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Il Process è morto, viva il Process
25 ago 2020
25 ago 2020
I Philadelphia 76ers dovevano competere per il titolo, invece hanno finito per tradire le idee del loro Process.
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Sappiamo tutti come abbia avuto inizio il Process, ovvero il percorso che avrebbe dovuto portare i Philadelphia 76ers dal più profondo abisso della lega fino al giocarsela per il titolo dopo aver smontato tutto e ricostruito col tempo e gli asset accumulati. L’inizio del Process coincide con il giorno nel quale Sam Hinkie è stato promosso a General Manager, il 14 Maggio del 2013. Aveva passato otto anni a stretto contatto con Daryl Morey a Houston e andava a sostituire Tony DiLeo, un veterano del front office dei Sixers, la cui colpa maggiore era stata quella di aver orchestrato la disastrosa trade per Andrew Bynum. Hinkie veniva presentato come un innovatore, un rivoluzionario che avrebbe proiettato la franchigia in una nuova dimensione fatta di statistiche avanzate e scelte scambiate come figurine, nel quale bisognava riporre una fiducia cieca e fideistica, come in un santone.

Da qui il motto che accompagnava la lenta risalita dei Sixers lungo la piramide alimentare NBA, quel “Trust The Process” che letto ora resta più un autosuggestione che un’effettiva possibilità. Anche lo stesso Hinkie aveva creduto di poter piegare le regole fino a un secondo prima del loro punto di rottura, o ancora che non si potessero proprio rompere, riuscendo a farla franca con il suo piano visionario.

Invece nell’aprile del 2016 Hinkie è stato costretto a rassegnare le sue dimissioni con una fluviale lettera e al suo posto è arrivato Bryan Colangelo, il figlio del nuovo CEO Jerry Colangelo, l’uomo dai mille account Twitter e dai colletti delle camicie inamidati. Per i puristi il Process si è effettivamente chiuso in quel momento e tutto quello che è successo dopo sarebbe stato solo un apocrifo, come un gruppo rock che cambia tutti i propri componenti prima di diventare famoso.

In realtà l’esperimento di Hinkie è sopravvissuto la sua dipartita e la seguente stagione da 10 vittorie. È sopravvissuto a quintetti incentrati su Tony Wroten e Kendall Marshall, alle stagioni saltate da Joel Embiid e Ben Simmons, e ai quattro rimbalzi sul ferro del tiro di Kawhi Leonard. Sarà invece difficile resistere all’umiliazione subita dai Boston Celtics ad Orlando, e non solo per il licenziamento di Brett Brown, usato brutalmente come capro espiatorio dalla dirigenza mentre la partita doveva ancora finire, ma perché Philadelphia ha tradito tutti gli ideali con i quali aveva iniziato questo percorso.

Brett Brown paga per tutti

Il licenziamento di Brown era inevitabile, la sua clessidra aveva esaurito i pochi granelli rimasti già prima di arrivare a Orlando. Le sette stagioni sulla panchina di Philadelphia rappresentano un’era geologica in prospettiva NBA, e nessuno può permettersi così tanto tempo senza raggiungere alcun risultato effettivo. E alla resa dei conti Brown ha vinto solo due serie di playoff contro due avversarie nettamente inferiori (Miami e Brooklyn) perdendo invece il confronto con i diretti concorrenti per la supremazia ad Est, facendosi incartare sia da Brad Stevens (due volte) che da Nick Nurse.

Con l’ennesima sconfitta contro i Boston Celtics è risultato evidente come il piano tattico dei Sixers sia fallito, troppo in controtendenza con le evoluzioni contemporanee del gioco e incapace di uscire dalla monodimensionalità costruita attorno a Embiid. Ovviamente Brown ha molte attenuanti: il continuo rimescolamento del roster attorno a due talenti incredibili quanto grezzi e poco compatibili come Simmons ed Embiid non ha certo aiutato a trovare un’identità forte, e le ultime scelte della dirigenza lo hanno lasciato con una squadra spigolosa come un quadro cubista. Ma la scarsa inventiva nel plasmare il materiale umano a sua disposizione, la poca inclinazione nel cambiare in corsa e rimanere testardamente ancorato alle proprie convinzioni non sono sostenibili se poi non si vince. Negli ultimi tempi Brown stava perdendo il controllo tecnico del suo gruppo e anche la scelta di inserire Shake Milton nel quintetto iniziale e di sviluppare Ben Simmons da ala forte assomigliava più a una mossa della disperazione piuttosto che a un'evoluzione tattica ponderata.

