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Uno dei più grandi italiani di sempre
02 dic 2025
Nicola Pietrangeli: uomo del Novecento, mito.
(articolo)
21 min
(copertina)
IMAGO / ZUMA Press
(copertina) IMAGO / ZUMA Press
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In My Way un uomo canta un bilancio della sua vita. Una vita piena, in cui ha percorso tutte le autostrade, ha amato, riso e pianto. La cosa più importante, però, è che tutto questo lo ha fatto a modo suo. Non in modo timido, ma a suo modo. E ora che si sta tirando l’ultima tenda, l’uomo può guardare alla sua vita con commossa soddisfazione.

La canzone non piaceva particolarmente a Frank Sinatra, che la trovava auto-indulgente, consolatoria. Fu Nancy a convincerlo a cantarla: probabilmente aveva visto qualcosa nella canzone - scritta da Paul Anka su una traduzione dal francese - che risuonava con particolare forza nella voce di suo padre. Un uomo intenso, malinconico ma alla fine dei conti impenitente: era tutto ciò che Sinatra significava. Non per forza Sinatra in sé, ma Sinatra l’icona.

In un’intervista di qualche anno fa Nicola Pietrangeli aveva immaginato My Way suonare al suo funerale. Come tutti gli egocentrici, Pietrangeli deve aver pensato spesso al suo funerale - il momento in cui tutti sono costretti a rivolgerti pensieri solenni, a fare i conti con la tua assenza. Il suo sogno può suonare megalomane: un funerale nello stadio a lui intitolato. «Innanzitutto perché c’è parcheggio» (e un romano pensa prima di tutto al parcheggio) e poi «perché ci sono tremila posti seduti. In caso piovesse, appunto, potremmo rimandare, mettendo la bara nel sottopassaggio». Non molte persone possono dire di avere uno stadio intitolato in vita e immaginarsi il proprio funerale nel proprio stadio è qualcosa di perfettamente appropriato al personaggio di Nicola Pietrangeli.

Il sogno compiuto di ogni vero narcisista è, però, soprattutto poter assistere al proprio funerale. Avere il privilegio di vedere la commozione sulle facce delle persone che realizzano la tua mancanza. «Mi dispiace che non potrò assistere, per vedere chi viene e chi non viene».

E allora immaginiamo il sogno di Pietrangeli. Immaginiamo la fine di questo funerale, mentre la bara esce dal campo da tennis, inghiottita dal budello del Foro, sotto lo sguardo vuoto delle statue di marmo alte sei metri. Nell’aria suona My Way. Non è un’idea particolarmente originale: nei commenti ai video di YouTube di My Way diversi uomini scrivono che sarà la canzone che suonerà al loro funerale. Chi non ha bisogno di un pensiero consolatorio, prima di morire? L’idea che non ci sia un giusto e uno sbagliato; l’uomo è al di sopra della morale e deve rispondere solo a se stesso. Se si è vissuto a modo proprio, si è fatto bene.

È un pensiero che deve aver fatto piacere anche a Pietrangeli, che si rivedeva nello stesso modello di maschio di Sinatra: freddo, elegante, intenso. Un uomo che siede in un angolo oscuro circondato dal fumo della sua sigaretta, mentre le femmine lo guardano con desiderio e i maschi con invidia. Un uomo cinico ma sicuro di sé. Un uomo pieno di un passionalità segreta, e di una grazia misteriosa nel suo portamento nel mondo. L’uomo che Tony Soprano definiva “The Silent Guy”.

Questo è come Pietrangeli vedeva se stesso, ciò che voleva essere, ma non era proprio questa l’immagine che rimandava all’esterno. Pur avendo l’eleganza di quel tipo di maschio alla Cary Grant, alla Frank Sinatra, Pietrangeli non ne aveva la durezza. Era rumoroso, troppo rumoroso. Il “Silent Guy” cambia l’energia di una stanza restando in silenzio in un angolo; Pietrangeli non stava mai in disparte: non poteva accettarlo. Quando non si parlava abbastanza di lui, sbracciava per farsi vedere.

