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Dario Vismara

La ciliegina sul mese perfetto dei Phoenix Suns

La vittoria contro Golden State ha messo il punto esclamativo sulla loro candidatura al titolo…

A pochi minuti dalla fine della partita contro i Golden State Warriors, Devin Booker ha preso in mano il cellulare, aperto Twitter e scritto tre semplici parole: “No Loss November”, un novembre senza sconfitte. Un traguardo a cui evidentemente teneva, come dimostrato anche nella recente trasferta a Est in cui avrebbero potuto lasciare per strada volontariamente un paio di partite (ad esempio il back-to-back a New York tra Knicks e Nets) e invece hanno continuato a vincere e convincere. Dopo aver cominciato la stagione con tre sconfitte nelle prime quattro gare disputate, i Suns hanno inanellato una striscia di 17 vittorie consecutive di cui 16 nell’ultimo mese di calendario, lasciandosi alle spalle qualsiasi spiffero potesse arrivare dall’esplosiva storia di ESPN pubblicata sul proprietario Robert Sarver.

 

Come se nulla fosse successo, i giocatori hanno parlato brevemente di quanto accaduto tra di loro e hanno deciso di lasciarsi tutto alle spalle, continuando a concentrarsi sul lavoro davanti a loro. Sintomo non solo di quanto funzioni il gruppo creato da coach Monty Williams, ma anche di quanto poco le vicende del proprietario — sempre più in disparte negli ultimi anni, lasciando le redini tecniche della squadra a Williams e al General Manager James Jones — abbiano un impatto sullo spogliatoio, nel bene e nel male. 

 

Le 17 vittorie consecutive accumulate da questo gruppo rappresentano un record di franchigia pareggiato, raggiungendo le 17 dei Suns di Mike D’Antoni, Steve Nash e Amar’e Stoudemire nel 2007. E anche se questa squadra non sarà mai rivoluzionaria quanto quella, forse la più “apprezzata dalla critica” di tutti i tempi pur non avendo mai raggiunto una Finale NBA, o piena di nomi altisonanti come i Suns di Charles Barkley negli anni ’90, ci sono buone ragioni per pensare che questa sia la loro squadra più forte mai avuta. D’altronde, anche se sembrano andati lontanissimi dal vincere il titolo, erano sopra 2-0 sui Milwaukee Bucks e con un paio di possessi finiti diversamente qua e là nelle ultime quattro partite delle Finals staremmo parlando oggi della squadra campione in carica. E con ogni probabilità avremmo parlato di loro ben prima di vederli mettere insieme una striscia del genere.

 

La scomposizione degli Warriors pezzo per pezzo

I Suns sembrano aver raggiunto quel tipo di maturità che una squadra mostra dopo aver vinto il titolo NBA, pur non avendolo effettivamente vinto. Il modo in cui sono riusciti a smontare pezzo per pezzo l’attacco dei Golden State Warriors, ingestibile praticamente per chiunque in questo scintillante inizio di stagione, è stato impressionante. Sfruttando la loro lunghezza e la coesione data dalle ormai tante partite giocate e vinte assieme (il record dalla bolla di Orlando in poi, playoff inclusi, è di 91 vittorie e 32 sconfitte), hanno preparato ed eseguito un piano partita tattico semplicemente perfetto, disinnescando Steph Curry e costringendolo alla peggior partita della carriera (12 punti con 4/21 al tiro, peggior prova con almeno 20 conclusioni tentate).

 

Mentre la maggior parte delle squadre NBA va in confusione quando si trova davanti lo stile particolarissimo degli Warriors, fatto di tagli, blocchi lontano dalla palla e scelte da prendere in una frazione di secondo, i Suns con una mossa di karate sono riusciti a ritorcergli contro le stesse qualità che hanno reso gli Warriors grandi. Come ha ammesso anche Steve Kerr dopo la partita, «sembrava che fossimo costantemente di fretta, in affanno»: la presenza incombente dei difensori dei Suns ha costretto gli avversari a muoversi con maggiore velocità e a prendere decisioni sempre più veloci, portandoli alla bellezza di 22 palle perse — che in una partita da 96 possessi equivalgono a un’enormità.

