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Daniele Manusia
Ndicka migliorerà la difesa della Roma?
14 giu 2023
14 giu 2023
Pregi e difetti del nuovo difensore di Mourinho.
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Daniele Manusia
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IMAGO / Kolvenbach
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Evan Ndicka arriva in Italia accompagnato da grandi aspettative. Al di là del curriculum - 23 anni, 5 stagioni in Bundesliga, una Europa League vinta nel 2022 - l’interesse riguardo il suo trasferimento deriva sostanzialmente dal fatto che un difensore alto un metro e novanta, sta finendo in una delle squadre più difensive d’Europa, che in alcuni momenti sembra voler riempire fisicamente lo spazio in area di rigore in modo da non lasciare spifferi in cui passi il pallone. Le ultime partite in campionato e coppa della Roma di Mourinho sono state di pura resistenza, con giocatori che sembravano reduci da una campagna militare, in campo da semi-infortunati o comunque sulle ginocchia, immersi in partite lunghe o lunghissime (quasi due ore e mezza di finale col Siviglia). La vita di un difensore della Roma non è per tutti e la prima cosa che viene da chiedersi è se Ndicka è consapevole della mole di lavoro che lo aspetta.

La risposta è, probabilmente, sì: Ndicka sa benissimo cosa lo aspetta, visto che la trattativa è stata portata avanti da mesi e avrebbe avuto eventuali alternative (si parla anche di telefonate dell’ultimo momento del Milan). Arriva come upgrade di Ibanez sul suo stesso lato sinistro e dal punto di vista mentale sembra avere tutte le qualità necessarie. Ndicka è più tranquillo, più solido caratterialmente e anche tecnicamente più a proprio agio. Cresciuto nel 19esimo arrondissement di Parigi per giocare nelle partite di periferia, a la Courneuve, Aubervilliers, Villepinte, doveva “rispondere presente” quando sollecitato in campo. Ad Auxerre, dove si è trasferito quando ha cominciato a giocare sul serio, ha esordito in prima squadra a 17 anni e in un’intervista alla rivista francese Onze ha raccontato che guardandosi attorno nello spogliatoio, con tutto il rispetto per i compagni più anziani, pensava solo: «Potete essere anche i migliori del mondo, ma gioco io!». 

La mentalità del coatto può essere d’impaccio nel mondo normale, ma non nel calcio. Il suo agente, al momento del trasferimento al Francoforte, gli ha chiesto se si sentiva pronto per la Germania, per la Bundesliga. «Gli ho risposto che se il mio avversario avesse saltato avrei saltato anche io, se avesse corso avrei corso anche io. Certo che ero pronto!». Successivamente Ndicka ha ammesso di essersi dovuto adattare («i tedeschi mi hanno ri-educato», ha detto in un’altra intervista, «persino in auto adesso rispetto i limiti») al ritmo e all’intensità della Bundesliga ma in fondo era quello che cercava. «Ad Auxerre anche se sbagliavo dicevano: non fa niente, è Ndicka, lo sappiamo che è forte». Insomma aveva bisogno di cambiare aria e, forse, dopo cinque anni in Germania voleva provare qualcosa di ancora diverso.

Pregi e difetti dell’essere sicuri di sé (anzi, prima i difetti poi i pregi)

Mancino a differenza di Ibanez, Ndicka dovrebbe dare maggiore sicurezza tecnica da quel lato. Può giocare a tre o in una coppia di centrali, anzi a mio avviso è meglio in una coppia. È un dettaglio tecnico e magari, per carità, con l’allenamento, con la difesa di reparto, può migliorare, ma Ndicka sembra più a proprio agio a difendere su un campo corto (in verticale) e magari largo (in ampiezza) piuttosto che molto lontano dalla propria porta. Sembra strano, venendo Ndicka da una squadra aggressiva, con la difesa alta, come il Francoforte, ma proprio per questo si sono notati dei difetti che altri sistemi avrebbero tenuto nascosti.

Contro il Napoli nella partita di andata dei quarti di finale di Champions League, legge con un attimo di ritardo il movimento a uncino di Lozano che poi non riprende più e arriva al cross per l’1-0 di Osimhen (appena rimessa in gioco la palla si fa intercettare un passaggio da Lozano e si ritrova in una situazione identica, solo che stavolta Osimhen parte in fuorigioco sul cross, altrimenti avrebbe causato, direttamente e indirettamente, due gol in una manciata di minuti).

Adesso, la Roma richiede tante cose ai suoi difensori - di respingere un centinaio di palloni di testa e murare altrettanti tiri con qualsiasi parte del corpo - ma di andare a prendere oltre la metà campo uno come Lozano, ecco, questo proprio no.

Non è questione di velocità pura, perché poi gli sta dietro a Lozano, ma di letture e riflessi.

Quello con il Napoli è solo un esempio, ma Ndicka in campo aperto paga l’eccessiva compostezza che, invece, in area di rigore gli permette di sbagliare pochissimo. Certo in questi anni ha avuto meno attenzione sull’uomo di quella che richiede la Roma ma la base di partenza è promettente. Ndicka non è uno di quei marcatori che dominano l’avversario anche quando la palla è lontana, oppure arrivando forte in marcatura da dietro anche a costo di fare fallo, perché si fida della sua capacità di coprire gli spazi, di accorciare le distanze e di togliere la palla. Grazie alle leve lunghe e a un ottimo senso dell’anticipo e dell’intervento in effetti Ndicka è spesso pulito, anche in situazioni complicate.

Nella partita di ritorno col Napoli, intorno al 55esimo (in teoria il Francoforte è ancora in partita anche se deve recuperare due gol), si ritrova a coprire la profondità contro Kvaratskhelia. Sappiamo quanto il georgiano sia pericoloso in campo aperto, potendo andare lungolinea o rientrare sul destro in ogni momento, e Ndicka è molto abile ad accompagnarlo fino al limite dell’area coprendogli la parte di campo più sensibile, il centro. Una volta che la distanza si è accorciata al massimo, sempre calmo mentre Kvaratskhelia provoca, in un certo senso, un intervento che gli permetterebbe di dribblarlo, Ndicka legge con grande puntualità lo sprint sul sinistro del georgiano e lo separa prima con un braccio e poi con l’anca dalla palla.

Qui è interessante notare come non tenti l'intervento quando Kvara gli va incontro cercandolo, ma anche la forza con cui lo sposta dal pallone.

Un breve confronto con Ibanez, giusto per capire

«Anche se l’attaccante ti si mangia per 89 minuti magari recuperi il pallone che all’ultimo minuto porta a un gol per la tua squadra. E allora tutti diranno che sei stato il migliore in campo». Ha detto, sempre nell’intervista con Onze. Ma funziona anche al contrario: «Magari stai facendo una partita pazzesca per 89 minuti e basta un errore alla fine perché dicano che hai giocato una partita disastrosa». L’importante, dice Ndicka, è divertirsi giocando. Prima della partita di ritorno con il Barcellona (quarti di Europa League al Camp Nou, con una rimonta da fare dopo l’1-1 fatto in casa), dice di aver pensato che l’importante era uscire dalla stanza di albergo «da uomo» e rientrarci «da uomo». Non è semplicissimo capire cosa intendesse, per me significa che Ndicka non vuole lasciare che l’emotività del calcio lo ferisca.

Ancora più difficile capire come un carattere del genere si combinerà con il calcio iper-emotivo di Mourinho in cui i giocatori sembrano adepti di una setta segreta, disposti a darsi fuoco in area di rigore pur di non subire gol, ma non è detto che un po’ di distanza non faccia bene. La distanza che hanno, ad esempio, due leader come Smalling e Matic, e che non ha avuto Ibanez in alcuni momenti della stagione. Pochi, a dire il vero, ma a conti fatti decisivi. Il brasiliano è un buon termine di paragone per Ndicka, proprio per quanto i due giocatori sono diversi.