Nel documentario La Squadra lo vediamo affondato in un divano pieno di peli e cuscini, in un salotto della borghesia romana, circondato da cimeli e trofei. Un plotone di foto in cornice argentata. La grandezza della sua storia, il benessere dei suoi interni. Sul parquet passeggia serena la gatta Pupina. Indossa un delizioso cardigan sopra una camicia e parla - ovviamente di se stesso. Nella prima Coppa Davis vinta dall’Italia, Pietrangeli non gioca, ma ne è il capitano (l’allenatore). Un ruolo in disparte inconciliabile con Pietrangeli, che si prende la scena fin dal primo minuto: il suo carisma è così debordante da arrivare quasi a oscurare altri mostri di carisma come Bertolucci e Panatta. La puntata si chiama - appunto “La battaglia di Nicola” e racconta il quadro politico dietro alla finale di Coppa Davis.

Giocandosi in Cile si era diffusa l’idea del boicottaggio, mentre Pietrangeli si batté per permettere all’Italia di disputare la finale. Racconta dei suoi colloqui con Andreotti e con Pajetta del Partito Comunista. Le mani strette, gli inviti, i salotti. Era nel suo ambiente. Pietrangeli racconta tutto questo con estremo orgoglio, e come - sostanzialmente - il fattore decisivo per la vittoria dell’Italia. «Io non mi sono mai preso il merito sportivo, ma non dividerò mai con nessuno il merito di averli portati lì». Lo dice chiaramente, se a qualcuno fosse venuto il dubbio.

So che non è elegante parlare del narcisismo di una persona appena morta. Può suonare come un'indelicatezza, ma nel 2025 è meglio affrontarlo subito. Perché di questo narcisismo negli ultimi anni, la stampa si è approfittata. Ogni volta che Sinner vinceva un titolo, o rifiutava una convocazione, il telefono di Pietrangeli squillava. I giornalisti chiamavano sempre, sicuri di tirare fuori un titolo, dal risentimento del vecchio che non si arrende di fronte alla grandezza del giovane. E così, per chi non sapeva bene chi fosse Pietrangeli, la sua immagine si è schiacciata su questa - davvero misera e poco gloriosa - del vecchio risentito. Di colui che non accetta il passare del tempo con moderazione, quiete e consapevolezza dei propri limiti. È stato triste vedere Pietrangeli ridotto a questo, lui che è stato il mondo. Parlava sempre di sé, Pietrangeli, ma effettivamente: quale argomento più interessante poteva esserci?

***

Era arrivato in Italia a bordo di una nave merci. Eppure era un borghese, suo padre guidava una Packard nera. Era il 1946 quando erano migrati a Roma, lui aveva tredici anni e la sua famiglia cominciava a essere meno a proprio agio a Tunisi. Suo padre era un imprenditore di origini abruzzesi, sua madre un’esule russa figlia di un colonnello zarista in fuga dalla rivoluzione. Da Odessa era partita su una nave in direzione Marsiglia, ma il capitano perse la rotta nel Mediterraneo e sbarcò a Tunisi. Appena arrivata si era sposata con un altro esule russo, un conte; finì presto ma rimase in eredità il titolo nobiliare fino a Nicola. Nelle interviste rivendica il fatto di non averlo mai usato, questo titolo di conte - «agli amici del circolo non ho mai osato dirlo». Quanta modestia. Ne rimane traccia nel cognome che accompagna il suo nome su Wikipedia: Chirinsky.

Arrivato a Roma senza lavoro, suo padre venne mandato a cercare le tombe dei soldati francesi sparsi per la penisola. Nel frattempo aveva notato che in Italia i tennisti si vestivano male; dopo un breve colloquio con René Lacoste divenne il suo agente di commercio per l’Italia.

A casa Nicola parlava francese, e a Roma si è poi iscritto al liceo francese, lo Chateaubriand, diventato virale su TikTok negli ultimi mesi - frequentato da ragazzi che parlano in modo diverso dagli altri, e che vivono in modo diverso dagli altri. Pietrangeli, che abitava a Piazza di Spagna, era soprannominato “Er Francia”, suo padre veniva apostrofato come “Monsieur”. Giocava a pallone con i bambini, vicino alla sala da tè Babington. Non parlava una parola di italiano: solo russo e francese.

