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Marco Gaetani
Non abbiamo capito Roy Hodgson?
18 apr 2023
18 apr 2023
Ricordo della sua esperienza all'Inter, oggi che a 76 anni è tornato clamorosamente ad allenare.
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Marco Gaetani
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IMAGO / WEREK
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«Allenare è un piacere masochistico. La sofferenza non finisce mai. Tanti allenatori giovani vengono da me e mi chiedono: “A un certo punto diventerà più facile? Ci si riesce a rilassare durante le partite?”. La tragedia è che devo rispondergli: “No, non farà che peggiorare”. Durante le partite soffro tantissimo. In un certo senso è divertente, anche se il cuore continua a battere troppo forte»

Roy Hodgson

Quando il Crystal Palace ha deciso di mostrare la porta a Patrick Vieira, richiamando in panchina un allenatore nato il 9 agosto del 1947, che agli occhi della critica italiana sembra un pezzo da museo almeno da una decina di anni, in molti hanno pensato che fosse il preludio al tracollo. E invece Roy Hodgson, con la sua faccia più inglese del Big Ben, uno che solamente due anni prima aveva lasciato il pubblico di Selhurst Park con una dichiarazione d’amore al Crystal Palace e al calcio, salvo poi rimettersi la tuta per provare (invano) a salvare un Watford in caduta libera, è ripartito come se nulla fosse, regalando alla squadra che aveva dato il via alla sua mediocre carriera da calciatore tre vittorie nelle prime tre partite. Una boccata d’ossigeno per una squadra che ora sembra essere finalmente in salvo dopo un enorme spavento.

«He’s one of our own», avevano cantato i tifosi nel giorno di quello che sembrava il suo addio al calcio. L’immagine che abbiamo di Hodgson in Italia oscilla sempre pericolosamente verso il meme: ci ricordiamo il mister Flanagan di Mai Dire Gol, l’umiliazione di Maurizio Mosca che in un collegamento lo accusa di essere stato la rovina dell’Inter, l’onta eterna dell’aver preferito lasciar andare via Roberto Carlos dopo una sola stagione. Ma Hodgson è stato molto di più, e provare a rivivere la sua prima esperienza nerazzurra può servire a rimettere in ordine le idee su un allenatore che per il calcio inglese (ed europeo) ha rappresentato una figura di profonda rottura, nonostante le apparenze.

L’azzardo di Moratti

Il nome di Roy Hodgson appare per la prima volta come potenziale candidato per una panchina italiana nel giugno del 1995. Lo vuole l’Udinese, alla ricerca di un allenatore rampante per guidare la squadra. In quel periodo, Hodgson è l’apprezzato commissario tecnico della Svizzera. Non ha neanche cinquanta anni eppure allena da quasi venti stagioni. Era arrivato in Svezia, alla guida del derelitto Halmstad, nel 1976, su raccomandazione di un vecchio amico, Bob Houghton, che in quel periodo allenava il Malmö. Al timone di una squadra accreditata da tutti come certa retrocessa, il 29enne Hodgson aveva pennellato la sua Gioconda, portando la squadra a vincere il titolo in maniera clamorosa: mai l’Halmstad ci era riuscito in sessanta anni di esistenza. Hodgson e Houghton avevano portato nel calcio svedese una rivoluzione in piena regola, introducendo il 4-4-2 e la marcatura a zona in un movimento ancorato all’utilizzo del libero e della marcatura asfissiante a uomo.

