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Nessun allenatore è più italiano di Luciano Spalletti
23 ago 2023
23 ago 2023
Una personalità agli antipodi rispetto a Roberto Mancini.
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IMAGO / Sportimage
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Forse a pensarci bene è questo il finale più giusto, quello in grado di rappresentare al meglio il rapporto tra Roberto Mancini e la Nazionale italiana. Niente mette in mostra quella distanza, quella riservatezza che talvolta si fa tautologica - è così perché è così - come la breve intervista rilasciata a La Repubblica da uomo libero, dopo aver dato le dimissioni cioè, per difendersi da chi a suo dire lo stava massacrando.

Cosa aveva fatto di male in fin dei conti? «Mi sono solo dimesso e ho detto che è stata una mia scelta», ha ripetuto Mancini, mettendoci di fronte gli stessi fatti di cui eravamo già a conoscenza. Senza aggiungere niente perché non c’è mai niente da aggiungere - è così perché è così - anche se poi, poco più avanti, qualcosa aggiunge. Le solite cose che ci si rinfaccia dopo le rotture: tu (Gabriele Gravina, presidente della FIGC) hai messo mano al mio staff, ormai non mi capivi più, eccetera.

Tutto qui? Ovvio che no. Ma c’è una parte di Roberto Mancini che ci resta inaccessibile, che non conosceremo mai. Perché non sono affari nostri, questo sembrano dire i suoi occhi chiari sempre un po’ sgranati e minacciosi. Si diceva che sarebbe potuto diventare il prossimo CT dell’Arabia Saudita e l’intervistatore di Repubblica glielo ha chiesto. È l’ultima domanda e Mancini ha risposto che le dimissioni erano indipendenti da quello che succederà in futuro. È chiaro che cambierebbe tutto se la motivazione a dimettersi fossero i 70 milioni di stipendio e una vita all’aria condizionata del Golfo Persico, a noi interessa molto di più quello della disputa interna con Gravina. Mancini però non vede il bisogno di spiegarsi, non smentisce, non conferma, non spiega. Fondamentalmente, appunto, ci sta dicendo che non sono affari nostri (in questo non è poi così diverso da Gravina che al riguardo ha detto: «Solo in tre sappiamo cosa è successo veramente»).

Non è solo una questione di tempismo se l’addio di Mancini ci ha lasciato con una sensazione spiacevole, che solo un allenatore ai suoi antipodi poteva far sparire come per magia. Perché subito dopo, ancora prima che diventasse ufficiale, nonostante i problemi della clausola che lo legava al Napoli, è bastato fare il nome di Luciano Spalletti per cancellare il brutto ricordo di Mancini. E forse parte della ragione sta anche nel fatto che non esistono forse due allenatori, due uomini, due italiani, più diversi di Mancini e Spalletti.

Cosa ci aspettiamo dall’allenatore della Nazionale di calcio? Deve vincere le partite, ok, se possibile trofei, Europei, Mondiali. Qualificarsi a quei tornei, è il minimo. Ma deve anche offrire una guida di tipo diverso al Paese, non solo tecnica e tattica, ma anche, diciamo così, spirituale. Deve farci da guida in tempi confusi in cui il segnale che ci invita a tenere le cinture allacciate è perennemente acceso. Per questo gli allenatori della Nazionale pubblicano codici etici e fanno dichiarazioni altisonanti, presidenziali. Per questo dibattiamo del significato delle loro convocazioni, del senso di una difesa a 3 o a 4. Per questo le sconfitte, le delusioni, non sono mai solo sportive, come se a non qualificarsi per il Mondiale non fosse solo quella squadra messa in campo da quell’allenatore, ma l’idea che c’era dietro quella squadra e che quell’allenatore riassumeva. L’idea di cosa? Beh, di come si deve essere italiani. L’allenatore della Nazionale è un elemento fondante della nostra identità.

