“I haven’t played a player as him. Ever”.
Novak Djokovic su Carlos Alcaraz (Wimbledon, 16 luglio 2023)
I passaggi dimensionali nel tennis: tre scene
Ripercorriamo tre scene, a indicare transiti simili, ma in una sorta di progressione concentrica, con esiti diversi.
Prima scena. 13 settembre 1981, Flushing Meadows, Louis Armstrong Stadium, (rimpiazzato, dal ’97, dall’Arthur Ashe): davanti a 20.000 spettatori, lo sconfitto Bjorn Borg raggiunge la rete dopo l’ultimo con Mc Genius (4-6, 6-2, 6-4, 6-3), stringe la mano al vincitore, raccoglie la borsa e si infila nel sottopassaggio che immette nelle profondità dell’impianto. Mentre, al di sopra, si allestisce la cerimonia, nel “dedalo di corridoi” del sottosuolo lo svedese si dilegua come in un wormhole: sorpassa gli spogliatoi, scansa addetti e cronisti (miti come Bud Collins, cui biascica un impercettible “arrivederci”), esce dalla porta di servizio, sale su un’auto in attesa e si fa depositare davanti a una lussuosa abitazione a Sand Point, Long Island. Il tutto senza mai esitare, come “gli uomini che non si voltano” della poesia di Montale. È, di fatto, il suo exit dal tennis: per qualcuno (il suo coach Bergelin o la girlfriend del momento Mariana Simionesciu) è anche l’esito di un rigetto da burnout; per (quasi) tutti, come ammetterà l’Orso in seguito, è soprattutto l’impossibiltà a rassegnarsi a essere ormai “oggettivamente” il numero 2. Quella sera, Mac è al quarto Slam (terzo di fila all’US Open) e ha solo 22 anni; ma Borg ne ha solo tre di più.
Seconda scena. Di nuovo una finale di Flushing Meadow, 11 settembre 2005: sconfitto a sua volta in quattro set da Roger Federer (3-6, 6-2, 6-7, 1-6), André Agassi vive quel match non come uno schianto di routine, ma come un passaggio dimensionale: «Avvicinandomi alla rete, ero sicuro di aver perso col migliore, con l’Everest della prossima generazione». A parlare, è un Agassi 35enne, che cade contro un Federer 24enne al sesto Slam; un RF, per inciso, che il primo “parricidio” l’aveva già compiuto agli ottavi dei Championships 2001 stendendo l’avversario principe di Agassi, il quasi-coetaneo “Pistol Pete” Sampras, imbattuto da 31 match (7-5 al quinto con un lungolinea-laser in risposta sul match-point). Tutto è cioè molto più fisiologico rispetto all’attrito Borg-Mac: con l’affiorare, inoltre, di un’analogia orografica - quella himalayana - destinata a ibernarsi per il ventennio dei Big Three: l’ha ripresa, lo scorso anno, anche l’impagabile Nick Kyrgios, che - battuto dal Djoker nella finale di Wimbledon - la estende ai Tre intesi come un unico organismo tricefalo: «Sai che, per riuscire a batterli, dovrai scalare l’Everest». Anche se, in realtà, quell’analogia ha dovuto essere via via rimodulata: competendo per un numero di Slam superiore ai 20, i Tre l’hanno spostata verso vette aliene, tipo gli oltre 12.000 metri delle estremità vulcaniche delle lune di Giove; lasciando l’Everest, là in fondo, ai 14 Slam di “Pistol Pete”.
Terza scena. Wimbledon, 16 luglio 2023: l’unica testa (l’unico volto rimasto, al momento) dell’organismo tricefalo, il Djoker, cade al quinto di un match-spartiacque con Alcaraz (6-1, 6-7, 1-6, 6-3, 4-6): Carlitos, infatti, è il primo nome a erompere nell’albo dopo vent’anni ininterrotti di Big Three o meglio Big Four (contando i due titoli di Murray); l’ultimo eretico, prima di lui, era stato Leyton Hewitt (2002).
Rispetto alle prime due scene, quella dell’altra sera- in cui il range tra il breaker e il detronizzato si amplia ancora: ben 16 anni - è però di tutt’altro tono, timbro e portata: non ha né l’elusività drammatica della prima, né il senso di ratifica disadorna della seconda. E questo soprattutto per il memorabile “discorso” post-match del Djoker (a somma tra il “commento sul campo” e la conferenza-stampa), che potremmo definire un vero “discorso del re”, non fosse che a quelle latitudini il Re è uno, anche per il primato conservato (8-7) grazie a Carlitos.