In un’intervista gli chiedono: «20 anni di tennis cosa le hanno lasciato?». Lui risponde impassibile: «200 coppe, 4 lingue. A forza di incontrare gente di tutti gli angoli della terra ho imparato a stare al mondo». Non c’è dichiarazione più Pietrangeli di questa: ha vinto 200 coppe, ma non sono niente rispetto alla persona che queste coppe lo hanno fatto diventare.

Era un uomo del novecento, passato in mezzo alla storia. Un personaggio da Feuilleton, da Barry Lindon, da Agatha Christie. Sull’Orient Express, il misterioso campione di tennis franco-russo-italiano-tunisino dal passato oscuro. Un giorno vide Josephine Baker guidare la Alfa Romeo di suo padre, e ancora non sapeva che lavorava per il controspionaggio francese.

La generazione di tennisti che lui capitanava era cresciuta nel suo mito, ma dopo ha dovuto scendere a compromessi col suo brutto carattere. L’incompatibilità umana con Zugarelli e Barazzutti, la competizione con altri galli come Panatta e Bertolucci. Quando lo vedevano arrivare a Formia, divo, davano il massimo. Morivano per giocare un punto, fare un game, col mito. Lui, da parte sua, li trattava con indifferenza. Quando quelli gli facevano punto lui brontolava: «quando giocano con me tutti fenomeni». Gli chiedono: «ci sono giocatori pronti a prendere il tuo posto?», e allora Pietrangeli si alza, si mette una mano sopra la fronte come per cercare di guardare all’orizzonte qualcuno che non arriva. Alla prima sfida con Panatta, sotto 4-1, al cambio campo gli dice stizzito: «Guarda che le palle corte le ho inventate io». Era permaloso, non un perfetto sportivo per come vogliamo intenderlo, e cioè uno che resta stoico nella sconfitta.

Nel 1970 perde la finale dei campionati nazionali contro Panatta. Possiamo vedere solo stralci di quella partita ma chi l’ha vista l’ha raccontata come una delle più belle di sempre. Ricorda quella sconfitta fin nei più minimi dettagli: il fatto che fosse avanti 2 set a 1, e poi ancora avanti 4-1 al quinto set. La stretta di mano è fugace. La racconta, nel documentario, con un’aria tristissima, derelitta. «Un pizzico mi dispiaceva», ricorda Panatta: Pietrangeli era quel genere di persona per cui il primeggiare sembrava così importante che chi lo contestava finiva per sentirsi in colpa. Pietrangeli si rimprovera per essere stato presuntuoso. Era stato in vacanza a Ischia, «Mi bastano pochi giorni d’allenamento per battere ste quattro pippe», si era detto. (Un altro modo per dire che, al massimo delle possibilità, non avrebbe perso nemmeno in quel caso da Panatta). Infatti ci riprova un anno dopo, non ci sta. Perde ancora, ma quella volta sorride.

Non è solo la sconfitta ma il tempo che passa. Per Pietrangeli si trattava di un piccolo lutto: il funerale del se stesso come miglior giocatore italiano in attività. Qualcosa era finito e ci ricordava che tutto, prima o poi, sarebbe finito. Solo il mito sarebbe rimasto.

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Leggenda vuole che segnò quattro gol nel suo primo quarto d’ora da calciatore. Era al provino con la Lazio, ci si era infilato di straforo, chiedendo la complicità del custode del Circolo Parioli, il padre di Panatta. Dopo un quarto d’ora gli fecero firmare un contratto a vita. La leggenda è diffusa da Pietrangeli stesso, che ama raccontare se stesso come un calciatore mancato. È stata solo una questione di scelta, tra tennis e calcio, e fu la Lazio a scegliere per lui. Lo mandarono in prestito alla Viterbese, e voi ve lo immaginate, Pietrangeli alla Viterbese?