Brown lascia una franchigia alla quale ha dato molto - forse più di quanto ha ricevuto in cambio - allenando una squadra da dieci vittorie a una che è andata a un rimbalzo sul ferro dalle finali ad Est. Ma la NBA è una giungla in cui non è contemplata la riconoscenza e non saper fare quell’ultimo passo conta più delle qualità umane, empatiche e professionali, che non sono mai mancate. Anche nell’ultima conferenza stampa, subito dopo la sconfitta, ha ammesso di non aver fatto un buon lavoro nel gestire le problematiche che un roster del genere creava in termini di spaziature e capacità realizzative, assumendosi le responsabilità in prima persona. Allo stesso tempo Josh Richardson, arrivato lo scorso anno da una cultura ben diversa come quella di Miami, ha fatto notare come a suo avviso Brown abbia mancato nel responsabilizzare i propri giocatori, essendo di fatto troppo accomodante con le superstar dei Sixers.

https://twitter.com/TheSteinLine/status/1298009980898095104

Anche nella sua uscita di scena Brown si è confermato un signore.

Questo doppio ruolo da allenatore e padre di famiglia non era più compatibile con le ambizioni della squadra e non adatto a gestire le personalità più forti dello spogliatoio. Sono ormai di dominio pubblico i conflitti con Jimmy Butler, che hanno poi portato il giocatore a scegliere Miami come sua nuova casa. Proprio ieri in un articolo di Yahoo a firma di Chris Haynes che sembra dettato dai PR dei Sixers sono trapelate nuove informazioni su ciò che è successo la scorsa estate tra Butler e la proprietà, secondo le quali sarebbe stato proprio Brown a mettere il veto sul contrattone per l’ex Bulls.

Un’affermazione in contrasto con quanto riportato lo scorso anno da Woj, per il quale era stato Elton Brand a non volersi legare per così tanto tempo a una personalità così forte e dominante, e da quanto lasciato intendere dallo stesso Butler nel podcast di JJ Redick, dicendo che Philadelphia non era sicura di poterlo controllare se Brown fosse rimasto l’allenatore. Sempre nello stesso podcast Butler infatti ha accusato il coaching staff dei Sixers di non aver mai strutturato una vera catena di comando, senza gerarchie e ruoli ben definiti. Un’accusa che si può rivolgere anche del management dei Sixers, figure senza volto e nome ma con troppo potere decisionale che ora corrono a cercar riparo dalla tempesta ventura. Licenziare Brett Brown infatti non servirà a molto senza fare piazza pulita di tutta la dirigenza dei Sixers, dove si annidano i veri responsabili del disastro che è stata questa stagione.

Come tutto è venuto giù

Dopo la sconfitta nei playoff del 2018 contro i Boston Celtics, il giornalista di The Ringer Ben Detrick scoprì che decine di burner account di Twitter che criticavano specifici giocatori dei Sixers erano in realtà legati alla moglie del GM della squadra stessa. Pochi giorni dopo Bryan Colangelo rassegnò le proprie dimissioni, ma la sua presenza è rimasta ad aleggiare sopra la franchigia.

All'epoca i Sixers avevano chiuso la stagione regolare con 16 vittorie consecutive, guidati dal rookie dell’anno in carica Ben Simmons, e avevano regolato comodamente i Miami Heat prima di cadere nella solita trappola biancoverde. Ma l’entusiasmo era altissimo, e così le aspettative per il futuro, che sembrava appartenere saldamente alla coppia formata da Embiid e Simmons. A pensarci ora quel bruciare le tappe ha poi portato alla spirale di decisioni che ha provocato il rovinoso naufragio del Process. Elton Brand, dopo essere tornato per chiudere la carriera da giocatore nella città dove aveva iniziato e dopo una breve esperienza come GM dei Delaware Blue Coats, la squadra G-League dei Sixers, è stato rapidamente promosso nello stesso ruolo per la squadra principale, prima in coabitazione con lo stesso Brett Brown, poi in solitaria. E ha iniziato a usare tutto il tesoretto di spazio salariale, asset e pick messo da parte da Hinkie per quello che Brown definì “Star Hunting”. Il solo fatto di aver tentato di portare a Philadelphia LeBron James avrebbe dovuto far suonare un campanello d’allarme di come la dirigenza dei Sixers fosse ubriaca di manie di grandezza.

