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La fine dei Blazers per come li conosciamo
10 dic 2021
10 dic 2021
Attorno a Damian Lillard è cambiato tutto e tutto sta di nuovo per cambiare.
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Se c’è una cosa per cui Portland è famosa è la pioggia. Nella città più popolosa dell’Oregon piove in media per 156 giorni all’anno, quasi 50 in più rispetto alla media nazionale. Di converso, c’è il sole per soli 144 giorni all’anno, contro i 205 della media nazionale. La pioggia fa parte dell’identità cittadina quasi quanto le rose e la sua voglia di rimanere orgogliosamente “strana”.

La casa dei Portland Trail Blazers non si chiama più “Rose Garden” ormai da diverso tempo, ma se c’è un luogo dove stanno accadendo cose strane e, soprattutto, dove sta piovendo a dirotto è all’interno della franchigia. Dopo un’estate decisamente complessa, specialmente per le richieste non ascoltate di Damian Lillard e la controversa assunzione di Chauncey Billups come capo-allenatore, la stagione 2021-22 dei Blazers ha avuto un inizio rapsodico, alternando vittorie casalinghe e sconfitte esterne praticamente in egual misura, con uno dei record più strani di tutta la lega.

Fino al 24 novembre i Blazers avevano un record di 9 vittorie e una sola sconfitta al Moda Center, inanellando nove successi consecutivi dopo il ko al debutto stagionale contro Sacramento; il loro differenziale su 100 possessi era di +11.7, con il secondo miglior attacco della lega e una difesa quanto meno mediocre battendo comunque squadre di livello come Phoenix (seppur alla seconda partita di un back-to-back), le due squadre di Los Angeles, e due squadre da playoff a Est come Philadelphia (senza Embiid) e Chicago.

Fuori casa in compenso si trasformavano come Dottor Jekyll in Mr. Hyde: una sola vittoria a fronte di sette sconfitte, -11.5 punti su 100 possessi di differenziale, il 19° attacco della lega a fronte della penultima difesa, davanti solo ai Memphis Grizzlies. Pur con questo terribile rendimento esterno i Blazers sono riusciti a tenersi a galla sopra il 50% di vittorie con un record di 10-8, ma nelle ultime due settimane sono crollati definitivamente, perdendo sette delle ultime otto partite e precipitando fino all’undicesimo posto nella Western Conference, superati anche dai Sacramento Kings. Una posizione che, se confermata a fine regular season, li terrebbe fuori anche dal torneo play-in interrompendo così la loro striscia di otto partecipazioni consecutive ai playoff, la striscia aperta più lunga in tutta la NBA.

Ma non è solo per il rendimento scadente visto in campo che nell’ultima settimana l’Occhio di Sauron della NBA – cioè tutte le column dei giornalisti, da ESPN a The Athletic passando per il Washington Post e Bleacher Report – si è spostato su Portland. Se i Blazers fossero semplicemente una squadra in difficoltà, a nessuno importerebbe davvero e in pochi ne scriverebbero. Il vero problema è che il castello costruito nell’ultimo decennio sta crollando pezzo dopo pezzo, con alcuni bastioni che sono già caduti (specialmente a livello dirigenziale) e quelli rimasti che sembrano decisamente traballanti, specie in panchina e nello spogliatoio. E il rischio è che alla fine di questo periodo rimarranno solamente le macerie.