Scrive nella sua autobiografia: "Andare in prestito alla Viterbese, onestamente, che prospettive mi avrebbe aperto? Un Ternana-Viterbese con visita al Terminillo, al massimo. Invece con il tennis, immaginavo, sognavo e speravo di viaggiare per i sette mari e frequentare un ambiente radicalmente diverso. Be’, ci avevo visto giusto: col mio rovescio ho davvero fatto il giro del mondo”.

Lo sport per Pietrangeli era solo un pezzo della sua vita, un modo che aveva trovato per realizzarsi come persona. Giocava a tennis e a calcio ed eccellere in entrambi gli sport lo faceva sentire un Dio (parole sue). Mentre era già famoso ha tenuto la surreale abitudine di andarsi ad allenare tre giorni a settimana con la Lazio di Maestrelli. C’è una foto di lui e Chinaglia che incrociano le racchette.

Il padre di Pietrangeli, Giulio, considerava il tennis “uno sport da femminucce”. Suo malgrado, dovette appassionarvisi perché, detenuto dai militari francesi fuori da Tunisi, aveva costruito un campo per passare il tempo. Apparentemente senza sforzo, era diventato numero due della Tunisia. Mette la racchetta in mano a Nicola, e lui vince il torneo, così, limitandosi a copiare il padre. In premio riceve un pettino fatto con la scheggia di una bomba.

Cosa sarebbe stato Pietrangeli calciatore?

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Non c’è una foto in cui non sia bellissimo. Al mare con Licia Colò, una “capezza” d’oro sopra il petto villoso. Con la camicia a fiori aperta e i pantaloni bianchi con le farfalle. Mentre chiacchiera con Clerici, stendendo la caviglia nuda sopra un mocassino marrone. Mentre scende le scale dello stadio Philippe Chatrier e saluta la folla, con uno splendido completo color crema. Sempre bellissimo, quando quasi cinquant’anni dopo racconta la sua storia ai microfoni del torneo, ancora abbronzato, in camicia bianca. Ma non è mai stato così bello come lo era sul campo da tennis. Anzi: sembra che fosse lo stile in campo a plasmare il suo stile fuori dal campo, e non viceversa. Dentro al campo da tennis, con addosso gli occhi di tutti, Pietrangeli brillava di un’eleganza pura e incontaminata. L’armonia assoluta che può raggiungere un uomo estremamente dotato che gioca uno sport estremamente difficile.

Aveva uno stile tecnico e rilassato. I suoi rovesci erano fluidi, dolcemente accompagnati, la chiusura verso il cielo e la testa alta. Erano ispirati a quelli di Tony Trabert ma li hanno superati per spirito. Ancora oggi quello di Pietrangeli viene considerato come uno dei rovesci più belli della storia del tennis. La sua eleganza oggi ci appare impossibile, perché il tennis sembrava un'attività calma e rilassata, da fare cercando di non sudare. Ha imparato a considerare il tennis indissolubile dalla bellezza guardando Jaroslav Drobný, che definisce "grandissimo artista, un poeta e un virtuoso della terra rossa: il professore era uno spettacolo di stile e di precisione". Drobný era celebre per portare avanti parallelamente le carriere di tennista e hockeista su ghiaccio.

Lo stile di Pietrangeli fu una rottura col gioco italiano fino a quel momento, fatto di tennisti regolaristi e lottatori. Beppe Merlo giocava addirittura il rovescio a due mani. Questo ha contribuito ad alimentare l’immagine del presuntuoso, ma ha anche fissato uno standard ideale: a tennis si gioca come Pietrangeli oppure non si gioca. Il bel gesto, la naturalezza, il rovescio a una mano, la palla corta. Il suo tennis è lo sport di una persona che non ha lavorato un solo giorno della sua vita, che ha perfezionato la gestualità grazie al desiderio seduttivo, sentendosi addosso lo sguardo altrui.