«Se qualcuno, nel 1976, mi avesse detto che avrei fatto questo lavoro fino a 70 anni, gli avrei riso in faccia. Ricordo che parlavo spesso con Houghton: “Non sarebbe fantastico allenare per dieci anni, risparmiare un po’ di soldi e aprire un’agenzia di viaggi insieme?”. Non riuscivamo a immaginare un futuro nel mondo del calcio». Dopo un clamoroso secondo titolo con l’Halmstad, Hodgson si era lanciato in una breve e fallimentare esperienza inglese, al Bristol City: un flop così cocente da indurlo a non rimettere più piede in Inghilterra fino al 1997. Tornato in Svezia, aveva iniziato a costruire il suo successo, vincendo cinque campionati di fila al Malmö e guadagnandosi una piccola fama a livello europeo battendo, tra le altre, proprio l’Inter nella Coppa dei Campioni 1989-90. Il passaggio al Neuchatel Xamax lo aveva reso un personaggio in Svizzera, diventando poi commissario tecnico della nazionale elvetica nel 1992 al posto di Uli Stielike. Lì era riuscito a raggiungere la qualificazione per USA 94.

Proprio il legame con la federazione svizzera gli costa la panchina dell’Udinese: i Pozzo pensano a lui per la sostituzione di Giovanni Galeone, le cui richieste economiche avevano spaventato la dirigenza bianconera. Il tecnico napoletano batte cassa, forte della promozione appena ottenuta in una stagione in cui era entrato in corsa all’undicesima giornata. La federcalcio elvetica, però, non dà il via libera a Hodgson e l’Udinese ripiega su Alberto Zaccheroni.

Soltanto qualche giorno dopo l’amara rinuncia, la Svizzera si trova a dover affrontare l’Italia in amichevole, a Losanna. Sono i giorni in cui nell’ambiente azzurro si parla della riapertura a Gianluca Vialli, splendido protagonista dello scudetto juventino e ai margini del club Italia dal dicembre del 1992. Non se ne farà nulla e la squadra di Sacchi, un po’ incerottata, vince 1-0 con gol di Casiraghi nel giorno in cui fa notizia l’esordio dal primo minuto di Francesco Statuto, onesto mestierante del centrocampo romanista a cui il CT concederà tre presenze nel giro di qualche mese e poi più nulla. La stampa italiana, a Montreux, prova a scalfire la corazza di Hodgson, che si limita a dichiarazioni di maniera per non indispettire ulteriormente la federazione.

Passa giusto qualche mese e si torna a parlare di Hodgson. Massimo Moratti sta pagando il primo errore di inesperienza della sua carriera da presidente dell’Inter: si è lasciato sedurre dal finale di stagione dei suoi, dopo aver rilevato il club dalle mani di Ernesto Pellegrini nel febbraio 1995, e ha tenuto in sella Ottavio Bianchi. Ma iniziare una stagione con un tecnico verso il quale la fiducia è ridotta ai minimi termini non è mai una grande idea e così, alla fine di settembre, Moratti decide di silurare Bianchi dopo una sconfitta al San Paolo, la seconda in quattro giornate. L’Inter si sfalda tra le scelte difensiviste del tecnico e una aberrante maglia verde-blu, con la difesa fatta a fette da un ex come Fausto Pizzi, che mette sul piede del diciannovenne Carmelo Imbriani il pallone dell’1-0, e il fu enfant prodige Renato Buso a chiudere il discorso. Rileggere i giornali di metà settembre, ancora prima dell’esonero di Bianchi, è un’esperienza lisergica.

Senza Bianchi in panchina e con Luisito Suarez nei panni del traghettatore a tempo, la stagione interista assume una piega surreale, perché i nerazzurri vengono eliminati ai trentaduesimi di Coppa UEFA dal Lugano: l’incubo dei tifosi interisti assume i contorni di José Eduardo Carrasco, cileno arrivato in Svizzera insieme alla famiglia, in fuga dal regime di Pinochet, quando aveva soltanto due anni. Il gol è tragicomico: una punizione da sinistra che Carrasco direziona verso il primo palo, trovando dall’altra parte uno degli errori meno spiegabili della carriera di Gianluca Pagliuca, che si alza come se nulla fosse protestando non si sa perché, non si sa per cosa.

Nei primi giorni di trattative, la pista che porta ad Alex Ferguson sembra calda. Moratti ha già portato a Milano dal Manchester United Paul Ince e soltanto il destino gli ha negato l’assalto a Eric Cantona: il futuro presidente nerazzurro era allo stadio nel giorno della famigerata partita tra lo United e il Crystal Palace che aveva portato alla squalifica del francese. Sogna un’Inter fortemente british e arrivare a Ferguson, mantenendo comunque vivo il sogno Cantona, il tutto avvolto nell’aura delle divise della Umbro, sarebbe la pietra angolare perfetta per questo progetto. In quei giorni, quando Moratti parla, lo fa con senso di colpa: «Sarei più preoccupato se i giocatori fossero scarsi, ma così non è. Sono dispiaciuto soprattutto per i nuovi arrivati: è avvilente vedere che non rendono per quanto potrebbero, a partire da Ince», dice una decina di giorni prima di esonerare Bianchi. Le grandi manovre sono già iniziate. Archiviati gli obiettivi ambiziosi (Ferguson) e quelli inarrivabili (Van Gaal), l’Inter va forte su Hodgson.

Il buon Roy scopre tutto di pomeriggio. Torna a casa e fa partire la segreteria telefonica: c’è un 1 rosso che lampeggia sul piccolo display. Il messaggio è asciutto, la voce dall’altra parte è pacata ma ferma. «Sono Giacinto Facchetti, può richiamarmi?». Hodgson lì per lì non realizza: conosce Facchetti, lo aveva incrociato in occasione della già citata vittoria del Malmö contro l’Inter, ma in quel momento non lo collega a un ruolo dirigenziale nell’organigramma nerazzurro. Hodgson richiama e Facchetti gli spiega che Massimo Moratti è particolarmente affascinato dai risultati ottenuti dal tecnico a livello internazionale. I due fissano un incontro che si deve tenere a Milano subito dopo Basilea-Grasshoppers. Hodgson decide di virare verso la Lombardia in auto, ma non fa i conti con una inattesa neve di fine settembre, che provoca un effetto domino di strade chiuse e disagi. Alla fine l’incontro si tiene comunque e Hodgson è il prescelto di Moratti. C’è sempre quel problema della Federazione svizzera, ma stavolta è l’allenatore a mettersi di traverso: gli impegni con la Nazionale prima dell’Europeo del 1996 sono praticamente conclusi, l’inglese è convinto di poter mantenere il doppio incarico senza che la Svizzera ne risenta. Il via libera stavolta arriva, anche se qualcuno a Berna cambierà idea in tempi brevi, rinunciando al CT e affidandosi, con esiti disastrosi, ad Artur Jorge.

La mossa di Moratti è uno strappo enorme per le tradizioni italiane. Non solo prende un allenatore straniero, che nella Serie A del 1995 è comunque un azzardo da ponderare con cura (in quel campionato, gli stranieri in panchina sono tre e tutti fortemente legati al nostro calcio: Zeman alla Lazio, Eriksson alla Sampdoria, Boskov al Napoli), ma punta su un cavallo privo di esperienza nei campionati principali, fuggito dal calcio inglese, figlio calcistico di un’Europa minore che sembra lontanissima dai livelli della Serie A di metà anni Novanta. Hodgson ha idee radicali, è uno zonista convinto che arriva a predicare il proprio credo in una squadra rimasta saldamente abbracciata a un calcio antico: l’Inter aveva già rigettato la rivoluzione imposta da Corrado Orrico nella stagione 1991/92, facendo marcia indietro con l’arrivo di Osvaldo Bagnoli, praticante della zona mista che non rinunciava a un paio di marcatori a uomo. Scegliere di ingaggiare Hodgson, peraltro a stagione in corso, preferendolo ai nomi italiani disponibili sul mercato (a dire il vero così poco allettanti da indurre anche un tradizionalista come Giorgio Tosatti, in un corsivo sul Corriere della Sera, a promuovere l’azzardo morattiano), ha i contorni della bestemmia in chiesa.