Magari parlare di “massacro” è un’esagerazione, ma è vero che abbiamo salutato Mancini senza rendergli il giusto onore, dando quasi per scontato l’Europeo vinto, come se fosse successo chissà quanti anni fa, o magari a un altro allenatore. Certo, in mezzo c’è la seconda consecutiva mancata qualificazione al Mondiale, e più in generale era da un po’ di tempo che la sua Nazionale aveva perso la carica innovativa che aveva all’inizio, ma forse abbiamo dimenticato come stavamo quando Mancini è arrivato, il grande cambiamento che ha portato.

Abbiamo vinto quell’Europeo con una squadra propositiva, ambiziosa e fluida, capace di adattarsi a situazioni e contesti diversi, soffrendo fino ai rigori con la Spagna ma rimontando con coraggio l’Inghilterra in finale, in casa loro. Ha convocato giovani sconosciuti che dovevano ancora esordire in prima squadra o che giocavano in Serie B, ha pescato dai campionati esteri, frugato nelle seconde e terze generazioni di italiani emigrati pur di trovare nomi nuovi. In tutto ciò non ha mai temuto il giudizio della parte più conservatrice del Paese e anche nei momenti di difficoltà non ha sconfessato quanto detto e fatto in precedenza. Insomma è rimasto Mancini.

Nove giorni prima di dare l’addio era stato fatto coordinatore delle Nazionali giovanili, una specie di super-allenatore, un’eminenza niente affatto grigia del calcio italiano, e nessuno - quasi nessuno - ha protestato. Se lo avessero anche proclamato allenatore della Nazionale a vita non ci avremmo visto niente di strano. E invece subito dopo che è uscita la notizia le sue dimissioni ci sono sembrate un atto dovuto, anzi lo aveva fatto in ritardo, avrebbe dovuto dimettersi dopo la mancata qualificazione, oppure dopo la sconfitta con l’Argentina, oppure dopo l’Europeo… e Spalletti senza aver allenato neanche un giorno ci sembra già un allenatore migliore per la Nazionale. Ci sentiamo più vicini a lui che a Mancini, che invece è sempre rimasto a una certa distanza, come se tra noi e lui ci fosse sempre stato un vetro.

Una parentesi personale. Ho intervistato Mancini all’inizio del suo periodo da CT. Eravamo a casa sua, nel centro di Roma. È una persona elegante, con gusto, questo lo sanno tutti, e quella casa gli somigliava come certe persone finiscono con l’assomigliare al proprio cane per troppo affetto. Mi sarebbe piaciuto descriverla all’inizio dell’intervista, collocare Mancini in un contesto familiare, non l’ho fatto perché lui ha preferito che omettessi i dettagli personali. Non lo farò certo oggi, lo ricordo perché mi pare significativo il suo sottrarsi alla curiosità, a uno sguardo il più possibile completo. È questa forma di pudore, prudenza, se non addirittura diffidenza, che ce lo ha tenuto a distanza. Che non ce lo ha fatto amare del tutto neanche dopo l’Europeo. Forse è una distanza saggia, se la consideriamo dal punto di vista di Mancini, che vive sotto gli sguardi di tutti da quando è poco più che adolescente e che spesso si è trovato al centro di polemiche e litigi. Magari non è che non vuole farsi conoscere, è che quando ci ha provato non si è sentito capito. Magari Mancini sapeva dall’inizio che un Paese intero non può davvero capire o conoscere una persona in carne e ossa.

Luciano Spalletti, invece, muore dalla voglia di farsi conoscere. Sembra che nel processo di farsi conoscere, quando si lancia in monologhi improvvisati, più o meno contorti o illuminanti, Spalletti stia provando a conoscere se stesso. Spalletti sembra esplorarsi come un territorio sconosciuto e sorprendente e in effetti la sua carriera è tutta una scoperta, una novità continua che lo ha portato alla vittoria dello Scudetto con il Napoli - chi lo credeva possibile prima? - e alla panchina della Nazionale - anche questo, chi credeva sarebbe mai successo prima?