I suoi punti di forza erano i passanti di rovescio lungolinea e le palle corte. Era sempre a sua agio, ma di più quando poteva contrattaccare - perché in fondo il contrattacco è più sofisticato, meno volgare dell’attacco. Era creativo, aveva il gusto della sorpresa. Secondo Clerici: «Nicola Pietrangeli aveva una classe innata e infinita, si specchiava nell’indolenza sorniona tipica della romanità». E poi ne fa un ritratto snob: «Brillava di luce propria, una figura di spicco nel tennis narcisistico del suo tempo: quello esclusivo del bel mondo, quasi di casta, quello dei gesti bianchi, dei tocchi felpati e raffinati. Difficili per tanti e facile per quelli come lui, che maneggiava da par suo la racchetta di legno domandone l’assoluta rigidità». Nei video muove queste racchette piccole e sottili, e il fatto in sé di riuscire a prendere la palla pare un miracolo. Anche per questo ci si sentiva degli eletti a saper manovrare la racchetta.

L’ideale di Pietrangeli si fissa nell’immaginario italiano attraverso i successi.

Vince il Roland Garros nel 1959, diventa il primo italiano a trionfare in uno Slam. Vince anche il torneo di doppio in coppia con Orlando Sirola. Durante il torneo batte Torben Ulrich - padre hippy di Lars -, Neale Fraser e in finale Ian Vermaak. Dice che aver vinto Parigi in finale contro un giocatore non così forte gli ha rovinato la soddisfazione. Per Pietrangeli il come era tutto. Nel 1960 torna in finale e la sera prima va con Gianni Clerici all’Epi Club. Si dice ballasse ubriaco alle cinque del mattino. Clerici scrive: «In generale cercavo di trascinarlo, di rispedirlo a letto, incontrando, sempre, l’opposizione delle sue belle amiche, e la sua ironia». Il giorno dopo gioca contro Luis Ayala - il miglior giocatore su terra di quel periodo - per quattro ore e mezza, e vince, coi calzini sporchi di sangue. Per qualche giorno deve girare in ciabatte.

Al Roland Garros gioca altre due finali, ma le perde entrambe perché si trova di fronte Manolo Santana. Al termine della sfida del 1961 Santana lo va ad abbracciare con un trasporto insolito. Il carisma di Pietrangeli era tale che in molti, anche non italiani, lo chiamavano “capitano”. Santana è stato il più grande giocatore su terra della storia del tennis prima dell’arrivo di Nadal. Si può dire che dunque Pietrangeli avrebbe potuto vincere un altro paio di Roland Garros. Perse da Laver in semifinale a Wimbledon ma ci vinse in Davis (su terra era più forte).

In quel periodo, nel triennio tra il 1959 e il 1961, viene considerato il terzo miglior giocatore al mondo. Non c’erano classifiche fatte dai computer ma dei giornalisti inglesi ne stilavano una abbastanza fedele del valore dei giocatori. Il sistema era però così diverso che è diventato difficile mettere sulla bilancia il valore di Pietrangeli rispetto agli altri tennisti italiani che si sono succeduti a lui. Anche solo Panatta, di appena una generazione successiva, giocava in un tennis completamente diverso, e lo prendeva in giro: «Ai tempi suoi le classifiche se le scrivevano da soli a matita». È indubbio, però, che Pietrangeli sia stato il più grande tennista italiano di sempre fino all’arrivo di Jannik Sinner, e che Panatta non riuscì del tutto a sfilargli lo scettro; se non per talento almeno per una carriera fin troppo breve.

Pietrangeli è stato il campione di tennis in una società che stava diventando di massa, ha mostrato l’eleganza dei circoli alla televisione, ha fissato l’icona del tennista libertino e pieno di savoir-faire.

Non deve essere stato semplice, vedersi scavalcato - nel palmarès e nella considerazione pubblica - da uno che giocava un tennis tanto diverso, per di più a oltre 80 anni. Il tennis che lui ha sempre detestato: della regolarità, della ripetizione. Pietrangeli forse pensava di aver superato tutte le insidie: morire prima di vedere un italiano superare i suoi successi. Avrebbe firmato? C’è una bellissima intervista di questi anni in cui Pietrangeli si sforza di superare la divisione ideologica e umana che lo separa dal campione attuale: «Sinner non si guarda, si ascolta. Ascoltatelo quando tira il colpo», ritrovando un filo sonoro che riesce a unire la perfezione estetica di oggi a quella di un tempo.

