelo, stava succedendo.

Dal minuto 1:37 fino al minuto 6:31, alcuni momenti di tre partite importanti disputate da Steffi Graf al Roland Garros: contro Martina Navratilova, Monica Seles e Martina Hingis.

Gli spogliatoi vuoti dello stadio del Roland Garros erano l’idea platonica dello spogliatoio: armadietti con ante di legno, panche scarne, pavimenti lisci, pulizia, muri coperti da mobili tutti uguali, e un’atmosfera simile a quella dei pub di pomeriggio: quando non c’è nessuno, eccetto il barista e il proprietario, entra un raggio di sole fioco, l’aria è meno densa e i dettagli si vedono precisi, e possono essere colti anche solo con una rapida occhiata. Sono corsa verso il fondo, dove i numeri erano più bassi, fino al 18bis. Speravo di essere la prima, ma una ragazza bionda e alta si stava già facendo fotografare con il pollice in alto verso l’etichetta dorata.

Nella mia fantasia il giorno in cui hanno ritirato l’armadietto numero 19, il preferito della scaramantica Steffi Graf, è successo tutto molto velocemente: è entrata, riconoscendo un approdo sicuro, l’anta numero 19 si riconosceva perché era staccata e appoggiata sulla panca di legno di fronte all’armadietto. Gli ha rivolto uno sguardo simile alla gratitudine, ma più profondo: sapeva di esserselo meritato, e ogni volta che avrebbe riguardato quello sportello di legno, l'anta dell’armadietto 19 dello spogliatoio femminile del Roland Garros di Parigi, ne avrebbe sentito il tocco più intimo. Steffi Graf ha guardato il legno qualche minuto ancora, prima di uscire, si è ripassata l’anta tra le mani, infine se ne è andata, attraversando di nuovo tutte le porte, aprendole e chiudendole come fossero di casa, diretta: quello era il suo territorio e lo sarebbe stato per sempre.

Nella realtà, invece, è stata una decisione presa prima del suo ritiro. Faccio fatica, però, a immaginare come sia conservata quell’anta a casa di Steffi Graf e Andre Agassi: è appesa come un quadro? È in un ripostiglio? Faccio fatica, perché non è facile che il tennis scardini un pezzo di sé per regalarlo a una giocatrice. Non un oggetto sostituibile né un simbolo dello spettacolo, ma una parte materiale e dura come il legno, profonda come la dedizione.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura