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L’uomo più odiato di Philadelphia
23 nov 2022
Come è andato il primo ritorno di Ben Simmons da avversario dei 76ers.
(articolo)
8 min
(copertina)
Mitchell Leff/Getty Images
(copertina) Mitchell Leff/Getty Images
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Proprio come era arrivato, the return è già finito. Doveva essere una lugubre resa dei conti, una serata di odio e astio. E invece, tra bordate di buuuh e cori di “fuck Ben Simmons”, hanno trionfato i sorrisi. Facendo quasi passare in secondo piano lo scontro con un nemico che, se non per qualche fugace istante, non ha mai veramente fatto paura. Merito di Paul Reed e Tobias Harris, improbabili leader dei migliori Philadelphia 76ers di stagione. Che si sono presentati alla palla a due con un’infermeria dai contorni grotteschi — fuori Tyrese Maxey, James Harden e Joel Embiid, cui si sarebbe presto aggiunto Matisse Thybulle — e si sono invece divorati dei Brooklyn Nets agonisticamente impresentabili. Mettendo fine, in poco tempo e senza troppi drammi, all’attesa agonizzante di un evento che, con buona pace dei Mondiali di calcio in corso, è stato il tema sportivo dominante della settimana. Rigurgitato senza sosta dalla stampa locale e da quella nazionale. Poteva accadere il 10 marzo scorso, poche settimane dopo lo scambio che aveva ufficializzato la fine dell’esperienza di Simmons con i Sixers — di fatto già al capolinea da mesi. Ma dopo un anno di inattività, per l’australiano il ritorno in campo era ancora lontano. E così, l’attesa ha dovuto dilatarsi per altri otto mesi, crescendo a dismisura.

Simmons sgattaiola sul campo poco dopo le 18, quando il tabellone segna ancora oltre 75 minuti dalla palla a due. Il Wells Fargo Center è deserto. C’è giusto il tempo di una manciata di pigri tiri dalla media appoggiati al tabellone. Poi qualche corsetta di riscaldamento; un saluto a un amico a bordo campo; e per finire una dozzina di penetrazioni uno contro zero, concluse con una schiacciata, prima di riprendere la via degli spogliatoi. Un manipolo di tifosi dei Nets lo attende per gli autografi. Dietro di loro, un tifoso Sixers in felpa viola, tasso alcolemico superiore allo zero, gli urla una pioggia di insulti. Ma riecheggiano nel vuoto dell’arena desolata, assorbiti dal silenzio. In un’indifferenza che forse è l’immagine migliore di un evento atteso così febbrilmente, e finito senza che nemmeno ci fosse il tempo di accorgersene. Nemmeno l’avvicinarsi della palla a due cambia la sostanza. I Nets tornano sul parquet per la consueta ruota di riscaldamento, a un quarto d’ora dall’inizio. Per Simmons, questa volta, piovono i buuuuh. Che si intensificano, come prevedibile, alla presentazione ufficiale, subito dopo l’inno. Senza però spiccare rispetto a quelli dedicati a Irving e Durant.

Tutto sommato è andata bene.

Bersaglio mobile

E poi, finalmente, inizia la partita. La liberazione che tutti aspettavano. Simmons porta palla. Un bersaglio vivente, reso fosforescente dalle scarpe scarlatte. I fischi scandiscono ogni suo palleggio. Ma lui appare concentrato. I primi tre tocchi sono tre assist, e non di quelli che gonfiano le statistiche. Poi, in seguito a un fallo di Tobias Harris su un tentativo di appoggio, arriva anche la prima apparizione in lunetta. La folla si scalda per davvero. Tutti in piedi, come quando si fa una standing ovation. Ma invece che applausi, piovono insulti. Lui, impassibile, insacca un 2/2. Prende coraggio, sublimato da un inaudito isolamento su un quarto di campo. Finisce con un gancio che scalfisce il ferro, ma davanti a tale aggressività tutti sono così increduli che non riescono nemmeno a fischiare.

Il resto del primo tempo scivola via lungo binari sorprendentemente piacevoli. Dopo un inizio pessimo, i Sixers delle seconde linee scoprono di potersela giocare. Lottano, difendono, tirano senza remore. E, soprattutto, eseguono con aggressività, trovando autostrade verso il canestro su tagli backdoor gentilmente concessi da una difesa di Brooklyn imbarazzante. E così, la buona prova di Simmons non basta ad evitare che Philadelphia vada al riposo avanti nel punteggio. Alla pausa i Sixers hanno preso il rimbalzo offensivo sul 47% dei loro tiri — praticamente una seconda chance di tiro ogni due conclusioni; un dato che rende meglio di tutti l’idea del loro dominio, oltre a un 10/19 da tre che nessuno avrebbe pronosticato.

Arriva la ripresa, e il corso degli eventi non cambia. I Nets continuano a vagare per il campo, come un’accozzaglia di giocatori assemblata il giorno prima. I Sixers, dall’altra parte, vincono ogni duello di intensità, in difesa e in attacco. Tenendo la testa avanti anche quando la logica li dovrebbe vedere al collasso. Nel frattempo Simmons si eclissa progressivamente, ripiombando nel limbo di passività che tutti, dentro questa arena, riconoscono al primo sguardo. Eccezion fatta per un paio di assist, la sua presenza si nota per una coppia di liberi sbagliati che manda in visibilio il Wells Fargo Center.