Lo strano licenziamento di Neil Olshey

Dal 2012 in poi, anno in cui è cominciata questa cavalcata dei Blazers, il cardine attorno a cui è ruotato tutto è stato il General Manager Neil Olshey. Portato via dagli L.A. Clippers che stavano cominciando la loro era Lob City, Olshey ha plasmato i Blazers a sua immagine e somiglianza, costruendo un gruppo capace di ottenere risultati continui trovando i pilastri giusti attorno ai quali costruire, partendo da Damian Lillard e passando da coach Terry Stotts per arrivare al suo pupillo CJ McCollum. Quel gruppo ha trovato il suo culmine con le finali di conference del 2019, a cui però i Blazers sono arrivati più che altro perché per uno strano incastro di risultati nell’ultima giornata di regular season gli Houston Rockets sono finiti nella parte di tabellone dei Golden State Warriors, anticipando la “vera” finale di conference al secondo turno e lasciando spazio a Portland, che ha dovuto superare “solo” una Oklahoma City disfunzionale e dei Denver Nuggets troppo acerbi per poter arrivare al terzo turno, venendo spazzati via per 4-0 dagli Warriors senza Kevin Durant.

In quella stagione era venuto a mancare lo storico proprietario Paul Allen, presenza fissa e decisamente attiva all’interno della franchigia, lasciando tutto nelle mani della sorella Jody, il cui sostegno economico non è mai venuto a mancare (elargendo sostanziose estensioni di contratto a Lillard, McCollum, coach Stotts e lo stesso Olshey) ma il cui interesse nei confronti della squadra è sempre stato nebuloso, pur facendosi vedere a bordo campo per le partite. Senza più Paul Allen, però, la squadra dopo aver raggiunto il suo apice ha sempre fatto un passo indietro, non riuscendo a fare il salto per diventare definitivamente una contender per il titolo, fino alla deludente eliminazione dello scorso anno al primo turno contro dei Nuggets privi dei titolari nei ruoli di guardia.

Neil Olshey ha risposto a quella eliminazione (e alle richieste quasi immediate di cambiamenti di Lillard) richiudendosi a riccio e trincerandosi dietro le proprie convinzioni. Invece di prendersi le proprie responsabilità nella costruzione della squadra ha detto che quello messo attorno a Lillard e McCollum era “il gruppo più talentuoso della mia carriera qui”, addossando di fatto tutte le responsabilità sull’allenatore Terry Stotts e pensando di risolvere tutto assumendo un nuovo allenatore, Chauncey Billups. Dopo un inizio di stagione balbettante, e ancor di più dopo la pubblicazione dell’articolo di ESPN sul proprietario dei Phoenix Suns Robert Sarver e l’ambiente di lavoro tossico all’interno della franchigia, quasi dal nulla anche i Blazers hanno annunciato l’assunzione di uno studio legale esterno per indagare sull’ambiente lavorativo sotto Olshey, complici le accuse di alcuni dei suoi sottoposti (tra cui un presunto commento inappropriato nei confronti di una donna).

Secondo quanto scritto dal decano dei beat writer dei Blazers, Jason Quick di The Athletic, tutti all’interno della franchigia conoscono il caratteraccio di Olshey, a partire da lui stesso — che non ha più seguito le partite della sua squadra a bordocampo, confinandosi nel suo ufficio a vederle in tv per evitare di inveire contro gli arbitri. Da quello che traspare da certi racconti, Olshey è descritto come una specie di J. Jonah Jameson, il direttore del giornale per il quale Peter Parker lavora come fotografo freelance: burbero, brusco, abrasivo, difficile da gestire quando è di cattivo umore, tanto che è meglio girare al largo dal suo ufficio quando accade. Uno stile di leadership adatta più al secolo passato che ai tempi moderni, nel quale l’inclusione e l’assunzione di responsabilità (quella che spesso Olshey ha evitato scaricandola sugli altri) sono due cardini ormai imprescindibili per una posizione dirigenziale.

Dopo un mese di relativo silenzio sull’investigazione, all’indomani di una pesantissima sconfitta in casa contro i San Antonio Spurs — al termine del quale il pubblico del Moda Center, sempre meno presente e meno caloroso, non si è neanche degnato di fischiare la squadra — Olshey è stato licenziato per aver violato il “codice di condotta” della franchigia, adducendo quindi motivazioni extra-cestistiche per il suo allontanamento. Una scelta che secondo alcuni è stata fatta per evitare di pagare i circa 20 milioni di dollari rimanenti sul suo contratto, licenziandolo per “giusta causa” dati i suoi comportamenti nei confronti dei sottoposti.