 

Questo nasce soprattutto dallo spettacolare lavoro di squadra fatto in primo luogo su Curry e Draymond Green. Rispetto alle altre squadre i Suns hanno messo un po’ più di pressione su Green senza lasciargli tutto lo spazio per pensare e leggere il gioco che spesso gli viene concesso, sfruttando le sue evidente mancanze al tiro, e il risultato è stata una serata da 5 assist (tutti nel primo quarto) e 5 palle perse (tutte dal secondo quarto in poi). Al resto poi ci ha pensato una prestazione semplicemente magnifica di Mikal Bridges, che con questa singola prova su Curry potrebbe (e dovrebbe) aver messo definitivamente il suo nome nel Calice di Fuoco dal quale uscirà il premio di Difensore dell’Anno.

 

 

 

Il contrappasso delle energie spese a rincorrere Curry è stata una prova offensiva da soli due punti (questi, nati da un recupero difensivo in cui allunga le braccia come l’Ispettore Gadget) e 1/4 al tiro in oltre 41 minuti in campo, ma ne è valsa la pena.

 

Anche in una lega di super-atleti, è raro trovare un giocatore in grado di unire altezza (201 centimetri), lunghezza di braccia (215 centimetri!) e rapidità negli spostamenti laterali come Bridges, in questo momento forse il miglior difensore della NBA per difendere sugli esterni, specie quando può usare la sua rapidità e non deve farne solo una questione di forza fisica, nel quale è strutturalmente deficitario. Un profilo perfetto per inseguire uno come Curry sui blocchi, riuscendo a colmare anche le distanze accumulate dopo la gimcana di blocchi a cui Steph ti costringe ogni volta che si muove per il campo.

 

Bridges però non sarebbe riuscito ad avere tutto questo successo nel marcare Curry senza l’aiuto dei suoi compagni, in particolar modo Deandre Ayton. Oltre ad aver dettato i termini di ingaggio nel primo quarto (9 punti e 4 rimbalzi tutti in attacco per far sentire la sua presenza) e aver dato una grossa mano nel quarto finale (8 dei suoi 24 punti sono arrivati negli ultimi dieci minuti di partita), Ayton è stato eccezionale quando è stato chiamato a marcare Curry sul perimetro, dimostrando di essere uno dei migliori lunghi a muovere i piedi lontano da canestro.

 

 

 

Le due migliori azioni difensive di serata dei Suns: Curry ottiene il cambio difensivo e prova lo step back per giocarsi il “2-per-1”, ma non fa bene i conti con i 227 centimetri delle braccia di Ayton e viene stoppato; sul possesso successivo lascia nella polvere Ayton, ma si trova Bridges che come un poltergeist riappare e lo stoppa sotto canestro. Quante squadre hanno due difensori del genere?

 

In questa stagione Golden State non era mai stata tenuta sotto i 100 punti segnati e in questa partita hanno realizzato appena 99 punti su 100 possessi, un dato ben al di sotto dei 113.7 a cui viaggiano normalmente (erano al secondo posto prima di questa partita, ora sono scesi al terzo dietro Utah e Portland). Tolti i 35 punti realizzati nel primo quarto con un infuocato Jordan Poole (autore di 16 dei suoi 28 punti nei primi 12 minuti), nel resto della partita Golden Stata ha segnato al massimo 24 punti, peraltro nel terzo quarto in cui nelle prime 20 gare di stagione avevano fatto a messo a ferro e fuoco il resto della NBA come un drago di Daenerys Targaryen (+27.7 su 100 possessi normalmente, tenuti in parità sul 24-24 in quei dodici minuti).

