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La fine della fiducia nel Process
21 giu 2021
21 giu 2021
Al momento di chiudere i conti, i difetti caratteriali dei Sixers hanno spianato la strada agli Atlanta Hawks.
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Il Processo, forse, si chiude così. Sotto una pioggia di fischi e bottigliette. Salutato dal disdegno di chi si rifiuta di abbandonare il palazzo, per poter urlare la propria rabbia fino alla fine. Ci sono boo per tutti: boo un po’ più forti per Ben Simmons, solo qualche timido applauso per Joel Embiid. Gli sguardi, nei corridoi, sono persi nel vuoto. Qualcuno getta addirittura via la maglia “Phila Unite”, cortese omaggio della casa per la partita. È l’epilogo di una gara-7 tirata, combattuta, infarcita di errori. Vincibilissima per i Sixers, al pari di tutte le altre lasciate per strada in questa serie per loro maledetta e dolorosissima.

La vittoria è invece andata, con pieno merito, agli Atlanta Hawks. Che, pur senza brillare, hanno comandato il ritmo nei possessi decisivi, riuscendo a limitare senza troppi affanni la minaccia di Embiid nei minuti finali. Senza nemmeno aver bisogno del miglior Trae Young — che anzi ha passato buona parte della serata a scalfire il ferro e litigare con gli arbitri, chiudendo con 5/23 dal campo e 6 palle perse ci hanno pensato i compagni a fare la sua parte. A cominciare da Kevin Huerter, a mani basse l’MVP della partita: 27 punti, sempre la giocata giusta, la freddezza di un cecchino. È lo stesso giocatore che, all’inizio della carriera, sembrava sul punto di scivolare in G-League, con la squadra sul fondo della Eastern Conference, e che a inizio anno sembrava dover finire fuori dalla rotazione con gli arrivi di Bogdan Bogdanovic e Rajon Rondo; invece ha scelto questa partita per realizzare il suo massimo in carriera nei playoff, manco giocasse partite del genere da quando è nato.

Huerter ha banchettato contro Korkmaz e Curry, dimostrando la profondità del talento perimetrale degli Hawks in una partita nella quale sia Young che Bogdanovic hanno faticato a trovare la via del canestro.

C’è anche la firma importante di Danilo Gallinari, che ha prodotto l’ennesima partita a tutto tondo di questi playoff: lottando, menando, facendo la voce grossa con compagni e avversari. E piazzando un meraviglioso uno-due nell’ultimo minuto: palla strappata a Embiid, su cui era finito dopo un cambio, e schiacciata perentoria sul ribaltamento di fronte. È la giocata che apre l’abisso sotto i Sixers e spalanca al Gallo le porte della finale di conference. La prima in carriera, la seconda per un italiano dopo quella di Marco Belinelli nel 2014 culminata con il titolo.

La solita confusionaria partita dei Sixers

Che non sarebbe stata una serata di gala, per l’universo cestistico di Philadelphia, si era capito già dal pomeriggio. Dopo una tregua, è tornata prepotentemente l’estate sulla città: 35 gradi, un vento rovente, il ruggito dei condizionatori. E ovviamente sua maestà l’umidità — a ricordarci sempre che alla fine dei conti non è certo il caldo che ti frega. Se ne accorgono anche i tifosi dei Sixers, che trascorrono l’attesa per la partita più importante dell’anno spiaggiati nelle loro macchine, motore acceso e aria condizionata per riuscire a respirare, mentre la foschia confonde i confini della città, solitamente ben visibile dal parcheggio del Wells Fargo Center. C’è tensione nell’aria, ma pure un po’ di sano esaurimento nervoso, dopo una serie che ha rifilato svarioni emotivi non indifferenti a una tifoseria già naturalmente incline alla negatività. E così, quando parte il momento del sondaggio, la Sixers Nation del Twitter sfodera la consueta, melodrammatica miscela di superstizione e disperazione. E anche questa volta, quelle che sembrano esagerazioni si rivelano in realtà sentori perfettamente accurati.

I Sixers che scendono in campo in gara-7 sono quelli di sempre: una squadra arruffona, discontinua, enigmatica, confusionaria fino al midollo. Si aggrappano a Embiid, che parte arrembante contro Clint Capela, e sembra destinato a una serata di dominio. Ma qualcosa, anche questa volta, non torna. La palla gira poco. L’esitazione, in attacco, è palpabile. Tiri rifiutati, ripensamenti continui, che dopo pochi minuti fanno già borbottare il Wells Fargo Center. Arrivano solo folate isolate: Tobias Harris prima, Seth Curry poi. Ma non scalfiscono più di tanto la fiducia di Atlanta, che gioca una pallacanestro molto più coerente. Aggrappandosi a John Collins e Huerter prima, e a Gallinari successivamente, nel secondo quarto. Le sue due bombe filate, precedute invero da due meno nobili mattoni, scavano il primo solco della partita. È solo 34-29 all’inizio del secondo quarto, ma in quei 5 punti c’è tutta la differenza tra le due squadre. Sottile, ma tremendamente reale. Che si protrarrà infatti fino alla fine.