Oltre a un sano effetto catartico, portano in dote un giro di alette di pollo gratis, gentile concessione del fast food di riferimento. Passano i decenni, avanzano le statistiche analitiche, si raffinano le tecnologie; ma il cibo a sbafo continua a essere il vero pilastro del marketing NBA, con buona pace della lotta alle diseguaglianze sociali.

E così, tra una tripla di Melton e una di Milton — sembra una barzelletta, se non fosse che la coppia di semi-omonimi ha fatto pezzi la difesa perimetrale dei Nets — la serata dell’australiano si conclude a tre minuti dalla fine, con i buoi ormai abbondantemente dispersi. Jacque Vaughn lo toglie dopo un timeout, evitandogli l’ultima scarica di improperi. Chi invece sale in cattedra, finalmente, è Tobias Harris. Che dopo un primo tempo con movenze da ectoplasma e lo scampato pericolo di un infortunio alla caviglia che pareva affare ben più serio, prende in mano la partita con una prepotenza che raramente aveva mostrato in passato. Rincula verso il canestro, prende tutti i difensori a spallate, reclama possesso del centro area: sono i suoi 22 punti nella ripresa a fare la differenza e a mettere a nudo un impianto difensivo dei Nets che è sembrato semplicemente non esistere. Finisce allora come tutti speravano e nessuno si aspettava: una lunga ovazione per i padroni di casa, sulle note di “Here come the Sixers”. Mentre un manipolo di tifosi si precipita a prendere posto davanti all’inferriata, proprio dove è parcheggiato il pullman dei Nets. Pronti a far partire gli ultimi insulti di serata. Non sia mai che non ne fossero arrivati a sufficienza.

Il meglio della sua serata, con almeno una manciata di giocate semplicemente impensabili anche solo due settimane fa, quando sembrava l’ombra di se stesso. Dopo la partita Simmons ha detto sui tifosi: “Pensavo avrebbero fatto più casino”.

Provare a dare un senso a Ben Simmons

Sono passati 520 giorni da quella sciagurata serata di giugno: la gara 7 persa in volata contro gli Atlanta Hawks, che costò ai Sixers l’accesso a una finale di conference ormai in pugno. Sarebbe stata l’ultima apparizione di Simmons con la maglia di Philadelphia. Una partita segnata dallo scarico con cui l’australiano rinunciò a una comoda schiacciata per lasciare la palla a Thybulle, confezionando quello che è diventato l’assist più egoista, e meno celebrato, della storia del gioco. La giocata si sarebbe trasformata rapidamente, e un po’ ingiustamente, in un capro espiatorio: il simbolo dei tentennamenti di un giocatore arrivato con aspettative immense, premiato da un contratto faraonico, ma mai in grado di convincere del tutto. Diventando patologicamente rinunciatario con il passare dei mesi. Da lì, per le strade di Philadelphia, bensimmons è diventato un verbo, usato al campetto per bollare chi rinuncia a un tiro comodo per un passaggio. Oltre che un insulto, possibilmente con la f-word davanti, per esorcizzare una delusione sportiva che ancora brucia tantissimo. E poco importa che a perdere quella partita avessero contribuito, chi più e chi meno, tutti gli altri giocatori in campo.

Ma se per i tifosi di Sixers quella di Simmons è la storia di un tradimento atroce — e ci mancherebbe altro — dare un senso alla vicenda dell’australiano rimane complicato. Soprattutto se si resiste alla tentazione di abbandonarsi ai soliti toni scandalistici, inadeguati per commentare una storia di cui si sa ancora spaventosamente poco. Quello di Simmons continua infatti a essere un enigma con pochi eguali nella storia del gioco: da una parte un giocatore con delle lacune offensive evidenti, macroscopiche, soprattutto per i canoni della NBA contemporanea, e mai corrette; dall’altra, un giocatore che, nonostante tutto questo, non solo riesce a stare in campo, ma dà anche la sensazione, di tanto in tanto, di poter fare la differenza. Forte di istinti clamorosi e innegabili per questo gioco. Il tutto, avvolto nella cortina fumogena di un atteggiamento imperscrutabile, patologicamente passivo, anche per la sua stessa squadra, che non a caso aveva messo in dubbio perfino la sua passione per il gioco. L’unica sensazione che rimane allo spettatore è quella di un giocatore che, in molte situazioni, vorrebbe semplicemente essere altrove. Che sia per ansia, scazzo, timidezza, supponenza — o una combinazione letale di tutti questi ingredienti—non è dato sapere. E forse non è nemmeno così importante.

E così, mentre il primo quinto di regular season si avvicina agli archivi, il mistero non accenna a diradarsi. Ci sono state aperture, barlumi di luce. Come la grande prestazione nella vittoria contro i Memphis Grizzlies, a chiudere un terzetto di partite in cui è sembrato tornare almeno a tratti il giocatore che era. O il sorriso, insolitamente genuino, con cui ha commentato l’imminente ritorno a Philadelphia, mostrando una serenità inusuale per un personaggio che pare diventato schiavo della propria tristezza. Ma in un contesto di squadra dalle dinamiche chiaramente disfunzionali, che esistevano ben prima del suo arrivo, sembra difficile pensare che le cose possano cambiare. Tracciando la strada per quella che sembra destinata a diventare l’ennesima stagione ondivaga della carriera di un giocatore mercuriale. E lasciandoci a fare i conti con la fastidiosa sensazione di esserci persi qualcosa di maledettamente bello per chi ama questo gioco. Che doveva arrivare, ma non si è mai presentato.

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