Rimane comunque estremamente raro che un GM venga licenziato nel bel mezzo di una stagione, e fa il paio con un altro addio passato sotto silenzio come quello di Chris McGowan, il CEO del gruppo che controlla non solo i Blazers ma anche i Seattle Seahawks (squadra di NFL di proprietà degli Allen che peraltro non se la sta passando bene neanche lei) e che rappresentava l’alter ego di Olshey dal punto di vista del business. McGowan, che era il braccio destro di Paul Allen per le sue due franchigie sportive, si è dimesso il 12 novembre scorso dando la sensazione di voler abbandonare una nave che stava già imbarcando acqua da tutte le parti, trovando in fretta un nuovo posto di lavoro a Detroit (dove avrà lo stesso ruolo per la Ilitch Sports, presiedendo i Tigers di MLB e i Red Wings di NHL).

McGowan avrebbe voluto diventare il volto comunicativo dei Blazers, togliendo Olshey dai riflettori e dalle telecamere — complice non solo il suo temperamento, ma anche la pessima figura fatta alla conferenza stampa di inaugurazione di Billups, fermando sul nascere ogni domanda sulle accuse di violenza sessuale del suo passato —, ma la proprietaria Jody Allen non glielo ha concesso, portando poi alla rottura tra le parti. Rimane il fatto che nel giro di un mese i Blazers hanno perso le due figure di riferimento dell’ultimo decennio sia per la parte cestistica che per quella amministrativa, e nel caso di Olshey la storia potrebbe essere solo all’inizio: secondo quanto raccontato da diverse fonti, l’ex GM sarebbe intenzionato a impugnare il licenziamento per giusta causa portando tutti in tribunale, e soprattutto ha già cominciato la controffensiva utilizzando i suoi rapporti di amicizia con la stampa per tirare acqua al suo mulino — e contro i Blazers.

Le inevitabili voci su Damian Lillard

Parliamoci chiaro: di questa storia dei Blazers interesserebbe a pochi se in mezzo non ci fosse la situazione di Damian Lillard, recentemente votato come uno dei 75 migliori giocatori nella storia della NBA (pur avendo un curriculum personale e di squadra inferiore rispetto ad altri lasciati fuori) e arrivato a un punto della carriera in cui vincere, per sua stessa ammissione, è l’unica cosa che gli interessa. Ma è davvero così?

La notizia del licenziamento di Olshey è stata commentata da molti solamente sotto la lente del “Ma quindi cosa cambia per Damian Lillard? Chiederà finalmente di essere ceduto?”, portando delle talking heads come Stephen A. Smith a battere sul ferro caldo dei New York Knicks come sua destinazione preferita, giusto per tirare dentro un’altra squadra che non sta andando bene in questo periodo. Lillard dal canto suo si è impegnato a ribadire di non volersene andare e a dare ai Blazers la possibilità di continuare a costruire attorno a lui, pur aspettandosi dei cambiamenti in tempi brevi perché evidentemente la squadra non sta funzionando.

«Sto cercando di essere parte della soluzione. Se volessi andarmene, perché passo ogni giorno dall’ufficio di Chauncey Billups a parlare di come migliorare?»

ESPN però attraverso Adrian Wojnarowski ha sottolineato come uno degli “ostacoli” tra il rinnovamento dei Blazers e l’assunzione di un nuovo capo della dirigenza (attualmente presieduta ad interim da Joe Cronin, responsabile del salary cap per la squadra) sia proprio Lillard e la sua voglia di firmare un’estensione di contratto il prossimo luglio, aggiungendo altri due anni al suo attuale accordo (in scadenza nel 2025) per guadagnare altri 106.6 milioni di dollari, arrivando alla fine dell’estensione a quasi 37 anni di età — e a oltre 50 milioni di dollari l’anno.