Nella terra di Coverciano, lo straniero non passa facilmente. Giovanni Trapattoni, impelagato nella complessa esperienza a Cagliari dopo la prima parentesi in Baviera, mette in guardia Hodgson: «Qualsiasi allenatore straniero, anche se bravissimo ed esperto come Hodgson, troverebbe molte difficoltà: i rapporti con la stampa e i tifosi non sono semplici. Conosco bene l’ambiente di Milano, è uno dei più severi». Ma quello di Trapattoni è un consiglio da collega a collega, mentre la levata di scudi più sgradevole arriva, come prevedibile, dall’Associazione Allenatori e dal Settore Tecnico di Coverciano. Il presidente dell’Assoallenatori, Azeglio Vicini, boccia l’idea: «Quali novità hanno mai portato gli allenatori stranieri? Hanno solo cercato di adattarsi al nostro calcio nel miglior modo possibile. Nella pallavolo e nella pallanuoto ci sono stati grandi sbalzi nei risultati e nel gioco ma nel calcio italiano, che è già molto evoluto, non c’è niente da inventare». Ed è ferma anche la condanna di Renzo Righetti, presidente del Settore Tecnico: «Non ci è arrivata alcuna richiesta dall’Inter. Se ci arriverà, la risposta è scontata: siamo qui per applicare le regole, e l’articolo 19 dice che i tecnici stranieri debbono essere tesserati tra il primo giugno e il 31 luglio. Se non erro, siamo a ottobre…». Hodgson all’Inter diventa tema di confronto sul provincialismo del calcio italiano, fotografia di un movimento che rimane chiuso a riccio, totalmente contrario a ogni novità.

L’era Hodgson inizia ufficiosamente nelle ore in cui Marco Pantani chiude al terzo posto il Mondiale di Duitama, uno dei percorsi più duri di sempre, tra salite in abbondanza e carenza di ossigeno: vince lo spagnolo Olano, con una fucilata che beffa il favorito principale, il suo connazionale Miguel Indurain. Prima il tecnico inglese deve archiviare la pratica europea: batte l’Ungheria e regala alla Svizzera l’aritmetica certezza della qualificazione a Euro 96, quindi fa rotta verso Appiano Gentile. Il 12 ottobre 1995, sulle pagine del Corriere della Sera, trova spazio un colonnino firmato da Peppino Prisco, l’avvocato arci-interista, manovratore neanche troppo occulto dell’approdo di Massimo Moratti alla guida del club: «Finalmente un allenatore simpatico», scrive Prisco, che accoglie con entusiasmo il vento del cambiamento.

Nelle prime dichiarazioni da tecnico interista, Hodgson spiega la sua decisione con l’urgenza di voler tornare ad allenare tutti i giorni, e non soltanto nelle pause per la Nazionale. È un uomo meticoloso, colto, che decide di prendere un rischio colossale pur di giocarsi l’occasione della vita: «So che in estate potrei trovarmi a spasso, ma è il destino di tutti gli allenatori. Sono inglese, ma conosco Bergomi meglio di Ince. L’obiettivo minimo è la zona UEFA».

Verso la UEFA

Il debutto ufficiale di Hodgson è uno 0-0 contro la Lazio in cui mette immediatamente in campo il suo 4-4-2 e si concede una grossa novità: lo spostamento di Salvatore Fresi dalla difesa al centrocampo, mediano al fianco di Ince. Fin dalle primissime uscite, però, si nota un elemento che finirà per ridurre Hodgson a una macchietta: ingabbiato nel nuovo modulo e nei nuovi principi di gioco, Roberto Carlos non riesce a esprimersi. Il tecnico gli chiede enorme applicazione difensiva e gli nega la libertà di spingersi in avanti con costanza. È un rapporto complesso che tocca l’apice dell’incomprensione reciproca in una notte di inizio gennaio, in cui Hodgson prova la mossa che qualsiasi giocatore di Winning Eleven conosce perfettamente: avanzare Roberto Carlos di una trentina di metri. Il brasiliano, a Bari, parte da esterno sinistro di centrocampo nel 4-4-2, con Alessandro Pistone alle sue spalle, e trova anche la rete del vantaggio, in una partita in cui l’Inter crolla nel finale dopo l’espulsione di Bergomi, che Hodgson ha da mesi dirottato nel ruolo di terzino destro della sua difesa a quattro.