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Non gli piaceva molto, andare ad allenarsi a Formia: “alle quattro e mezzo finivamo di allenarci e andavamo al cinema coi pescatori” ma lo rendeva un tennista migliore “nei due anni in cui mi sono allenato a Formia ho vinto il Roland Garros e Montecarlo. Ci sarà una ragione”, come a dire che se la vita mondana non gli avesse portato via energie chissà quanto avrebbe potuto vincere. Odiava allenarsi. Parlando dei tennisti di oggi dice che la preparazione atletica è “in voga” - come fosse una moda, una fissazione.

Pietrangeli apparteneva a quella generazione che rivendicava la propria mondanità; che anzi vedeva qualcosa di disdicevole, sicuramente noioso, nel fare la vita da atleta. Non erano preti. Essere sportivi significava godersi il prestigio sociale che ne derivava. Lo seguiranno Adriano Panatta, Vitas Gerulaitis, Marat Safin - con sempre meno conciliabilità con una carriera ad alti livelli. Pietrangeli adorava essere se stesso, e quindi il suo stile di vita. Guardandolo con gli occhi di oggi ci fa impressione: quanto desiderio di vita, quanta energia c’era, in queste persone? Quanta sicurezza in sé?

Noi che siamo una generazione fragile, insicura, che guarda giustamente una certa mascolinità con sospetto, come dovremmo rapportarci con un maschio come Nicola Pietrangeli? Noi che sembriamo vivere dentro una storia minore, nati troppo tardi per tutto, come possiamo afferrare la grandezza di Nicola Pietrangeli?

È come vedere certi film di Mastroianni in cui fluttua annoiato tra le scene prendendosi tutto quello che il mondo gli offre: le donne e i piaceri, più che altro - talvolta vittima di se stesso. Come si fa a diventare un maschio decente con questi modelli? Pietrangeli ha spesso cercato di evitare l’immagine del giocatore sciupone e superficiale, ma d’altro canto gli piaceva anche alimentarla. Voleva far fantasticare sulle sue potenzialità illimitate, e poi gli piaceva troppo raccontare. E infatti era gentile: tutti hanno intervistato Pietrangeli almeno una volta.

Indossava completi color panna, spezzati favolosi, maglioni intrecciati con lo scollo a ‘v’ e camicie bianche e mai ingessate. Polo aderenti sulle spalle ampie, cravatte grosse. Non c’era un occhiale che non gli stesse divinamente, e con la sua mascella potente riusciva a sostenere montature massicce che mangerebbero la faccia di altri uomini: spessi Persol color tartaruga, panoramici Ray Ban a specchio. Percepiva la temperatura sociale degli ambienti. Sapeva quando la giacca serviva, e quando non serviva. Era a proprio agio coi palazzinari e gli artisti, i comunisti e i preti. Tra loro Nicola Pietrangeli si muoveva con la grazia seduttiva del padrone di casa e la serenità di chi non ha bisogno di niente perché ha già tutto. Parlava nei salotti politici o in quelli televisivi come fosse a casa sua - e casa sua era il Circolo Canottieri Aniene.

Nicola Pietrangeli era l’essenza dei circoli romani. Borghese, ma con un tocco di provincialità - racconta di aver scritto una dedica a una ragazza: "l’amore con te è una robba pazzesca”. Nella sua autobiografia si definisce come ogni romano si definirebbe: bonario, pigro, pieno di senso dell’umorismo. “Un frescone” si auto-definisce. È stato un pioniere di uno dei passatempi dei circoli romani: il calcetto. Anzi, stando ai suoi racconti, il calcetto lo ha inventato lui coi suoi compagni del circolo - in pratica trasformando un campo da tennis del Parioli in uno da calcio. (Non ha mai ceduto il Padel, che definiva, serenamente, "trionfo delle pippe"). La Roma delle mercerie a Corso Francia, delle ville al Circeo, il doppio petto, gli aperitivi col piano-bar, i night.