Un discorso in ogni caso di una lucidità, una spietatezza e una “nobiltà” (la”nobiltà” della “sua” antica Serbia signorile-medievale, quella dei monasteri ortodossi che lui stesso sovvenziona) sorprendenti solo per chi giudichi Nole dalla superficie, magari fermandosi ai suoi deliri olistico-new age (nickname Novax).
In quel discorso, il Djoker torna totalmente in controllo, dopo averlo perso in maniera evidente (eclatante) solo al break subìto nel quinto, con la racchetta sventrata contro il palo di sostegno della rete, lato giudice. Anche se non è il caso di fare moralismi: sulla cover del nuovo libro di un grande fisico e scienziato cognitivo come Leonard Mlodinow (Emotional) campeggia proprio una racchetta in pezzi, simbolo della tensione tra il pathos e il controllo non solo nel tennis, ma in ogni ambito della vita psicologica e sociale. Quel cedimento altro non è, per il Djoker, che la “notifica” della sconfitta imminente.
Il fatto è che in realtà il controllo pieno non l’ha mai davvero avuto, se non nel primo set: un 6-1 inflitto a un Alcaraz tra il choking e il “blocco”, che sembra echeggiare la crisi (neuropsicologica prima che muscolare-elettrolitica) della semi di Parigi. Poi, man mano che Carlitos scioglie e libera il suo tennis (un buon termometro, al riguardo, è il grado di resistenza che oppone al servizio di Nole, come in passaggi di stato, da gassoso a liquido a solido), il Djoker sente allungarsi nel proprio inconscio agonistico ombre mai avvertite prima. Sia chiaro: resta convinto fino all’ultimo, o almeno fino allo stesso break subìto nel quinto, di poter prevalere nonostante tutto: dove quel nonostante tutto concentri l’irruzione di un senso di “unfamiliar” che di solito è lui a incutere. Quelle ombre e quell’ “unfamiliar”, del resto, vengono avvertiti - almeno a partire dal tie break del secondo set, ma forse già prima - anche dal suo player box, inusualmente passivo e malinconico: i genitori congelati; Jelena (la “seconda Jelena” della sua vita dopo “Jeca” Genčić, la sua madre-maieuta) col volto spesso velato da una maschera di pianto imminente; Goran Ivanisevic mai così contratto e presago del peggio.
Non solo: simultaneamente alle ombre e all’ “unfamiliar”, l’inconscio del Djoker viene pervaso via via anche da un senso di ammirazione per Carlitos e per il suo tennis: l’anziano savant- come un grande musicista che si imbatta in un suo pari grado- è impaurito e affascinato, quasi ammaliato, dal nuovo suono che sta udendo; tanto più che il Djoker, proprio grazie a Jeca, di musica è un intenditore sopraffino. E quell’ammirazione emergerà poi in chiaro- prima che nel discorso- nella postura fiera con cui il serbo, ritto sul green, osserva il vincitore premiato dai Reali (qui, da guerriero a guerriero).
Il discorso del Re: Alcaraz come possibile sintesi dei Tre
Tra commento sul prato e conferenza-stampa, il Djoker affronta diversi aspetti, contingenti e non, della propria parabola. Risale ad esempio - con orgoglio e forse una venatura di perfidia verso un pubblico che l’ha sempre temuto e mai amato - alla vittoria del 2019 contro l’Apollo, vedendovi la concessione di un “patto divino”che stavolta, a compensazione, ha voluto sfavorirlo. Oppure, delineando il futuro a breve del tennis, spera che ne sia segnato da questa rivalità neonata, pur negli ovvii limiti temporali: [Alcaraz] «sarà nel circuito a lungo, io non so invece quanto ancora sarò qui». Ma tutto il resto è un lungo, articolato “esercizio di ammirazione”, in cui il trasporto prevale nettamente su ogni eventuale autoinganno e/o calcolo: sulla tentazione, cioè, di esaltare Carlitos per elaborare la propria disforia, “giustificarsi” al mondo o enfatizzarne le doti per potersi auto-glorificare il giorno in cui dovesse batterlo nuovamente. Il Djoker è così in alto - sullo Ionian Mons, luna gioviana di Io - da non dover certo ricorrere a dissimulazioni di quel genere.