Invece neanche due mesi dopo il suo insediamento Brand riuscì a prendere la sua star, Jimmy Butler, che voleva a tutti i costi scappare da Minneapolis, spedendo ai Timberwolves Dario Saric e Robert Covington, due dei più limpidi rappresentati del progetto di Hinkie: un croato lasciato a maturare due anni in Europa mentre i Sixers tankavano senza pietà, tanto da alimentare le voci che non avrebbe mai attraversato l’Atlantico; e un undrafted pescato dal mazzo e costruito nel 3&D perfetto da un software per statistiche avanzate. Ma era l’ora di crescere e Butler era “l’adulto nella stanza” che sarebbe servito per fare il salto di qualità.

Ma per Brand non era abbastanza e con un’altra mossa ancora più aggressiva ad inizio febbraio 2019 prese Tobias Harris dagli L.A. Clippers insieme altri role players per Landry Shamet, la prima scelta dei Sixers di quel Draft e due scelte future, di cui una la preziosa dei Suns nel 2021. Un all-in spregiudicato, visto che sia Harris che Butler sarebbero diventati entrambi free agent alla fine della stagione e che avrebbero chiesto di essere pagati cari. Brand era convinto di poter vincere il titolo in un NBA ancora dominata dai Warriors di Curry e Durant e si fece pochi problemi nel mettere tutte le fiches al centro del tavolo, ma non aveva fatto i conti con i Raptors e Kawhi Leonard, che con il primo buzzer beater di una Gara-7 nella storia dei playoff lanciò i canadesi verso il primo titolo della loro storia.

Per non dimenticare.

Tutti però erano ancora fiduciosi in una squadra che aveva dimostrato di poter giocarsela con i campioni in carica: l’idea era quella di confermare il gruppo in blocco, firmando sia Butler che Harris. Quando però Jimmy Butler optò per Miami e J.J. Redick di fatto fu scaricato per creare spazio salariale, la frenesia spendacciona del GM dei Sixers ha finito per stravolgere i pochi equilibri rimasti. Dopo una serie contro Toronto nella quale ha tirato il 38% dal campo, Tobias Harris fu rifirmato con il quinto contratto più oneroso della storia NBA e viene preferito a Butler. Poi in free agency è arrivato Al Horford con un contratto di quattro anni e 100 milioni garantiti, come un'assicurazione sulla salute di Embiid e per avere difensore in più da spendere contro Giannis Antetokounmpo in un'eventuale finale di Conference.

Il basket fisico e prepotente invocato da Brown però non si è mai visto in campo: i Sixers hanno fatto una fatica maledetta lontana dal Wells Fargo Center chiudendo con un mesto sesto posto a Est, pronti per essere eliminati 4-0 dai sempre odiati Boston Celtics. Anche qui le attenuanti non mancano, in primis l’assenza di Simmons che ha tolto il principale ball handler e il miglior difensore perimetrale contro le tante ali dei Celtics, fino alla orrifica caduta di Harris che ha innescato il parziale decisivo in gara-4. Ma contro Boston i Sixers hanno dimostrato tutta la fragilità della loro idea luddista di basket, confusa e inadatta a competere ad alto livello nel 2020.

Una squadra brutta

Italo Calvino descrive una delle Città invisibili - Zobeide - come una città ideata grazie a un sogno e che diventa una trappola proprio perché costruita con il solo scopo di ingabbiare quel sogno. Allo stesso modo i Sixers sono diventati l’opposto rispetto a quello che volevano essere: una squadra pesante, cigolante, costipata da contratti fuori mercato e incatenata a un gioco anacronistico. I Sixers volevano essere la squadra più moderna della lega, trovare vantaggi competitivi nei regolamenti e sfruttare al massimo i modelli statistici avanzati, e sono diventati la caricatura della NBA delle ere passate. Fuori tempo massimo, una trappola nella quale sono rimasti incastrati i due maggiori talenti della franchigia.