Ha frequentato Claudia Cardinale e fatto serata con Brigitte Bardot. Parigi era la sua città, dopo Roma. A Parigi frequentava il Crazy Horse, locale di spogliarello, ma di classe. Rifiutava l’etichetta di dongiovanni. Aveva mille storie e sapeva raccontarle. Oggi lo chiameremmo “un chad”, e cioè un maschio capace di ottenere il suo successo senza sforzo. Un alpha che fa pesare il proprio potere gerarchico sugli altri maschi che gli sono inferiori. Pietrangeli con la mascella squadrata, tombeur de femmes, fenomenale in tutto. Racconta nel suo libro di aver detto a Gianni Rivera: «Ringrazia che non ho mai giocato in Serie A». Lo scrive chiaro e tondo: "Io riuscii a inserirmi tra i più forti giocatori del mondo senza troppi sforzi".

Come faceva, però, a non essere egocentrico un uomo così venerato per la sua bellezza?

***

In un servizio della televisione inglese del 1967 Roma appare come l’idea platonica di Roma. Le colonne, i capitelli, le antiche mura spuntano come muschio attorno ai quartieri; un terzo paesaggio fatto di spoglie storiche. I gatti lo abitano sonnolenti, disinteressati al piatto di spaghetti che qualcuno gli ha messo davanti. Gli anziani indossano panama, siedono su sedie impagliate messe sopra ai sanpietrini, fuori dai negozi. Le macchine sulle strade sono piccole e colorate. Sono poche, non ci sono parcheggi, e Via Veneto è un parco giochi dove il whisky e le sigarette non fanno male.

Era la Roma di Marcello Mastroianni, Federico Fellini, i pittori di Via Margutta, Mario Schifano. Una città ancora vuota, con due milioni di abitanti in meno e molte possibilità per chi, come Pietrangeli, era bello, non povero e molto sicuro di sé. Morendo si porta via un altro pezzo di questo mondo che non c’è più, e così diverso da quello di oggi che è persino difficile provare nostalgia. Del resto Pietrangeli ha fatto presto a diventare un’icona, attraverso un processo di naftalizzazione che ne ha attenuato presto la presenza reale. Compariva nelle tribune autorità col completo impeccabile e l’occhialata potente, sempre di pessimo umore, ed era Pietrangeli l’icona. Quello che si dice sia stato il più grande di tutti ma che nessuno ha mai visto giocare. Soprattutto, si capiva bene, uno che aveva plasmato l’immagine degli italiani nel mondo. Come ha scritto Codignola: "Se c’era un limite, negli anni giusti, a quanto si potesse essere italiani, Marcello Mastroianni e Nicola Pietrangeli lo superavano senza neppure rendersene conto".

Come facciamo a farci un’idea di Pietrangeli che non sia imprecisa, avvelenata dagli ultimi anni, piena di cliché? Abbiamo brandelli di video di gioco, un libro, un repertorio sterminato di interviste, il bellissimo documentario dedicato alla squadra di Davis. Eppure è difficile districarsi tra le parole che filano come chewing gum dalla sua bocca, intente a tessere l’icona di Nicola Pietrangeli. In fondo, vale davvero la pena chiedersi chi fosse davvero uno che ha vissuto sempre all’interno del suo mito, senza vedere il mondo da fuori?

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La sua morte verrà davvero celebrata dentro al suo stadio. Verrà allestita la camera ardente in mezzo alle statue di marmo che lo custodiranno durante l’ultimo saluto. La famiglia ha esaudito le sue volontà e in fondo ci sembra del tutto appropriato, bello, anzi. Ricevere l’ultimo saluto all’interno di uno stadio che porta il proprio nome, e che è anche considerato uno degli stadi di tennis più belli al mondo. Quando scherzava parlando del suo funerale dentro al vecchio Stadio della Pallacorda, a qualcuno sarà suonato mitomane. Il solito Pietrangeli.

La realtà però ha preso la forma che lui aveva immaginato, a coronamento della sua impresa più difficile: essere all’altezza del mito che ha voluto rappresentare.

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