In quell’esercizio, Nole impiega a catena aggettivi impegnativi e iperbolici (“impressionante”, “incredibile”) con assoluta naturalezza, elogiando in Carlos qualità generali (la completezza, la precocità quanto a “maturità” e “forza mentale”) e momenti particolari (“i punti davvero, ma davvero incredibili” dell’ultimo game del match). E lo fa, soprattutto, quando a domanda esplicita (“Chi ti ricorda Alcaraz?”) dice di concordare con chi ne vede una sintesi dei Big Three. In particolare, Nole compara Carlitos a Nadal per la “mentalità da combattente”, per l’essere “super-competitivo” e per l’associare “un grande spirito di resilienza a incredibili capacità difensive” (puntualmente emerse nella finale). Lo paragona a sé stesso, invece, per uno skill tecnico-stilistico (la “capacità di scivolare e di giocare il rovescio”) e soprattutto per la prensilità adattativa verso “tutte e superfici”, che il Djoker considera, con la stessa “capacità difensiva”, il suo proprio punto di forza “in tutti questi anni”.
Eccolo, il discorso del Re.
E se su Federer non ci sono focus specifici, a colpire è l’endorsement conclusivo: «Posso dire di non aver mai giocato con qualcuno di simile, sono onesto. Roger e Rafa avevano le loro incredibili forze, ma anche qualche debolezza». (Sottotesto: lui, no. E sottotesto ancora più impegnativo: il discrimine anagrafico c’entra si e no, comunque meno dell’interazione “strutturale” e mentale con un giocatore che non riesco del tutto a sottomettere, o non più, ai miei “mind games”).
Comparazioni e contaminazioni simili - lo ricorda lo stesso Djoker - sono già state avanzate da altri. Per esempio da Mats Wilander, che qualche tempo fa riconduceva ai Tre alcuni tratti tecnico-agonistici di Carlitos, in parte anticipando il Djoker stesso: la “potenza dalla baseline e la combattività” a Nadal; la “varietà dei colpi” a Federer; la “forza difensiva” (rieccoci) a Nole. Può darsi che questi accostamenti reggano, almeno in parte. Ma, allo stesso tempo, non sarebbe difficile trovare, anche solo a uno sguardo esterno, le immediate specificità di Alcaraz: il suo rapidissimo dritto assassino, specie incrociato, è lontano dalle rotazioni parossistiche del topspin di Rafa; il suo touch e la sua manualità sono lontani (o comunque diversi) da quelli dell’Apollo Federer; le sue difese estreme, solo qualche volta accostabili alle “strisciate” controrsionistiche del Djoker.
«Non ci sarà mai un altro Rafa. Io sono Carlos.», ha risposto una volta il ragazzo, con un mix di candore e orgoglio, a chi gli chiedeva se se ne sentisse l’erede, anche per via della nazionalità e dei “vamos”. Ed è da questa elementare rivendicazione che bisogna partire, associandola alla frase già cult del Djoker: a quel “I haven’t played a player like him. Ever”.
Non prima, però, di aver fatto un’ultima zoomata su una cerniera decisiva che lega Nole a Carlos.
Il Djoker e Carlitos allo specchio: 300 e il cervello come “macchina bayesiana”
Pochi sanno che il Djoker e Alcaraz condividono lo stesso fim di culto: 300 di Zack Snyder (e del geniale fumettista Frank Miller), apoteosi, parecchio semplificata, della resistenza degli spartani di Leonida contro i persiani di Serse (in sovrannumero) alle Termopili. Il Djoker se l’è riguardato, ad esempio, la sera prima della finale US Open 2015, poi vinta in quattro set contro Federer; piazzando oltretutto nel proprio player box, per l’occasione, l’attore protagonista Gerard Butler-Leonida, amico con cui ha anche girato un video in cui gridano all’unisono “This is Sparta”, metafora delle difese a oltranza del Djoker. Ma anche Carlitos, a sua volta - per inciso amicissimo di un altro Butler, Jimmy, formidabile guardia dei Miami Heat - s’è guardato quel film la sera prima di una finale US Open (2022, vinta contro Ruud), svaccato su un divano a fianco del fratello maggiore Alvaro. Coincidenze? Mimesi del training del Djoker, come confermerebbe lo “spy-gate” di quest’anno a Wimbledon, con le “riprese” del padre di Carlos sulle sedute del serbo?