A Ibanez non manca nulla dal punto di vista atletico per diventare uno dei difensori più dominanti d’Europa. Guardando le statistiche di Statsbomb in effetti si vede che è nel 4% di difensori che in media vincono più duelli aerei e nell’11% di quelli che subiscono meno dribbling. Certo va sempre chiarito che le statistiche dei difensori dipendono in parte dal sistema di gioco, ma oggi Ibanez è più allenato e più intenso sul piano dei duelli individuali di Ndicka: fa più tackle, più intercetti, ed è anche più falloso. Ndicka non ha la sua esplosività e lo si nota dal fatto che solo il 40% delle volte riesce a evitare il dribbling dell’avversario, dovuto anche, come detto, al fatto che difendeva su porzioni di campo grandi. Di fatto però sia Smalling che Mancini, oltre a Ibanez, hanno una percentuale notevolmente migliore.

Sarà interessante, tra un anno, vedere come è cambiato il radar di Ndicka proprio in quegli aspetti su cui oggi sembra carente.

Ndicka dovrà crescere su un aspetto che per Mourinho è vitale: vincere i duelli individuali. E compensare con le letture e il tempismo, con la qualità da difensore puro, le eventuali difficoltà di adattamento. La base, tecnica e atletica (è molto forte, oltre che banalmente grosso) c'è, e a 23 anni sono cose che rientrano nell’orizzonte delle sue possibilità - e i modelli di riferimento sembrano quelli giusti: Ndicka ha fatto il nome di Koulibaly in passato, un difensore dominante tanto fisicamente che tatticamente, grazie alla qualità dei posizionamenti e delle letture.

Intanto la Roma guadagna, già da oggi, un giocatore sicuramente più abile in costruzione, che nonostante abbia una percentuale di passaggi riusciti più bassa di Ibanez ha un valore più alto nella costruzione degli xG (significa che dai suoi passaggi nascono azioni qualitativamente superiori: anche in questo influisce il resto della squadra però, perché il valore finale deriva dal tiro) e che lancia più volentieri. Soprattutto per i cambi di gioco da sinistra a destra, Ndicka potrebbe rivelarsi un’arma strategicamente importante per la Roma, sia per sfuggire al pressing sia per risalire velocemente il campo.

Ndicka ha detto che in campo la sua mentalità è una cosa del tipo: «Tu sei un uomo, io sono un uomo, battiamoci!». Che non ha complessi nei confronti di nessuno: «Altrimenti cambio sport». I difensori, però, corrono sempre sul filo del rasoio: se per un attaccante l’occasione più importante è sempre la successiva, e anche dopo un errore grave si sa già che ci sarà la possiblità di riscattarsi, gli errori dei difensori restano appiccicati come gomme sotto al sedile del cinema. Se sai dove cercare, la trovi anche a distanza di anni. Nel senso che per Ndicka è arrivato il momento di dimostrare/capire quale è il suo vero livello e in un contesto come quello creato da Mourinho a Roma non sbagliare è la cosa più importante. O comunque quella che viene prima delle altre.

D’altra parte Ndicka sembra arrivato a uno snodo di carriera significativo in modo anche più personale. Sembra vicino a una convocazione con la nazionale ivoriana (dove è nata la madre) dopo aver fatto la trafila nelle giovanili francesi, anche se non esattamente da protagonista, e sta a lui colmare il gap di reputazione che lo separa dagli altri rappresentanti della scuola di centrali francesi, i vari Konaté, Upamecano, Koundé. La Roma è un piedistallo perfetto per mettersi in mostra, e Mourinho il miglior scultore in circolazione per chi voglia erigere un monumento all’arte difensiva. Ndicka è pronto a farsi modellare dalle sapienti mani del manipolatore portoghese?

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