Di fatto è come se Wojnarowski (i maliziosi, come Tom Ziller, hanno detto: su imbeccata di Olshey) avesse voluto addossare la colpa delle difficoltà dei Blazers su Lillard e sul suo interesse a guadagnare il maggior numero di soldi possibili il più a lungo possibile, bloccando così i miglioramenti della squadra. Uno scarico di responsabilità che fa parte del modus operandi di Olshey e che si inserirebbe nel solco di una lunga serie di accuse reciproche in questa lotta intestina dei Blazers, nel quale Lillard sta perdendo un po’ di potere anche per via del suo pessimo inizio di stagione.

Attualmente fuori per un problema agli addominali con cui convive ormai da diverso tempo, è dalle Olimpiadi di Tokyo che Lillard sta giocando ai peggiori livelli della carriera, con la peggior percentuale al tiro da quando è in NBA (47% effettivo) e appena 4.5 liberi tentati di media (solo nell’anno da rookie era andato peggio), patendo forse più di chiunque altro il cambiamento di regolamento di questa stagione. Il risultato è che Lillard viaggia a più di 7 punti segnati in meno rispetto allo scorso anno e supera a malapena il 30% da tre punti, uno slump lungo 20 partite che ha fatto storcere il naso a molti, anche per via della carta di identità che ha scavallato i 30 anni.

Se queste 20 partite fossero il primo segnale di un calo di rendimento di Dame, non solo quell’estensione di contratto sarebbe un boomerang per i Blazers, ma anche l’attuale contratto in scadenza nel 2025 potrebbe frenare la voglia di qualsiasi squadra di scambiare per prenderlo nei prossimi mesi o anni, anche perché il costo — considerato status e recentissimo passato — sono di altissimo livello. Una scommessa che diverse squadre sarebbero comunque interessate a fare (Philadelphia e New York su tutte), ma che di certo non aiutano il momento generale della squadra.

La perdita di potere continua di Chauncey Billups

Ci sono anche dei motivi prettamente cestistici che spiegano il calo di rendimento di Lillard. Anche per quanto riguarda l’inserimento di Chauncey Billups come capo-allenatore, infatti, la situazione è tutt’altro che rosea. Al netto del record di squadra perdente, Billups sembra avere molte difficoltà a creare un rapporto con la sua squadra, arrivando anche molto in fretta a fare quello che viene considerato un tabù nei circoli NBA: criticare aspramente i giocatori a mezzo stampa mettendone in dubbio l’agonismo. «In questo momento la mia preoccupazione più grande è fare in modo di competere in maniera più dura» ha detto coach Billups recentemente a The Athletic. «Voglio che siamo più competitivi in ogni partita. E non penso che lo facciamo tutte le sere, il che mi preoccupa. Mi rendo conto che sia una cosa brutale da dire, ma anche in certe vittorie ho avuto la sensazione che siamo peggiorati. Perché a fare male le cose e vincere comunque non capisci le lezioni che devi imparare, e ti fa male sul lungo periodo».

Dopo la recente sconfitta contro Boston, al termine della quale i Celtics li hanno platealmente presi in giro sul loro campo esultando come pazzi per i canestri di Payton Pritchard arrivando a quota 145 punti segnati in trasferta, Billups ha definito come “imbarazzante” l’atteggiamento dei suoi. «Se non hai orgoglio, se non ti da fastidio quello che è accaduto a fine partita, c’è qualcosa che non va nel tuo cuore. E quando non hai orgoglio, a mio modo allora non sei niente niente. Il fuoco competitivo e l’orgoglio sono cose che hai o non hai. Non puoi accenderlo e spegnerlo a piacimento. Non ho mai visto una squadra che ha bisogno della panchina per ispirare i titolari. Quella merda mi manda ai pazzi. Dovrebbe funzionare nella maniera opposta».