In ogni caso, lo snodo è un altro. Fra i tratti distintivi e seducenti di 300, risalta quello di far coincidere, nei momenti decisivi di un combattimento, il “punto di vista” degli eroi” spartani con quello di un grande atleta: ovvero con lo slowdown, il “ralenti” della visione “in soggettiva” in cui si traduce- paradossalmente- la velocità di un fuoriclasse nell’intercettare-elaborare una grande quantità di informazione dall’ambiente circostante. Il processo, studiato dai neuroscienziati su diversi atleti di vertice, da Messi a Steph Curry, è piuttosto controintuitivo: maggiore è la velocità con cui il cervello di un fuoriclasse decifra e seleziona l’informazione (sul rapporto tra il proprio corpo e i compagni, gli avversari, la porta e il canestro, etc.etc.), più si dilata il tempo a disposizione per orientare le scelte a livello di giocata tecnica e di intelligenza cinestetica (i movimenti corporei); nelle quali, va da sé, a sua volta il fuoriclasse eccelle. Lo vediamo, oltre che in 300, in una serie Tv a sua volta adorata dal Djoker e dalla sua famiglia: Flash di Greg Berlanti. Quando il velocista scarlatto, ad esempio, deve salvare qualcuno o disinnescare un ordigno nucleare che annienterebbe una città, si muove a suo agio in una folla di esseri umani “congelati”: la sua altissima velocità (di corsa di pensiero) fa sembrare “immobili” gli astanti e “morto” il mondo circostante.
Come altri fuoriclasse, anche il Djoker e Alcaraz dispongono di questo surplus neurobiologico, di questa facoltà- insieme genetica e appresa- di intercettare-processare l’informazione per orintare al meglio le opzioni atletiche e tecniche. Ma vi aggiungono un’ulteriore, comune “superpotere”, sottostante a uno dei loro fondamentali-monstre: la risposta al servizio.
Il problema l’aveva già intuito bene il grande Foster Wallace nel suo libretto su Federer, quando- analizzando il servizio di Mario Ančić, media 210 km/h - valutatava in una media di 0,41 secondi il tempo per organizzare la risposta; un tempo, cioè, insufficiente per il “gesto deliberato” e più attinente alla “sfera operativa dei riflessi, delle reazioni puramente fisiche che travalicano il pensiero consapevole”. Se la premessa è corretta (e lo è, semmai anzi da integrare ricordando che i servizi viaggiano ora spesso oltre i 250 km/h, col tempo di risposta ridotto a un terzo di secondo) non bastano più i surplus canonici dei grandi “risponditori”. Non basta l’“estremo controllo del corpo” che Andy Roddick ammirava-detestava in Federer, quando l’Apollo “reagiva” ai suoi servizi (225 km/h) muovendosi solo all’ultimo microsecondo, come un grande portiere davanti a un rigorista; né bastano le più sofisticate tecniche cinetiche, come il singolo “passo orientato” dello stesso Djoker (opposto al “doppio passo” di scuola spagnola in cui è rimasto a lungo intrappolato Nadal) per “rubare” il tempo all’esecuzione. Oggi - lo ricordava Alcaraz stesso in una conferenza-stampa a Wimbledon- “bisogna andare oltre”: la risposta al servizio esige letture apriori, anticipate e “proiettive”, col ricorso (del tutto subliminale) a configurazioni previsionali riconducibili alle cosiddette “statistiche bayesiane”. Sembra intimidatorio, ma non lo è.
Thonas Bayes (1702-61) è stato un ministro presbiteriano e matematico inglese dalla parabola tormentata, morto nel più totale anonimato: cardine dei suoi scritti, usciti postumi grazie a un amico, è il concetto-chiave di “probabilità condizionata” tra un evento a e un evento b; la probabilità, cioè, che si verifichi a sapendo che si è verificato b. In contrasto a Kant, è una sorta di “apriori basato sull’esperienza”, o sulla memoria selettiva. Per un tennista in risposta al servizio, che debba quindi “conoscere dove rimbalzerà la palla”, tutto questo si traduce in uno schema in grado di integrare la “valutazione sensoriale” della traiettoria della stessa. I sensi- ricorda Zach Schonbrun, massimo studioso di questi aspetti- sono infatti approssimativi, specie rispetto allo spin, al vento che devia la pallina, etc.etc.; e diventa utile, quindi, il ricorso all’aspettativa di vederla rimbalzare “in un punto atteso”, in base a un ‘esperienza che integri memorie generali (sui tanti atleti affrontati e il loro modo di far interagire postura, cinetica e tipologia di servizio) e specifiche (sull’atleta da affrontare in giornata, di cui si sia studiato al dettaglio il servizio in tutte le sue varianti direzionali e di tocco: flat, slice e kick). È uno schema cognitivo che si nota bene, tra l’altro, anche nei liberi di eccellenza del volley, come il francese Grebennikov, in grado di capire “dal tipo di rincorsa” dove e come uno schiacciatore avversario indirizzerà la palla (in diagonale, in parallela, in pallonetto).