La difficile serata trionfale di Trae Young

Paradossale, o forse in realtà indicativo, che Atlanta comandi le operazioni senza avere granché da Trae Young, il proprio giocatore simbolo. Il folletto amante del palcoscenico, da sempre pronto a nutrirsi delle attenzioni altrui, incappa infatti in uno dei primi tempi più brutti della carriera. Viene trattato senza troppi complimenti dalla difesa dei Sixers, che cambiano ripetutamente sui blocchi tra piccoli, e arrivano pure a mandare Embiid sulle sue tracce, in un momento di improvvisazione difensiva in cui il camerunense gli sporca il tiro con le dita, esaltando il Wells Fargo Center come se avesse appena fatto una schiacciata.

Incapace di battere l’uomo in entrata, Young si incaponisce a sparacchiare dal perimetro, collezionando ferri a ripetizione (1/12 di cui 6 errori su 7 da tre) e mostrando infine il proprio disagio con una protesta plateale, a gioco fermo. Gli vale il fallo tecnico, oltre che un salto di livello nei cori del pubblico di Philadelphia. Che passa da “Trae Young’s balding”al più diretto “F**k Trae Young. Ma serve ben altro a intaccare l’autostima dell’ex Oklahoma. Che, pur continuando a litigare col ferro tutta la partita, riesce comunque a piazzare zampate importanti nel finale. Come la tripla del 93-87 a poco più di due minuti dalla fine. E i tiri liberi che chiudono la pratica, permettendogli di arrivare comunque a mettere assieme un tabellino decoroso. «È bello giocare davanti a chi ti insulta. Mi diverte, mi carica» dirà con la consueta, strafottente incoscienza a fine partita, davanti alle webcam di Zoom. Felpa bianca, cappuccio in testa. E il ghigno stampato in faccia di chi, almeno fino ad ora, sa di aver avuto spesso ragione.

https://twitter.com/NBA/status/1406800192326750210

L'inchino di Trae Young al Wells Fargo Center.

Un capro espiatorio di nome Ben Simmons

Al netto degli insulti, chissà cosa darebbero dall’altra parte per avere qualcuno con un carattere del genere. Come già varie volte in questa serie, è infatti proprio la personalità ad essere mancata ai Sixers. Quella che consente di andare oltre ai propri limiti strutturali, e di portare comunque a casa partitacce sporche e convulse come questa. Ci ha provato Embiid, arrivato però visibilmente stanco. Ci hanno provato anche Harris e Curry, senza però mai riuscire ad essere pericolosi in modo costante. E ci ha provato, a modo suo, anche Ben Simmons. L’australiano, che pure verrà comprensibilmente additato a capro espiatorio di tutta la Caporetto, è stato infatti più attivo del solito. Imbeccando i compagni, difendendo, smanacciando rimbalzi e palle vaganti. Salvo poi venire risucchiato dalle proprie fobie nei momenti cruciali.

https://twitter.com/MoDakhil_NBA/status/1406799058690187266

La giocata che tormenterà le notti insonni dei tifosi di Phila.

Come quando, dopo essersi sbarazzato di Gallinari in post basso, ha rinunciato a una schiacciata praticamente sicura, passando la patata bollente a Matisse Thybulle. Una rinuncia plateale, impotente, che ha scatenato la frustrazione di tutta l’arena — e pure di Embiid dopo la partita, che non ha mancato di indicare quel momento come quello di svolta della partita, ovviamente in negativo — e fatto capire che, pur con il punteggio ancora in bilico, il destino dei Sixers era ormai segnato. Del resto, in una serata del genere, provarci era il minimo sindacale. Non certo l’obiettivo. Chiamate a fare la differenza, chi più chi meno, tutte le colonne dei Sixers hanno tradito. “The Process is over”gridava qualcuno sugli spalti. Dando simbolicamente il via al processo vero, destinato a trovare colpevoli e, possibilmente, soluzioni radicali. La fiducia si è esaurita. E con essa, per l’ennesima volta, pure la stagione dei Sixers.

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