Billups ha provato a cambiare molto in una squadra che per otto anni ha giocato praticamente in una maniera sola sotto coach Stotts: giocando in maniera conservativa in difesa e lasciando carta bianca a Lillard e McCollum in attacco, con movimento di palla sempre decisamente limitato e un numero di assist tra gli ultimi della lega. La sua impostazione è stata invece quella di chiedere maggiore aggressività difensiva, chiedendo ai lunghi di uscire molto se non di cambiare proprio difensivamente, e di condividere il pallone in attacco, diminuendo il numero di pick and roll giocati dalle due guardie per coinvolgere anche gli altri giocatori in campo.

I problemi dei Blazers analizzati da Kevin O’Connor.

Il roster che gli è stato messo tra le mani però evidentemente non è in grado di soddisfare queste due richieste, ottenendo solo un clamoroso effetto boomerang. La difesa dei Blazers, già non scintillante sotto Stotts, è peggiorata ulteriormente posizionandosi al terz’ultimo posto su base stagionale, davanti solo a Orlando e Charlotte; l’attacco che una volta riusciva a sopperire alle mancanze difensive della squadra è solamente mediocre al 14° posto della lega e sia Lillard che McCollum sembrano essersi persi tra le richieste di Billups, così diverse rispetto a quelle a cui erano abituati con Stotts, aggiungendo anche una terza guardia di un metro e 90 come Norman Powell a giocare stabilmente da 3, partendo da uno svantaggio di centimetri evidente nei confronti del diretto avversario – e spesso il miglior esterno degli altri.

Il risultato per Billups è stato che, al netto di qualche vittoria marginale come le crescite di Anfernee Simons e di Nassir Little, tutti sembrano aver fatto un passo indietro — e non è ancora riuscito a guadagnarsi quantomeno che la squadra giochi con spirito e orgoglio, che dovrebbe essere il minimo sindacale per un gruppo di professionisti. L’intento di scuoterli e di posizionarsi come l’allenatore duro che dice le cose in faccia è rispettabile, così come la trasparenza con cui si è espresso con i media (a patto che abbia fatto lo stesso con la squadra, ma non c’è motivo di dubitare che sia stato così), ma senza più Olshey alle sue spalle a sostenerlo e con uno spogliatoio che non lo segue (anche se Lillard pare ancora dalla sua parte, ed è un dettaglio non secondario), il rischio è che Billups abbia già esaurito tutto il potere a sua disposizione, specie se la squadra proseguirà nella spirale negativa nella quale sembra essersi incagliata.

I problemi di McCollum sono quelli dei Blazers

Forse nessun giocatore nel roster esemplifica i problemi della squadra quanto CJ McCollum. Nelle prime 24 partite disputate la guardia titolare dei Blazers è ai minimi in carriera per punti da quando è diventato titolare in pianta stabile, tirando appena con il 50% effettivo dopo che lo scorso anno aveva toccato il suo punto più alto con il 55.4%, rischiando anche di essere convocato all’All-Star Game prima di infortunarsi a un piede.

In questo inizio di stagione invece è sembrato letargico, assopito, quasi disinteressato ai destini della squadra — e probabilmente è lui il bersaglio principale delle critiche di Billups. In un’intervista con The Athletic ha ammesso candidamente che in questo momento la sua testa è sul figlio in arrivo il prossimo gennaio e che cercare di portare a termine questa maternità nel mezzo di una stagione, di una pandemia globale, di tutte le voci di mercato che lo riguardano e di un GM a cui era attaccatissimo licenziato a un mese dall’inizio della regular season sta pesando sul suo rendimento. «Non voglio cercare scuse, ma ci sono un sacco di cose che stanno accadendo e io sono un fot…o essere umano. Tutti noi dobbiamo migliorare, a partire da me. Ma ci sono cose che non si possono controllare. Ho un bambino in arrivo».