Ora, proprio Djokovic e Alcaraz sono oggi le più potenti “macchine bayesiane” del mondo tennistico: i massimi interpreti di una “risposta” che diventa “proattiva” più e quanto il servizio stesso. Il Djoker l’ha toccato con mano a Wimbledon, specchiandosi (rivedendosi) in certe risposte pietrificanti di Carlitos, come quella dell’8-6 nel tie break. E in generale, sempre a proposito di facoltà previsionali, si è specchiato e rivisto anche nella capacità “scacchistica” di anteleggere-orientare lo scambio; non casuale, dato che Carlitos, su insegmamento del nonno, è anche un eccellente giocatore di scacchi. Di più: attraversandolo, lo specchio, Nole si è trovato- come Alice- davanti a un enigma impentrabile come il testo del Jabberwocky: “I haven’t played a player like him. Ever”.
“Io sono Carlos”
Il gioco di Alcaraz, come vedremo, è caratterizzato soprattuto (per l’avversario) da una disturbante ambivalenza, da una sorta di “dualità” nel senso della fisica. Ma è una “dualità” che riassume e caratterizza già i suoi tratti esteriori, somatici e culturali.
Nativo di un paesotto nei pressi di Murcia (non lontano dal deserto di Tabernas, location dei film di Sergio Leone amati da Berrettini), il muchacho ha scorza proletaria, quasi rurale, con quel volto da “ragazzo di vita” pasoliniano o meglio- specie quando si apre in quel sorriso luminoso e ruvido, quasi primitivo - da apostolo del Vangelo secondo Matteo (in cui il Cristo era interpretato da uno studente basco). Nello stesso tempo, però, è anche un un guerriero spartano che sembra uscito proprio da 300, il suo film di culto, come sintetizzano i suoi tratti agonistici: l’entrèe e il pre-partita agitati, i primi urli-vocalizzi che si librano nell’aria, l’eco tonante del suo dritto, la tartaruga addominale “distrattamente” esibita sotto la maglietta (o, fino a qualche tempo fa, la canotta fluttuante da tamarro).
Dopo di che, sia per spiegare la fondatezza di quell’analogia guerriera che per sfumarla, è utile un breve focus sulla genesi di Alcaraz tennista, sul suo rapporto genetico/appreso.
Anche Carlitos - come molti altri nel circuito - è “figlio d’arte”: di più, viene allevato in un famiglia - ricorda il padre Carlos senior - in cui il tennis è vissuto “come una religione”. Ex giocatore degli anni ’90, Carlos senior è effettivamente un proletario, tanto da vedersi troncata la carriera pro, a 18 anni, per difficoltà finanziarie; e cerca così - siamo in pieno schema Leopold Mozart - il riscatto proiettivo nel figlio, mettendogli la racchetta in mano già a tre anni (forse un altro record). Patologicamente protettivo e ossessivo finché si vuole, ha però il merito di addestrarlo con competenza mirata, distribuendo ad esempio il training settimanale di cinque giorni su superfici alternate (tre su clay, due su terreni “duri”), in modo da fornirgli un imprinting per la plasticità adattativa a venire. In più, a un certo punto - il discrimine è la vittoria al Masters under 14 di Londra - il padre capisce che è il momento di farsi da parte, di affidare Carlitos all’Eden tirannico dell’Academia Equelite di Villena, il vasto reame del “mosquito” (zanzara) Juan Carlos Ferrero, ex numero del mondo e a tutt’oggi mentore-maieuta del ragazzo.
Da sùbito - lo ricorderà lui più volte - Ferrero resta impressionato dall’“aura” di Carlitos: da un dono che lo stacca dagli altri ragazzini come un primo piano da uno sfondo. Ma l’aura (il talento) non basta: sul “genetico” andrà innestato- armonizzato- l’ “appreso”; e in questo, il contributo di Ferrero sarà desicisivo per Alcaraz quanto quello di Jeca per il Djoker, anche se ad “altezze” biografiche differenti (Jeca dai 5 ai 12 anni, “el mosquito” appunto dai 14 in poi). Tanto da far maturare tra i due un rapporto simbiotico, una dipendenza reciproca. Da un lato, non c’è match in cui Carlitos non cerchi con lo sguardo la sua “guida”, praticamente prima e dopo ogni colpo; anche se col tempo, va da sé, saprà auto-auscultarsi e autonomizzarsi. Dall’altro, il maieuta si è a tal punto affezionato all’allievo da venirne travolto emotivamente, come ricordano due lunghi, toccanti abbracci post-match: quello dell’anno scorso a Miami (quando, appena colpito dalla perdita del padre, il “mosquito” va a salutare Carlitos al “primo 1000”); e quello dei giorni scorsi a Wimbledon, di struggente intensità.