È il momento in cui Roberto Carlos chiede udienza a Massimo Moratti per convincere Hodgson a rimetterlo nei quattro di difesa e l’esperimento, effettivamente, dura il tempo di una partita. L’Inter sta lentamente e faticosamente crescendo, nonostante il rovescio di Bari, terza sconfitta esterna consecutiva dopo quelle con il Padova di Goran Vlaovic e la Juventus futura campione d’Europa. Dal mercato di riparazione è arrivato Marco Branca dalla Roma e il nuovo attaccante si cala alla perfezione nel sistema di gioco di Hodgson: segnerà 17 gol in 24 partite di campionato. Il tecnico trova una sponda preziosissima in Giacinto Facchetti, che negli anni interisti diventa uno dei suoi punti di riferimento. È lui a spronarlo ad abbandonare i tentativi di traduzione durante gli allenamenti, affidati in maniera un po’ grossolana a Ince e Massimo Paganin, per lanciarsi nelle indicazioni in un italiano ancora non perfetto ma comunque appassionato.

Hodgson guida la squadra a una lenta risalita passando dal lavoro ad Appiano, che migliora, di pari passo con il suo italiano, settimana dopo settimana. Il calcio di Hodgson, per l’epoca, è decisamente poco inglese: non ama la palla lunga sull’attaccante, preferisce che il movimento del pallone sia armonico, coordinato, parte di un sistema più complesso. Al Guardian, nel 2018, ha raccontato di essere ammirato dalle squadre che si impongono tramite il controllo della sfera: «Mi piace veder giocare le squadre di grande qualità, vedere i movimenti coordinati dei giocatori. È come assistere al balletto. C’è tantissima interazione in una partita di calcio: quando aiuti un compagno o ti fai aiutare, lavori per l’altro, fai scatti a vuoto. E mi piace anche il modo in cui le squadre pressano, vedere i calciatori sacrificarsi per recuperare il pallone».

Alla fine della prima, complicatissima stagione, arriva un piazzamento UEFA centrato per il rotto della cuffia: senza la vittoria della Juventus nella finale di Champions League contro l’Ajax e della Fiorentina in Coppa Italia, infatti, l’Inter sarebbe rimasta fuori dalle competizioni europee. Il momento migliore arriva a cavallo tra febbraio e marzo: sei vittorie consecutive con, in mezzo, gli scalpi di Lazio e Milan. E ci sono momenti in cui emerge la personalità a tratti fumantina di Hodgson, che a Cremona si fa portavoce dello sdegno nerazzurro per i cori razzisti contro Ince: «Non posso accettare che un giocatore sia insultato per il colore della sua pelle, sento dentro di me una grande amarezza». Nel frattempo, Hodgson mette in mostra il suo lato giocoso, accettando di partecipare ad alcuni sketch di Mai Dire Gol in cui si sottopone di buon grado alle lezioni di inglese dell’improbabile Mr Flanagan, un Giacomo Poretti che si propone come insegnante «da televendita», personaggio tipico dei corsi di lingua che girano in videocassetta all’epoca.

Un sontuoso cammeo di Paul Ince.