La presunzione della dirigenza dei Sixers nel montare e smontare il roster senza porsi il problema di come migliorare il contesto tecnico attorno a Embiid e Simmons rimane il l’errore più grave commesso in questi anni. Colangelo e poi Brand avevano un solo compito: sfruttare gli asset accumulati con il sudore e le lacrime di stagioni disastrose per creare attorno alle due stelle in ascesa la squadra che meglio poteva esaltare le loro qualità, e invece hanno attivamente contribuito a metterli nelle peggiori condizioni possibili. Un compito non facile visto le particolarità dei due giocatori sopra menzionati, ma che i GM dei Sixers hanno fallito miseramente. I due nel 2017-18, nella prima stagione completa insieme, circondati da talento mediocre ma ben allocato, avevano un Net Rating positivo di +15.5 punti su cento possessi; l’anno successivo con Butler, Harris e Redick sono scesi a +7.7; quest’anno senza nessuno in grado di creare dal palleggio e di muoversi senza palla sono crollati a +0.6.

Inizialmente il piano era quello di affiancare loro una combo guard per alleviare i compiti di creazione di Simmons, del quale ancora non si conoscevano gli istinti con la palla in mano, e in grado di segnare su tre livelli. Il prescelto doveva essere Markelle Fultz, per il quale Colangelo non si fece problemi a spendere i primi asset accumulati da Hinkie pur di portarlo a Philadelphia. E probabilmente se Fultz fosse diventato qualcosa di appena vicino a ciò che i Sixers (e non solo loro) pensavano potesse essere, ora la storia della franchigia sarebbe stata completamente diversa.

Invece le assurde vicende della prima scelta assoluta e degli account di Colangelo hanno costretto la nuova dirigenza a ripiegare su Jimmy Butler, un fit diverso e non esente da alcune smagliature, ma che rispondeva a una necessità ben precisa e non rinunciabile per la squadra. Che invece è stata del tutto abbandonata la scorsa estate, quando al posto di Butler è arrivato Josh Richardson, un decision maker estremamente più modesto, sperando che Tobias Harris colmasse quel vuoto di creazione primaria. Ma lo stesso Harris è poco più che un realizzatore di buon livello con scarsa propensione nel creare per gli altri, e inoltre gran parte delle sue conclusioni arrivano dalle zone del campo dove si muovono spesso sia Simmons che Embiid, contribuendo quindi a congestionare le spaziature. Una situazione che ha reso la firma di Horford ancora più incomprensibile, visto che l’ex Boston Celtics è molto lontano dall’essere un lungo capace di allargare il campo.

https://twitter.com/statmuse/status/1297628765430771712

I Sixers hanno visto quotidianamente una lega dominata sempre più da creatori sopra i due metri capaci di giocare in pick and roll e di tirare dal palleggio, ed hanno scientificamente deciso di andare dall’altra parte. Hanno plasmato una squadra con il solo scopo di scontrarsi con Giannis e i Milwaukee Bucks invece di trovare un'identità di gioco positiva e credibile, abbandonandosi a un'idea reattiva che gli è esplosa in mano quando si sono trovati accoppiati contro la modernità di Boston. Nella serie contro i Celtics Tobias Harris ha dato l’idea di essere l’affannoso modello ormai superato dalle fuoriserie che gli sfrecciavano accanto. Horford invece sembrava non sapere neanche dove fosse la chiave d’avviamento. Ed Embiid ha mostrato tutti i limiti di un attacco predicato sul gioco spalle a canestro senza nessuno che abbia i tempi di passaggio in post e con spaziature mediocri. Il tutto riempiendo in tal modo il cap tanto che il prossimo anno i Sixers avranno il secondo monte ingaggi compresa la Luxury Tax più alta della storia NBA dopo gli Oklahoma City Thunder della scorsa stagione.