L’Alcaraz che vediamo adesso - beninteso, tutt’ora in crescita-evoluzione - è in larga parte l’esito di quel lavoro, a ogni livello. È soprattutto grazie a Ferrero- oltre che al resto del team: preparatori, medici e fisioterapisti, psicologi- che Carlitos ha sviluppato quella mediazione unica tra forza ed elasticità per scolpire i suoi tratti morfo-anatomici (184 cm. per 78 kg.); quel dinamismo di corsa che gli consente una copertura del tereno full-court e quindi soluzioni estreme sia offensive che difensive; quella manualità che gli permette di alternare alla potenza-prepotenza, quasi alla “violenza” di certi colpi- a partire dal dritto incrociato- la “grazia” di altri opposti per timbro e tono, a partire dall’ormai celebre drop shot.
Pietra e seta, onda e particella
Ed è proprio questa completezza-varietà, com’è noto, a fondare il suo brand tennistico. Che si traduce, in generale, soprattutto nella capacità di “slogare” la dinamica di uno scambio, di giocare un colpo vincente - ha scritto Fabio Severo - come fosse «un’ alterazione della fisica dello scambio che l’ha preceduto». Questa facoltà - ricorda Severo - appartiene anche ad altri grandi giocatori, come il Djoker stesso (vedi un match all’Australian Open 2011 contro l’Apollo); ma nessuno l’ha mai esercitata con la frequenza e coi modi- cioè coi colpi- di Carlitos, come dimostra in modo eclatante l’ottavo game del quinto set contro Tsitsipas all’US Open 2021, vinto da Alcaraz 7-6 dopo aver perso 0-6 il quarto. Game vinto a 30 con quattro colpi (due dritti incrociati, un rovescio lungolinea e uno incrociato) davanti a cui il greco è “inerme, quasi spaventato”.
Quegli esempi si riferiscono principalmente a “slogature” di traiettoria e/o di forza: a Wimbledon, il Djoker ne ha sperimentate diverse, spesso esasperato nel vedere un proprio potenziale vincente seguito non da un colpo di contenimento, ma da un vincente di Carlitos. Per frangere il determinismo intrinseco di uno scambio, però, Alcaraz dispone di una tastiera ben più estesa, fatta di angoli, di tocchi, soprattutto di variazioni ritmiche: di un intero ventaglio, in sintesi, di possibili manipolazioni dello spaziotempo tennistico.
Torniamo alla “dualità”, stavolta a livello tecnico-strategico.
In generale, Carlitos sembra riassumere in sé l’evoluzione del tennis in senso darwiniano, o meglio del Sapiens e della sua tecnologia: i suoi colpi da fondo sembrano spesso scagliati da una clava (secondo Bucciantini e Ferrero il remoto “antefatto” tecnologico della racchetta); mentre certi suoi colpi “di sensibilità” - lob al millimetro, anche in tweener, volèe con angoli stretti, ovviamente i drop shot- sembrano produrre il suono di un violino. Se vogliamo, la pietra e la seta.
Lo snodo decisivo consiste nella prossimità plastica, quasi metamorfica di quei due estremi (la clava e il violino, la pietra e la seta), tale da non rendere leggibile- intuibile- per l’avversario il ricorso all’uno o all’altro dei due “stati” cui viene modulato di volta in volta il colpo. A dirla tutta, il termine “stati” evoca la dualità principe in natura, quella tra onda e particella nella fisica subatomica. Perché se è vero che le metafore scientifiche sono sempre insidiose, in questo caso può essere piuttosto esplicativa.
Tutto si origina nel contrasto tra i due Thomson, Joseph John e George Paget (padre e figlio), fisici inglesi: nel 1897 il pimo scopre l’elettrone, attribuendogli le caratteristiche di particella; ma nel 1911 il secondo dimostra che quella particella ha anche le caratteristiche di un’onda. Il luciferino Peter Atkins, grande fisico-chimico, si diverte a immaginare i due Thomson, al riguardo, “seduti a tavola in un silenzio gelido”. Più tardi, si scoprirà che la stessa natura “duale” si applica anche al “raggio di luce”, “fascio di particelle” (i fotoni) che possono “oscillare come onde”.
Così è, per certi versi, il tennis di Carlitos, dove la “dualità”- l’ambivalenza- disorienta spesso, fino a esasperarlo, l’avversario: se da una parte- come abbiamo visto a proposito di lui e del Djoker in quanto “macchine bayesiane- è efficace come pochi nel radiografare le opzioni e le scelte altrui, lo è come nessuno nel velare le proprie. Diversi suoi colpi- diverse sue soluzioni- rimangono infatti nascosti o “travestiti” fino all’ultimo, lasciando l’avversario stesso nel dubbio se la pallina gli arriverà in modalità di particella o di onda: tanto che quando se ne accorge, spesso, è troppo tardi, e il punto è perso.