Un anno sulle montagne russe

Le fanfare estive confondono l’aplomb di Hodgson, che rimane prudente anche se dal mercato riceve aggiunte interessanti come Angloma, Sforza, Winter, Djorkaeff e Zamorano. Ci sarebbe anche Nwankwo Kanu, fresco eroe della Nigeria oro olimpico ad Atlanta 1996, ma le visite mediche fermano subito il nigeriano che in quelle settimane teme addirittura per la carriera a causa di un gravissimo problema cardiaco: sarà Moratti, con uno slancio d’altri tempi, a guidarlo verso la riabilitazione, accettando di portare a termine la trattativa e accollandosi le spese per l’intervento invece di restituire l’attaccante all’Ajax. Riguardando alla stagione 1996/97 con occhio freddo e distaccato, un’annata che si chiuderà con l’Inter al terzo posto e in finale di Coppa UEFA, Hodgson arriverà ad affermare, in una lunga lettera pubblicata sul sito di The Coaches’ Voice, di aver allenato una squadra certamente più forte rispetto a quella dell’anno precedente, ma con uno spirito peggiore: «La squadra del primo anno era molto più coesa sotto diversi punti di vista, anche se abbiamo avuto minori successi sotto il profilo dei risultati. Puoi avere molte risorse e allo stesso tempo giocatori che non riescono a essere complementari l’uno con l’altro, oppure che vogliono fare la stessa cosa in campo».

Mentre Moratti chiede a gran voce un’Inter in lotta per lo scudetto, Hodgson fa il pompiere fin da inizio stagione. È anche l’anno in cui il tecnico fa sacrificare sull’altare del pragmatismo tattico la figura di Roberto Carlos, ceduto al Real Madrid dopo una lunga corte effettuata da Fabio Capello, grande estimatore del terzino brasiliano. Nonostante tutto, rimane questo il peccato principale di Hodgson, il non aver compreso fino in fondo tutto il potenziale di Roberto Carlos, un terzino generazionale attorno al quale sarebbe stato consigliabile plasmare il proprio sistema di gioco. In questo, Hodgson è stato più italiano di tanti italiani.

In una Serie A fortemente legata all’impronta sacchiana, sono numerosi i casi di talenti rigettati in nome del dogma del 4-4-2: quella di Carlo Ancelotti rimane la vicenda più eclatante, con la cessione di Gianfranco Zola, ritenuto impossibile da inserire nel suo modulo in una squadra che prevedeva già Chiesa e Crespo, e con il gran rifiuto, un anno più tardi, all’approdo a Parma di Roberto Baggio. «Pensavo che il 4-4-2 fosse lo schema ideale per eccellenza, non era così: se avessi la macchina del tempo, tornerei indietro e prenderei Baggio. Ho sbagliato a essere così intransigente, con il tempo ho imparato che una soluzione per far coesistere tanti grandi giocatori alla fine si trova», avrebbe scritto Ancelotti nella sua autobiografia molti anni dopo.

Hodgson finisce nel mirino delle critiche dopo sole quattro giornate, quando un gol di Filippo Inzaghi condanna l’Inter al pareggio a Bergamo e a perdere la vetta della classifica. Dopo un anno nel quale i gol di Branca si erano rivelati fondamentali, adesso Hodgson ha sicuramente più risorse a disposizione. Youri Djorkaeff è una mezzapunta sublime, che riesce a manifestarsi in zona-gol senza che gli avversari riescano a leggerne le intenzioni: a fine anno sarà lui il più utilizzato e il più prolifico (14 gol) dei quattro attaccanti (Branca, spesso fuori per problemi fisici, Ganz e Zamorano), con Hodgson capace di gestire al meglio le rotazioni del suo pacchetto offensivo in un’annata in cui la squadra va in fondo in Europa (con Ganz mattatore, 8 gol in 11 partite di Coppa UEFA) e in semifinale di Coppa Italia. Nel mese di novembre, Moratti va anche vicinissimo all’acquisto di Roberto Mancini, in rotta con la Sampdoria per il secondo anno consecutivo, ma alla fine non se ne fa nulla: chissà che piega avrebbe preso la stagione interista con l’arrivo di un numero 10 classico come Mancini, abituato a svariare per il campo in base alle necessità della partita. L’annata è contraddistinta da capolavori assoluti, come il gol con cui Djorkaeff si trasforma da semplice calciatore a icona in grado di finire raffigurato sugli abbonamenti dell’anno successivo, e momenti un po’ più complessi, come quando Hodgson allena la squadra a Perugia con due punti di sutura dopo aver preso in testa un accendino lanciato dagli spalti del Curi durante il riscaldamento, reagendo però con ammirevole lucidità: «In ogni stadio del mondo esiste un delinquente che può rovinare tutto».