Hinkie non è morto per questo

Per una franchigia che partiva da un tale capitale in scelte al Draft, e di conseguenza poter avere a disposizione molti giocatori a contratti controllati, essere ampiamente sopra il cap e allo stesso tempo piuttosto corta nelle rotazioni significa aver realizzato un vero e proprio disastro nello scouting e nello sviluppo del talento. A oggi i Sixers hanno tre giocatori a roster con un contratto da rookie: uno è Shake Milton, l’unica scelta al secondo giro che Philadelphia ha azzeccato dopo averne regalate quattro per avere sei mesi di Ish Smith e Trevor Booker, oltre ad averne cedute cinque per cash consideration; l’altro è Matisse Thybulle, una solida scelta dell'ultimo Draft; e poi c’è Zhaire Smith, preso appena fuori la lottery nel 2018 e che ad oggi ha giocato meno di 150 minuti in NBA.

Smith nel frattempo ha rischiato di morire per una reazione allergica, ha perso venti chili e dovuto ricostruire il suo gioco da zero. Una storia spaventosamente simile a quella di Markelle Fultz, del quale probabilmente non conosceremo mai la verità, e alla quale potevano assomigliare quella di Joel Embiid e Ben Simmons, entrambi passati per un tunnel di infortuni che non sembrava aver mai fine. Invece di aggiungere pezzi al proprio roster, i Sixers hanno regolarmente attentato all’integrità fisica e mentale dei propri tesserati, dimostrando un amatorialità non accettabile a questi livelli.

Se i Sixers nonostante questi ultimi anni vissuti pericolosamente sono ancora una squadra da più di 50 vittorie in regular season, con due All-Star che stanno per entrare nel prime della loro carriera, lo devono solamente a Sam Hinkie. La situazione che aveva creato ha permesso per troppo tempo agli incompetenti che lo hanno seguito di vivacchiare del suo lavoro, sperperando come figli viziati i sacrifici del padre di famiglia. Come detto da Zach Lowe nel suo podcast, solamente la catastrofe Fultz avrebbe dovuto far sprofondare la franchigia in un baratro, cosa che non è successa per il semplice motivo che la quantità di asset messa da parte da Hinkie ha reso sostenibile un colpo altrimenti devastante.

Infatti, contrariamente alla vulgata comune, il Processo non è fallito: semplicemente non è stato mai portato a termine. Non è chiaro quando è possibile datare la sua interruzione, ma i Sixers di oggi sono lontani parenti di quelli immaginati da Hinkie quando scambiò Jrue Holiday reduce dal suo primo (e unico) All-Star Game per due prime scelte al Draft. In parte perché la realtà come sempre è lo scarto tra immaginazione e realizzazione, ma soprattutto perché chi è succeduto a Hinkie non si è curato minimamente di seguire il suo solco - anzi, lo ha volutamente rifiutato. I Sixers hanno fallito nel momento nel quale hanno abbandonato la loro filosofia di partenza, sostituendo la pianificazione ben delineata nel tempo - per l’appunto il processo verso il quale bisognava avere fiducia e pazienza - con la furia ingorda tipica di chi gioca in borsa con le plusvalenze.

Philadelphia ora deve eliminare tutto il personale del Front Office che ha avallato un tale scempio, non solo Elton Brand e la corte dei Colangelo, e sostituirlo con un vero President of Basketball Operations che strutturi una gerarchia chiara e definita. In seguito lasciare a lui la scelta di un nuovo capo-allenatore (si fanno tanti nomi, da Tyronn Lue a Jay Wright) che predichi concetti di basket moderni e sostenibili, e che valorizzino il talento di Joel Embiid e Ben Simmons. A loro volta i due dovranno uscire dalle rispettive comfort zone e provare a migliorare il contesto tecnico nel quale sono inseriti. Difficilmente potrà avvenire una ristrutturazione del roster perché i contratti di Horford e Harris sono dei macigni che nessuno vuole muovere e a oggi il loro valore sul mercato è negativo, quindi la soluzione migliore è aspettare che le loro quotazioni salgano un minimo.

I Sixers sono ancora una squadra forte, con tanto potenziale non realizzato. Per riuscire a liberarlo servirà competenza, serietà e abnegazione, vale a dire tutto quello che è venuto meno negli ultimi anni. Servirà rimboccarsi le maniche, sistemarsi i colletti e tornare ad avere fiducia nel processo, lasciandogli questa volta il tempo del quale ha bisogno.

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