Tornando alla lettera del tennis, quell’ambivalenza è riscontrabile in quasi tutti i fondamentali: in un servizio sempre più vario, non solo incentrato sull’amato kick, e quindi sempre meno leggibile; in un rovescio dalle sfumature sempre più estese tra gli estremi del bimane con racchetta brandita a “Durindana” (la spada di Orlando) per sparare lungolinea vincenti e un back-slice monomane ora quasi cesellato, praticato con profitto a Wimbledon anche grazie alle solecitazioni di Martina (Navratilova); nel dritto stesso, col famoso diagonale assassino (arrivato a Parigi, contro Tsitsipas, a 184 km/h) alternato a più colpi in top e persino a qualche taglio in slice (vedi oltre).
La sintesi e l’apoteosi dell’ambivalenza-dualità tecnica di Carlitos sta però, va da sé, nel drop shot. L’anno scorso, il bravissimo Simon Briggs vi ha dedicato sul Telegraph un lungo articolo, decrittandone vari aspetti: la percentuale di successo (80% dei tentativi); la prevalente esecuzione col dritto, al contrario del “canone”; la palla colpita “da una posizione profonda, dietro la linea di fondo” (“cosa straordinariamente difficile, ma che a lui riesce con assoluta naturalezza”); e soprattutto, attraverso le parole di Tim Henman, il carattere “furtivo”, celato, del gesto. Secondo Henman, in particolare, quella palla corta è ininituibile perché Carlitos, a differenza di chiunque altro, nell’eseguirla non cambia l’impugnatura: apre il dritto e solo all’ultimo “invece di rilasciare la testa della racchetta, colpisce sotto la palla”.
Il punto-chiave, alla fine, è proprio la capacità di nascondere in quella prossimità manuale l’enorme distanza (di spazio e di peso della palla) tra i due colpi che ne possono derivare: tra un colpo violento (o anche solo un “dritto convenzionale”) e la smorzata stessa. In un cesellatore come Musetti - ma persino nel sommo Federer - la smorzata è coerente con gli altri colpi del repertorio, o almeno col flusso dello scambio in corso: quando viene giocata, è un’infiorescenza che si dirama su un albero. In Carlitos, quella coerenza - quella contiguità categoriale - non c’è: il drop shot è un’orchidea che esce da un cannone, producendo un radicale cambiamento di scena.In termini filmici, quella di Musetti è una dissolvenza, quella di Alcaraz è uno stacco, che fa trovare l’avversario, per abruption, nel “deserto del reale”.
Il paesaggio è mutato, non stravolto
Torniamo, a fine percorso, al match di Wimbledon, e al perché il Djoker si sia espresso in termini così impegnativi su Alcaraz. Il sunto è che specchiandosi in Carlitos- e poi attraversando lo specchio- Nole ha sperimentato i vari aspetti (tecnici, strategici, psicologici) di quel gioco così difficile da affrontare.
Seguendo in parte la cronologia del match, il primo aspettto è la “forza mentale”, ovvero la capacità di elaborazione neuropsicologica, che il ragazzo dimostra assorbendo il choking iniziale, ripartendo palla contro palla e aspettando l’emersione del proprio tennis senza forzarne i tratti (a lungo, non gioca drop shot).
Il secondo è l’assunzione del rischio nei momenti decisivi: vedi la gestione “estrema” del tie break nel secondo, cioè in una situazione borderline, in/out, in particolare il sublime drop shot fintato in contropiede del 5-4, che manda fuori giri il Djoker (da lì verranno il “warning” per il servizio e forse anche gli errori a rete di rovescio, nonostante il raggiunto set point) e la citata risposta di rovescio lungolinea, pietrificante, dell’8-6. O vedi- andando per un attimo in flashforward- la stessa gestione nei primi tre game del quinto set, compreso quello perso, con una catena di attacchi a rete, passanti, un altro drop shot eccelso, difese parossistiche, attacchi in pressing-forcing (veri uno-due pugilistici, col dritto usato al limite del controbalzo) a spostare il Djoker in angoli impossibili. O ancora, l’ultimo game citato dal serbo, con gli scambi sullo 0-15 (drop shop agguantata dal Djoker e lob molecolare a seguire) o sul 15 pari, con la prodigiosa volèè di rovescio in allungo su un passante altrettanto molecolare del Djoker. Simile assunzione del rischio- praticata spesso anche dal Djoker- spiega anche, per inciso, il perché di un match in apparenza discontinuo, spartito tra fiammate esaltanti e sequele di errori tecnici e/o strategici: tali errori, infatti, sono spesso conseguenza della forte pressione reciproca esercitata dai contendenti, sia tecnica che psicologica.