Attorno al nome di Hodgson si addensano nubi fosche: c’è chi è convinto che Emiliano Mondonico sia il successore designato dell’inglese, chi ipotizza la suggestione Capello, chi non si sbilancia sul nome del futuro ma è certo che Mister Roy sia un dead man walking. E così, già a febbraio, l’addio diventa ufficiale: Hodgson firma con il Blackburn per la stagione successiva quando mancano ancora tre mesi alla fine del campionato, sfruttando il passo indietro di Eriksson, che era praticamente d’accordo con i Rovers prima di ricevere la telefonata di Sergio Cragnotti, e sancendo così il suo ritorno in Inghilterra dopo una vita calcistica da esule. A dare la notizia è il Blackburn, sorprendendo lo stesso Hodgson.

L’inglese, tempo dopo, ha ricostruito la vicenda, riavvolgendo il nastro ai mesi tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997: «Inizialmente Moratti mi aveva parlato di un nuovo contratto, ma questa offerta non si materializzava. Il Blackburn venne da me e avvisai il presidente, spiegando che avrei accettato. A quel punto Moratti mi disse di rifiutare, voleva tenermi. Chiamai Jack Walker (il proprietario del Blackburn) e riferii che avevo deciso di rimanere all’Inter. Passò un mese e del rinnovo di non contratto non vedevo traccia: la squadra aveva iniziato a faticare in campionato, il Blackburn tornò alla carica e decisi di accettare». A caldo, nelle ore subito successive all’annuncio che peraltro coincidono con l’eliminazione in semifinale di Coppa Italia per mano del Napoli di Gigi Simoni (che finirà per raccoglierne l’eredità), il clima è leggermente più velenoso nei confronti dei giornalisti, mentre parla con dolcezza della squadra e della società: «Penso sia disonesto dire che me ne vado dall’Inter a causa della pressione. Se esiste qualcuno che ha dimostrato di saper sopportare le critiche ingiuste, quello sono io. Mi hanno attaccato anche quando la squadra vinceva. Moratti sa della mia decisione da venerdì: non trattiene mai nessuno con la forza. È un grande presidente, ha intelligenza, ambizione, mezzi economici per arrivare in alto e vincere. I giocatori mi hanno sempre seguito, di questo ambiente avrò grande nostalgia e del calcio italiano parlerò sempre benissimo».

Fare corsa con la Juventus cannibalesca di Marcello Lippi è praticamente impossibile e l’Inter sta pagando a prezzo carissimo i tre punti in quattro partite raccolti a cavallo tra i due gironi. La via per rientrare sarebbe vincere i due scontri diretti che il calendario colloca uno dopo l’altro a marzo, subito dopo la bufera, ma l’Inter pareggia a San Siro con la Juventus, in una partita rimasta nella storia del nostro campionato per la decisione di Pierluigi Collina di annullare (giustamente) un gol di Maurizio Ganz inizialmente convalidato nonostante una solare posizione di fuorigioco dell’attaccante interista: il guardalinee dà il via libera convinto che a servire Ganz sia un retropassaggio di un difensore juventino ma Collina, senza il VAR, ripercorre mentalmente l’azione e capisce che è andata diversamente. L’arbitro, dopo l’annullamento, si avvicina alla panchina dell’Inter e spiega proprio a Hodgson la decisione, chiudendo il discorso con una stretta di mano.

Collina ricostruisce in maniera molto interessante la fase di spiegazione avvenuta con Hodgson e il processo mentale che ha portato all’annullamento del gol in un’epoca calcistica così lontana da quella odierna.

