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Come i Sixers hanno riaperto la serie con Miami
09 mag 2022
09 mag 2022
Il ritorno di Joel Embiid, il risveglio di Harden e altri appunti sparsi dal Wells Fargo Center.
(articolo)
8 min
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«Sixers in 6». L’adolescente brufoloso non ha dubbi. Sbatte il suo pronostico in faccia alle telecamere della NBC, fuori dal Well Fargo Center. Mancano pochi minuti all’inizio di gara-4, l’ennesimo crocevia per la stagione di Philadelphia. Ma nessuno, per una volta, sembra avere paura. Chiamatelo effetto Embiid; oppure, più semplicemente, forza della disperazione. Fatto sta che, con mezzo piede nel baratro, i Sixers tirano fuori la coppia di vittorie più bella della stagione. Soverchiando i Miami Heat su tutti i livelli — attacco, difesa, intensità, tattica — e dando l’impressione che forse, ma proprio forse, in fondo a quell’equazione così complessa potrebbe anche nascondersi un risultato.

Per rimanere delusi rimangono ancora tante occasioni, al momento, però, torna di gran carriera la speranza. Quella che ti uccide, certo. Ma pure alimentata da una serata di grandi emozioni, che si chiude con il ruggito mascherato di Joel Embiid a centrocampo: l’abito più recente di un Processo che sembra sempre sul punto di implodere, ma in qualche modo riesce a continuare. E così si torna a Miami con una serie che non solo esiste, ma è pure incredibilmente diversa da quella che sembrava profilarsi prima del fine settimana. Con l’inerzia che pende dalla parte dei Sixers, e gli Heat che improvvisamente devono guardarsi dentro. Soprattutto per capire come dare supporto a un Jimmy Butler immenso, ma apparso tremendamente solo.

Tutto va, come deve andare

Dopo il colpo di reni di gara-3, gara-4 ha regalato ai tifosi dei Sixers un assaggio di quei momenti fortemente sognati e che eppure sembrava non dovessero mai arrivare: le zampate di Harden, la leadership di Embiid, i guizzi di Maxey e i colpi chirurgici del cast di supporto, guidato da un Danny Green risorto dal nulla. E la spinta di un pubblico spavaldo, che ha prontamente colto, e adeguatamente fomentato, lo spirito battagliero dei suoi beniamini. Esaltandosi per le giocate difensive, oltre che per i canestri. E regalando una sana dose di disprezzo ai direttori di gara, tra cui un personalissimo coro “fuck Scott Foster”, dedicato a uno degli arbitri — roba più da stadio italiano che da arena NBA, ma che ha fatto tanto per regalare la più cristallina delle atmosfere da playoff. E poco importa che la direzione arbitrale sia stata decisamente all’altezza, seppur un po’ fiscale nell’interpretazione di certi contatti.

Per i tifosi dei Sixers niente è stato più soave di vedere, finalmente, dei lunghi tratti di James Harden da James Harden. L’ex Brooklyn ha chiuso con 31 punti, 6/10 da tre, e i canestri decisivi che negli ultimi minuti hanno tenuto Miami a distanza, mostrando la decisione che troppo spesso era mancata nelle uscite precedenti. Ha continuato a coinvolgere i compagni, come in verità ha sempre fatto (pure troppo) da quando è arrivato a Philadelphia, ma è anche finalmente riuscito a garantire una pericolosità offensiva costante, fatta di canestri da fuori (in maglia Sixers non aveva mai segnato sei triple in una partita) e di penetrazioni con il tempismo giusto. Il cui fine ultimo era quello di trovare il ferro, più che di lucrare un fallo. Allargando la prospettiva, però, quella dei Sixers è stata una vera vittoria di squadra. Come mostrato dai sei giocatori in doppia cifra — tutto il quintetto, oltre a un ottimo Georges Niang — e dal fatto che il solco decisivo, a inizio quarto periodo, è stato scavato quando Embiid stava prendendosi una boccata di ossigeno. Dando finalmente prova che, anche quando il proprio miglior giocatore è in panchina, il resto della squadra può comunque trovare una sua quadratura.

In questo senso, la riscossa è esemplificata al meglio dalla rinascita di Danny Green. Epitome del cervo colpito dai fanali nelle due partite giocate in Florida, si è riscattato alla grande a cavallo di gara-3 (chiusa con 6 triple) e di gara-4. Il suo cambio di rotta è incarnato perfettamente dall’incredibile canestro segnato alla fine del secondo quarto della partita di ieri, con il punteggio in parità: una tripla con fallo subito scoccata in transizione, senza nessuno a rimbalzo, figlia di un moto di incoscienza che solo chi ha piena fiducia nei propri mezzi può permettersi. È stata quella giocata che ha incrinato gli equilibri per la prima volta, spingendo i Sixers a prendere il controllo della situazione. Se la spinta dovesse continuare anche in Florida, Philadelphia potrebbe avere trovato l’arma in più.

https://twitter.com/sixers/status/1523466462161096705

Incosciente come il vero Danny Green deve essere.

Metamorfosi mascherata

Inutile a dirsi, saremmo comunque qui a parlare di nulla se Joel Embiid fosse una persona razionale. Ovvero qualcuno che, con un legamento della mano lacerato e una frattura dell’orbita, compie la logica scelta di fermarsi e recuperare la propria funzionalità fisica, prima di mettere ulteriormente a rischio la propria salute. Ma di normale Joel non ha niente. Né per come gioca, né per come vive questo sport. E così, appena le norme NBA glielo hanno concesso, il camerunense è tornato in campo. Menomato, mascherato, imballato. Ma tremendamente presente. Trasformando, per il solo fatto di esserci, una squadra alla deriva in una squadra pronta alla battaglia.

Per tutta la tifoseria dei Sixers, l’avvicinamento a gara-3 era stato essenzialmente spasmodico doomscrolling. Si cercano solo spifferi sulla salute di Embiid, in un clima da nevrosi che solo la Philadelphia sportiva al suo meglio è in grado di regalare. Un susseguirsi di preghiere, inferenze probabilistiche sulla presenza del camerunense in base alle quote Over/Under sulla partita, e voci incontrollate di un trofeo di MVP ormai assegnato — talmente grossolane da far sembrare Fantozzi un dilettante. Gli unici aggiornamenti di sostanza arrivano dai soliti noti, Wojnarowski e Charania, e tendono al miglioramento: commozione cerebrale superata in mattinata; ferma volontà di giocare ribadita nel pomeriggio; e via libera definitivo a ridosso della partita, che vale al camerunese un’ovazione più corposa del solito alla discesa in campo per il riscaldamento. Il Wells Fargo Center è ancora un'alcova per pochi intimi, ma gli sparuti presenti fanno comunque vibrare i muri, gettando le basi per la battaglia che sta per iniziare. Solo il primo di una serie di fragorosi e meritatissimi tributi.

Anche a livello tattico, oltre che emotivo, l’impatto del candidato MVP sulla serie è clamoroso. Prevedibile, ma non per questo meno impressionante. La presenza di Embiid ha permesso a Philadelphia di mettere in campo un piano difensivo degno di questo nome per la prima volta nella serie. Riuscendo al tempo stesso a limitare Bam Adebayo e a togliere agli esterni di Miami le tonnellate di tiri in carrozza che avevo rappresentato il motivo ricorrente delle prime due partite. Il camerunense sporca i tiri, allunga le mani, tiene lontani tutti dall’area. E fa il suo dovere anche quando deve cambiare sugli esterni, come quando nel primo quarto di gara-4 sporca un tentativo di cross-over di Oladipo, regalando al Wells Fargo Center una delle giocate più applaudite della partita.

https://twitter.com/JClarkNBCS/status/1523458547702403072

Perché troppo spesso la sua grandezza offensiva fa dimenticare il suo impatto difensivo.

Pensando al futuro, il grande punto interrogativo riguarda più che altro il suo rendimento offensivo, soprattutto ora che l’onda emotiva del rientro andrà esaurendosi. A suo agio vicino a canestro, ha mostrato invece più di qualche problema al tiro, probabile frutto del disturbo combinato dell’infortunio e della maschera. Ma è in miglioramento, e sia lui che Doc Rivers hanno ribadito lo stesso concetto: «Dobbiamo ancora giocare la nostra miglior pallacanestro».

Un’altra epoca

Pur abituati all’andamento ondivago delle serie playoff, difficile pensare a un cambiamento di rotta così radicale come quello osservato tra le ultime e le prime due partite, in cui i Sixers non avevano mai dato l’impressione di poter arrivare anche solo a giocarsi la partita. Pure quanto il distacco era sulla carta minimo, come dopo il primo tempo di gara-1. I primi 96 minuti della serie erano stati la storia di una comoda passeggiata di salute per Miami, abile a capitalizzare senza sforzo sui limiti difensivi e offensivi dell’avversario, soprattutto quando DeAndre Jordan era in campo. Notoriamente poco pericoloso a più di una manciata di centimetri dal ferro, l’ex Clippers è stato sostanzialmente ignorato dalla difesa in ogni situazione di gioco a due, permettendo alla retroguardia degli Heat di chiudere gli spazi sul perimetro a Maxey e Harden senza correre rischi particolari. Ed è stato esposto brutalmente dalla parte opposta del campo, dove la sua passività è arrivata a livelli da caricatura, come nel canestro che a concesso a Jimmy Butler in apertura del terzo quarto di gara-2 per gli Heat. Con i Sixers sotto di quattro punti, e teoricamente chiamati a produrre il massimo sforzo per rientrare in partita. Senza virtualmente resistenza, Bam Ademayo ha così goduto di due serate di mattanza — 47 punti, 15/20 dal campo, un senso di onnipotenza che raramente si era visto prima, anche nelle serate migliori. E che è prontamente svanito lontano dalla Florida.

Come se la situazione difensiva non fosse abbastanza complicata, gli esterni dei Sixers avevano pensato bene di incappare in due serate da incubo al tiro, premiando di fatto la scelta di Spoelstra di togliere la palla dalle mani di Harden ed eventualmente farsi punire dagli altri. Con l’eccezione di Maxey, nessun altro era riuscito a rendersi pericoloso: totalmente rinunciatario Matisse Thybulle, al punto da costringere Rivers a un paio di sostituzioni premature; imprecisi Furkan Korkmaz e Niang; e completamente fuori fase Green, che ha concluso gara-2 con 1/10 dal campo e -18 di plus/minus, forse la peggiore partita in carriera, ma anche un grande espediente teatrale per l’esplosione osservata nelle uscite successive.

E così per Miami era stato tutto troppo facile per essere vero — al punto che anche tra i vincitori si respirava una strana amarezza per una serie che poteva essere bellissima, e che invece non sembrava nemmeno poter cominciare. Lo si era percepito quando Jimmy Butler, alla vigilia di gara-3, aveva espresso la sincera speranza di poter giocare contro Embiid, il giocatore che considera l’MVP della stagione. Sarebbe stato prontamente accontentato, e con lui tutta la Sixers Nation. Che ora guarda con fiducia il resto di una serie che sembrava chiusa e che invece con Embiid in campo è definitivamente riaperta.

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