Il terzo aspetto è la resistenza-resilienza monstre in altri momenti decisivi, come nella sacca “quasi nauseante” (Giorgio Di Maio) del quinto game del terzo set, quello del secondo break e del 4-1: non per la prima volta, ma forse mai in questi termini, il Djoker trova qualcuno disposto a portare il “braccio di ferro” fino al tramonto.
Il quarto è infine la duttilità stategica distribuita lungo tutto il match, ben riassunta dalla modulazione di Carlitos verso il drop shot: praticato poco o nulla nei primi due set (e nei rari casi puntualmente disinnescato dal Djoker) viene impiegato ad autostima riacquisita- anche in momenti critici- sia in sé stesso sia come esca”- insieme a strane palle di dritto slice a metà campo- per calamitare Nole a rete e trafiggerlo poi con passanti o lob (vedi proprio il primo game del quinto).
In appendice a una prova simile, pardon a un torneo (vedi, dopo i sussulti con Jarry, le liquidazioni di Berrettini-Rune-Medvedev) oggettivamente esaltante e sconfinato nell’epica, restano forse da svolgere un paio di aggiustamenti di tiro.
Da un lato, va registrato come il doppio Slam di Alcaraz (a 20 anni) muti in profondità il paesaggio ma non lo stravolga, come suggerisce anche solo una prospettiva a breve-medio termine. Quel che resta dei Tre non è propriamente residuale: Nadal è forse al passo d’addio, ma il Djoker, per due-tre stagioni, contenderà ancora a Carlitos tutti gli Slam possibili. La generazione “di mezzo” (i russi, Zverev e Tsitsipas) costituirà comunque un attrito. E la Next potrebbe cominciare a incidere: Sinner non può restare ancora a lungo Godot e Rune è già una minaccia.
Dall’altro- nonostante la prevalenza dei “benefici”- non vanno sottovalutati i “costi” del tennis di Carlitos. Il suo gioco (ecco di nuovo la venatura “spartana”) è altamente dispendioso in ogni gesto e corsa, in quanto sollecitazione incessante di un apparato osteomuscolare (in parte costruito, vedi bicipiti e quadricipiti) possente e plastico, ma “esposto”. Nell’ultimo anno ha dovuto fermarsi più volte, rinunciando all’Open d’Australia, per diversi motivi: uno strappo addominale, una lesione alla coscia destra, un’ artrite post-traumatica alla mano sinistra, per ricordare solo gli infortuni principali. In questo, Carlitos è lontano anni luce dalla preservazione naturale dell’Apollo-Federer, la cui compostezza classica, posturale e cinetica, è stata- secondo Andy Roddick- il vero segreto della sua non comune longevità; ed è lontano anche dal Djoker, longilineo dalla massa magra comunque meno incline agli infortuni, traumatici e non. In questo- ed è forse l’unico aspetto- il ragazzo è davvero prossimo a Nadal.
La conclusione somiglia a un crudele paradosso: il vero, più temibile avversario di Carlitos potrebbe rivelarsi il suo stesso corpo: quel corpo alla base del suo tennis unico. Se così fosse, del resto, si potrebbe fare relativamente poco: il suo gioco creativo-costruttivo- come ricorda spesso Ferrero- è on/off, non ammette mediazioni in quel senso. Resta solo una sommessa preghiera (laica) da indirizzare agli dèi del tennis, gli stessi che ci hanno donato i Tre.
Nelle sue “imbeccate” a Carlitos per il tennis “su erba”, Martina suggeriva, oltre all’impiego del rovescio tagliato (“A nessuno piace veder arrivare uno slice, e tu lo esegui davvero bene”) un maggior numero di salite a rete: “non perché tu ne abbia bisogno, ma perché è così bello vederti lì”. In realtà, quelle salite si sono rivelate a volte risolutive, al punto che dopo la finale, incrociandola, Carlitos ha ringraziato Martina. Ma la frase finale, l’apprezzamento estetico in sé (“perché è così bello vederti lì”) resta a prescindere: anzi, potremmo svincolarla dal riferimento alla salita a rete e allargarla alla semplice presenza di Alcaraz su ogni campo in ogni materiale (rosso, verde, azzurro) per un futuro che sia il più esteso possibile.
We haven’t seen a player as you, Carlos. Ever.