Dopo la Juve, l’Inter cade a Parma e si stacca in maniera definitiva: è una sconfitta doppiamente sanguinosa, trattandosi di una delle stagioni in cui l’Italia ha diritto a due squadre in Champions League. Rimane però la seduzione della Coppa UEFA. L’Inter supera l’Anderlecht e in semifinale trova il Monaco: per tutti è una finale anticipata, perché dall’altra parte l’urna accoppia Schalke 04 e Tenerife. La semifinale d’andata è quella che costruisce il mito di Maurizio Ganz come el segna semper lù, frase che si scorge in uno striscione sugli spalti di San Siro. L’Inter domina il primo tempo, Ganz realizza due gol e offre a Zamorano il pallone del tris. Finisce 3-1 ed è un risultato accolto con rammarico vista l’inferiorità numerica del Monaco. Al ritorno i nerazzurri soffrono, perdono 1-0 ma vanno comunque in finale. Il clima attorno a Hodgson, però, è sempre più complicato. I tifosi ne chiedono le dimissioni già durante la partita di andata: «Stanchi di vergognarci, Hodgson vattene subito», scrivono. «Da quando sono all’Inter ho perso 5 partite su 42, non meritavo i fischi e un trattamento del genere», replica l’inglese.

L’atto conclusivo è con lo Schalke e per l’ultima volta la finale di UEFA si gioca in gara doppia, con l’andata a Gelsenkirchen. L’Inter perde per un gol di Wilmots e Hodgson viene criticato anche da Moratti per una partita un po’ troppo conservativa. Il tecnico si aggrappa alle assenze di Angloma, Ince e Djorkaeff, il presidente lo smonta: «Non accetto alibi di questo genere, non è il momento per queste scuse. La Coppa si può ancora vincere, a patto di fare qualcosa in più: quello che non è stato fatto qui». La rete di Wilmots genera un clima di tensione che, alla vigilia della finale di ritorno, non fa bene. Secondo le cronache, Moratti pensa al clamoroso esonero tra una sfida e l’altra. A Milano, per un’ora, si vede un’Inter arrendevole, apparentemente lontanissima dalla rimonta. La tiene a galla Pagliuca, poi Hodgson decide di inserire l’esuberanza di Angloma, al rientro, sulla fascia destra, al posto di capitan Bergomi.

A sei minuti dalla fine, Zamorano inventa uno dei gol più incredibili della sua carriera. Pistone batte una rimessa laterale da sinistra direttamente in area, Ince prolunga e il cileno riesce a trovare una traiettoria impossibile dando le spalle alla porta: segna in totale estensione, colpendo con la punta del piede e lasciando tramortito Lehmann. Subito dopo il gol l’Inter resta in dieci per l’espulsione di Fresi (al termine dei 90’, ai microfoni della Rai, Bergomi si lamenta con Marco Civoli dell’arbitraggio) e affronta i supplementari in inferiorità numerica, andando vicinissima al gol vittoria con Ganz che colpisce la traversa. Al minuto 119, Hodgson richiama in panchina Javier Zanetti per inserire Nicola Berti. Il cambio manda su tutte le furie l’argentino, che in mondovisione critica apertamente l’allenatore. Al triplice fischio, Zanetti affronta a brutto muso Hodgson e viene portato via dai compagni di squadra, mentre fa palesemente segno «è matto» portandosi il dito alla tempia. Nel frattempo Hodgson guarda verso la tribuna alle sue spalle con uno sguardo bruciante ed è a quel punto che Zanetti torna da lui per chiedere scusa e abbracciarlo. I rigori durano pochissimo: sbagliano Winter e Zamorano, l’Inter non arriva nemmeno a calciare il quarto penalty. Vince lo Schalke.

Il film della doppia finale con lo Schalke.

Hodgson annuncia a Facchetti le sue dimissioni irrevocabili: al termine del campionato mancano ancora due partite. Ai giocatori dichiara di non andarsene per la sconfitta, ma per il clima di rancore che si è creato attorno alla sua figura. «Forse nessuno rimpiangerà Hodgson ma tutti rimpiangiamo un po’ di civiltà», scrive Roberto Perrone sul Corriere della Sera. Moratti chiede al tecnico di ripensarci ma

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