A questi problemi personali si è poi aggiunto un infortunio tutt’altro che banale come lo pneumotorace subito contro i Boston Celtics, per il quale non sono stati stabiliti tempi di recupero certi. Il collasso di un polmone è una problematica seria per qualsiasi essere umano e a maggior ragione per un atleta professionista che deve correre per 40 minuti in campo, perciò è plausibile pensare che il suo percorso riabilitativo sarà approcciato con molta cautela dai Blazers.

Questo però mette anche in dubbio la possibilità che venga scambiato sul mercato da qui ai prossimi due mesi. La squadra ora come ora non sembra ansiosa di volerlo cedere, consapevole forse che il suo valore è ai minimi storici, ma McCollum e il suo contratto da 100 milioni in tre anni rappresentano la pedina di scambio più semplice da mettere sul mercato per ottenere quantomeno dei giocatori dal contratto simile per poter modificare un po’ il gruppo attorno a Lillard, a partire da Ben Simmons (per il quale però i Sixers vorrebbero proprio Lillard, non McCollum). Lo stesso vale per Jusuf Nurkic, il cui contratto è però in scadenza a fine anno, e Robert Covington che sembra aver perso quantomeno un passo sia in difesa che in attacco rispetto ai suoi anni migliori, o del neo arrivato Larry Nance che ha un contratto facilmente scambiabile.

La realtà è che questa squadra si trova al momento tre milioni sopra la luxury tax e non c’è un singolo motivo al mondo per cui dovrebbe rimanerci, perciò è facile aspettarsi che il GM Cronin faccia dei movimenti di mercato quantomeno per scendere sotto quella soglia, e se ci fosse la possibilità di rimescolare un po’ le carte, ancora meglio. È improbabile però che venga affidata a un General Manager ad interim la responsabilità di uno scambio epocale come sarebbe la decisione di cedere Damian Lillard, anche perché avrebbe ulteriori ripercussioni su una tifoseria sempre meno presente sugli spalti.

In definitiva, però, la domanda a cui bisognerebbe trovare una risposta è: quanto interesse ha davvero Jody Allen per i Blazers? È evidente che non abbia la stessa passione del fratello Paul, un grande tifoso della NBA prima ancora di diventare il proprietario della squadra, ma ora tocca a lei e a Bert Kolde (il braccio destro di Paul Allen, nonché suo ex compagno di stanza all’università di Washington State) decidere in quale direzione vuole andare questa franchigia. Se vuole continuare a investire sui Blazers, allora la decisione non può che essere quella di estendere Lillard quest’estate e assumere un General Manager di primo livello (o che sia vicino a Lillard, e in questo caso il nome che circola è quello di Shareef Abdul-Rahim, anche lui rappresentato dall’agente Aaron Goodwin come Dame) che condivida questa visione per provare a vincere, anche sacrificando le scelte al Draft a disposizione oltre a tutti i giocatori non chiamati Lillard.

Se invece non ha più interesse a portare avanti questo gruppo e desidera voltare pagina, allora uno scambio per Lillard dalla prossima estate potrebbe essere la strada migliore — anche se non è chiaro se possano permettersi le Public Relations di cedere il giocatore più importante della franchigia a cuor leggero. Con un cap libero di investimenti a lungo termine, Allen potrebbe anche arrivare a pensare di vendere i Blazers (nota per i nostalgici dei Sonics: una relocation appare impraticabile ora come ora) come sta già facendo con molte altre proprietà del fratello in giro per gli USA. La voce che circola è che voglia attendere di vedere il nuovo contratto televisivo della NBA – che pare sarà rinegoziato ulteriormente al rialzo – prima di mettere in vendita la squadra.

L’unica cosa certa è che, dopo aver visto andarsene pezzo dopo pezzo buona parte dei protagonisti dei Blazers negli ultimi dieci anni, il momento di un cambio radicale sembra finalmente arrivato. È la fine dei Portland Trail Blazers per come li conosciamo, ma tutte le cose belle prima o poi devono finire.

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