 

La difesa dei Suns è poi salita ulteriormente di livello negli ultimi cinque minuti di gara, cominciati dalle due squadre in sostanziale parità (92-91 per i padroni di casa). In situazione “clutch” Phoenix è di gran lunga la miglior squadra della NBA, con un differenziale su 100 possessi quasi ridicolo (+47.8 prima di questa partita), riuscendo a eseguire in maniera eccellente tanto in attacco quanto in difesa. E tali si sono confermati anche in questa partita, chiudendo gli ultimi cinque minuti con +59 di Net Rating.

 

 

 

Bridges e Ayton accettano di nuovo il cambio difensivo e Green prova a sfruttare il vantaggio di chili per prendere posizione sotto canestro. Ancora una volta però le braccia chilometriche di Bridges sono l’incognita dell’equazione che Draymond non riesce a calcolare: da questo recupero nasce il parziale di 10-1 che di fatto chiude la partita

 

 

 

In questo tipo di situazioni “caotiche” a gioco rotto gli Warriors sono diabolici nell’uscirne sempre in qualche modo con un canestro: Paul e Bridges però sono telepatici nel cambiare su Curry, e pur creandosi lo spazio per fare andare il tiro si ritrova davanti la mano di Bridges che lo contesta, costringendolo a prendersi un tiro scomodo che si infrange sul secondo ferro

 

Per i Golden State Warriors ci sono due notizie, una buona e una cattiva. La buona notizia è che non ci sono tante squadre in giro con questo tipo di personale difensivo a disposizione né questo tipo di preparazione e attenzione al piano partita; quella cattiva è che questi Suns non sono destinati ad andare da nessuna parte, e ora come ora sembrano l’avversaria più quotata tra loro e la riconquista della Western Conference — sia in regular season che ai playoff.

 

L’esecuzione logora chi non ce l’ha

In verità c’è un’altra notizia che comunque può far ben sperare coach Kerr. Al netto di tutti i loro errori nella gestione del pallone, della prova mefistofelica di Bridges, dei problemi alla schiena che hanno limitato Andrew Wiggins (una chiave di volta fondamentale per far pagare i chili e centimetri minori dei diretti marcatori) e della evidente serata no di Curry — che può capitare, ovviamente, ma su cui le altre squadre non possono contare e che tutto sommato dipende quasi esclusivamente da lui, più che da quello che fanno gli altri —, la sua squadra non è stata travolta, anzi è arrivata a giocarsela negli ultimi cinque minuti di partita praticamente in parità. E questa partita offre comunque molti spunti per poter migliorare in vista della prossima a San Francisco, a cui gli Warriors arriveranno riposati mentre Phoenix dovrà giocare un’altra partita in casa contro i Detroit Pistons (con la possibilità di stabilire il record di franchigia) prima di salire sull’aereo e presentarsi alla Oracle Arena in back-to-back.

 

Detto questo, la vittoria di Phoenix ha ancora più valore perché arrivata senza poter contare su Devin Booker, uscito nel corso del secondo quarto per un infortunio al bicipite femorale. Al netto di tutti i discorsi che si possono fare sulla grandezza di Paul, sull’impatto di Bridges e sulla profondità della squadra, Booker è e rimane il giocatore più forte di questi Suns e senza di lui l’attacco peggiora di 4 punti su 100 possessi, privandolo di un creatore di gioco fondamentale negli equilibri di coach Williams. I Suns sono una macchina da isolamenti per punire i mismatch proprio per la presenza di Booker, che sta giocando la pallacanestro più matura della sua carriera sui due lati del campo, migliorando anche come difensore sulla palla e di squadra.