Spalletti è tutto fuori, dove Mancini è tutto dentro. Se Mancini sembrava intoccabile Spalletti è stato letteralmente preso a schiaffi da un tifoso avversario (peraltro, suo conterraneo, in un Fiorentina-Napoli). Se Mancini interpretava il ruolo di guida spirituale, di guru della nazione, senza crederci veramente, con la stessa presenza scenica con cui pubblicizzava le Marche e sconsigliava ai giovani di drogarsi, Spalletti ha iniziato a farlo prima ancora di diventare allenatore della Nazionale: «Uomini forti destini forti, uomini deboli destini deboli».

La lontananza di Mancini è una controindicazione di quell’eleganza che ce lo fa ammirare e che lo colloca leggermente sopra al contesto in cui si trova. Lo spazio che ci separa da lui non è orizzontale, Mancini è da sempre su un piedistallo invisibile - è così perché è così - prima ce lo metteva la sua classe in campo, la genialità del suo talento, poi è stata la sua bellezza, la cura di sé, il distacco come qualità sociale. Con Mancini il vetro andava in pezzi solo nelle occasioni più sfortunate, quelle in cui se la prendeva con la società autostradale che gli chiudeva senza preavviso l’uscita che utilizzava per tornare a casa, o in cui condivideva un meme negazionista in piena emergenza pandemica. Quando Mancini si apriva con noi era per errore, lo faceva involontariamente.

Spalletti invece è quel tipo di persona che nel bel mezzo di un’intervista di rito alza la propria intensità come un forno a cui gira la manopola al massimo, fissa lo sguardo nella telecamera come se volesse uscire dai televisori e dai telefoni di chi lo sta guardando per mangiarseli, e dice una cosa tipo: «Che il calcio è facile lo sanno dire tutti, c’è bisogno che si dica qualcosa di diverso perché vogliamo scegliere se il calcio è facile è basta o se, invece, deve diventare qualcosa di moderno, come succede in tante altre professioni» (questo lo ha detto a Sky, che lo ha intervistato durante una premiazione che si teneva a Certaldo, casa sua, senza che nessuno avesse introdotto il tema prima).

Se Mancini dopo le sconfitte nascondeva a stento il fastidio di doverne parlare, di dover rendere conto a qualcuno, a tutti, del suo operato, Spalletti ha le spalle abbastanza larghe per portare la croce della nazione, e mentre cammina con la croce in spalla e la corona di spine che lo fa sanguinare in diretta al TG1 è in grado di uscirsene con una frase tipo: «La felicità è una cosa fugace» (il che, sia chiaro, non è del tutto positivo: non è detto che la nazione non approfitterà di questa sua vocazione al martirio per dargli addosso).

Spalletti ha festeggiato lo scudetto del Napoli - che qualcuno pensava non avrebbe mai vinto; o meglio: che il Napoli non avrebbe vinto a causa sua, come se fosse stato un allenatore maledetto - organizzando una festa nella sua tenuta vicino Firenze, cantando insieme a Marco Masini la sua canzone più conosciuta, la canzone più italiana possibile: Vaffanculo. Spalletti alla signora che in mezzo al traffico gli chiedeva perché stava lasciando Napoli ha risposto: «Non mi faccia piangere». Ai bambini venuti a vedere l’allenamento invece domandava perché non erano a scuola.

Qualche giorno fa, per ricordare Carlo Mazzone nel giorno della sua morte, Emanuele Atturo ha scritto che «non scappava dalle emozioni del calcio, viveva per quelle ed era palpabile. Emanava quella gioia auto-distruttiva – quel far diventare la propria passione il proprio lavoro, e poi la propria catena – che è singolare degli allenatori italiani». Luciano Spalletti fa parte di questa stessa categoria di allenatori. Nessuno è più devoto di lui alla propria professione, nessuno è più disposto di lui a sacrificarsi per il calcio, per la Nazionale, per noi. Nessun altro allenatore, oggi, è più italiano di lui.

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