 

 

 

Questa tecnicamente è una palla rubata di Paul, ma è grazie al lavoro in aiuto con tempi perfetti di Booker che Toscano-Anderson non ha un canestro facile ed è costretto a cercare uno scarico complicato. Poi si fa tutto il campo in contropiede per depositare due punti (da notare il blocco di contenimento di Bridges per aprirgli la strada)

 

Booker insieme a Paul è anche la chiave per far funzionare la Sfida A Chi Tira Di Più Dal Mid Range in cui si trasformano gran parte delle partite dei Suns. Solamente quattro squadre costringono gli avversari a prendere più tiri dalla media distanza di Phoenix, che in particolare cerca di convogliare gli avversari nella zona dei long 2s (il 12.7% dei tiri avversari è preso da lì, solo Utah fa meglio di un solo punto decimale). A differenza dei Jazz che puntano tutto sul tiro da tre, però, quando si spostano in attacco i Suns si prendono proprio i tiri che vogliono forzare agli avversari, consapevoli di avere due dei migliori interpreti di quella zona di campo in Paul e Booker. In NBA solamente San Antonio ne tenta di più di loro, che comunque sfiorano il 40% della loro dieta di tiri presi da quella porzione di campo.

 

Sembrerebbe un ragionamento contro-intuitivo (se in difesa vuoi costringerli a quei tiri a bassa percentuale, perché poi te li prendi tu stesso in attacco?), ma i numeri danno loro ragione, almeno finora. Paul si prende ormai più di due tiri su tre dalla media distanza e li converte con il 53%; Booker è in scia con il 54% dei suoi tiri preso dalla media distanza, e li converte col 48% (e sta tirando anche da tre col 42%). I Suns riescono a rendere tutto questo sostenibile con eccezionali percentuali al ferro (ci arrivano pochissimo, ma quando ci arrivano segnano con oltre il 68%, quinto miglior dato della lega) e soprattutto con le percentuali dall’arco. I Suns sono quarti in NBA con il 37.6%, seppur con un volume di tiro ridotto (solo quattro squadre ne tentano di meno) a cui fa da contraltare una selezione certosina (dagli angoli sono nella metà buona della NBA per tentativi).

 

Mettendo tutto assieme e miscelando con una panchina solidissima (in quante squadre NBA sarebbe titolare Cam Johnson?) in cui ogni giocatore conosce il suo ruolo e sa che nella serata buona può rimanere in campo anche fino alla fine (chiedere a Frank Kaminsky e ai 31 clamorosi punti segnati contro Portland lo scorso 10 novembre), ne viene fuori una squadra capace di vincere 17 partite in fila. Certo, qualcuno farà notare che hanno avuto un calendario favorevole in cui molte delle squadre più quotate non hanno avuto i loro migliori giocatori (due volte contro i Mavericks senza Doncic, una contro i Nuggets senza Jokic) e che gli infortuni non li hanno colpiti particolarmente, almeno prima di quello di Booker. E con ogni probabilità anche questa striscia è destinata a infrangersi in casa con Detroit o più probabilmente alla Oracle Arena contro gli stessi Warriors, che poi dovranno affrontare di nuovo nella partita più interessante del menù natalizio (e, si spera, con un Klay Thompson sotto l’albero).

 

Ma questo mese di novembre senza sconfitte mette comunque un ulteriore tassello del mosaico composto da questo gruppo dalla bolla di Orlando in poi, e che per la verità era cominciato già prima. Questi Phoenix Suns non sono arrivati in finale lo scorso anno solo perché tutti gli avversari si sono infortunati, come si è frettolosamente pensato in alcuni angoli dell’Internet, ma perché sono una squadra completa e allenata bene sui due lati del campo, capace di adattarsi a ogni tipo di avversario e di cucire il vestito tattico adatto per prendergli le misure e batterlo. Non saranno spettacolari nel volare sopra il ferro per schiacciate poderose né soverchianti dal punto di vista fisico — e le ultime quattro partite delle Finals hanno mostrato questo difetto a livello di tonnellaggio, che comunque rimane —, ma sono indiscutibilmente una contender per il titolo. E se il resto della NBA non se ne era ancora reso conto, ora lo sa perfettamente.

 

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).