Anche se sembra passata una vita intera dalla conclusione delle Finals o anche solo dal Draft, è da poco più di due settimane che la NBA è cambiata totalmente rispetto a quella che abbiamo conosciuto nelle ultime stagioni. Un cambiamento talmente repentino che ancora non è facile capire per bene come sono cambiati i rapporti di forza all’interno della lega: le finaliste dell’ultimo con ogni probabilità non saranno quelle dell’anno prossimo; la Western Conference è tornata ad essere soverchiante nei confronti della Eastern dopo una stagione in cui i playoff a Est sembravano più interessanti di quelli a Ovest; Los Angeles è diventata forse per la prima volta il centro nevralgico della NBA con due delle squadre con più star power della lega; soprattutto i Golden State Warriors non saranno più quelli che abbiamo imparato a conoscere.
Il cambiamento più grande è proprio quello che riguarda la squadra che ha marchiato a fuoco gli ultimi cinque anni della NBA. Il Superteam dei Superteam con quattro All-Star non c’è più dopo tre stagioni in cui solo gli infortuni hanno impedito loro di raccogliere tre titoli in fila. E la fine della loro dinastia ha cambiato il paradigma di cosa serve per essere una “squadra da titolo”: mentre fino all’anno scorso una franchigia sapeva di dover costruire un roster all’altezza degli Warriors per poter pensare di vincere il Larry O’Brien Trophy, è molto probabile che la prossima squadra ad alzare il trofeo sarà meno forte in senso assoluto rispetto a quei Golden State Warriors a pieno regime. E non perché sarà una squadra scarsa — per definizione chi vince un campionato con 30 squadre formato dai migliori giocatori del mondo non può esserlo —, ma perché quegli Warriors erano un’anomalia rispetto al normale sviluppo di una superpotenza in NBA, complice l’aumento del salary cap del 2016 e mille altre variabili imprevedibili che hanno portato alla creazione di quella specifica squadra.
L’addio di Kevin Durant a Golden State ha inevitabilmente rimesso in gioco tutto quanto: non è un caso se nelle prime due settimane di mercato le squadre hanno cominciato una selvaggia “corsa agli armamenti” per dare l’assalto al titolo, cercando di far fruttare gli asset meticolosamente messi da parte aspettando che passasse la tempesta Warriors e si riaprisse una strada ragionevolmente aperta verso il titolo. E non è neanche un caso che le due squadre che sono uscite vincitrici da questa free agency siano due squadre che fanno del lavoro meticoloso, programmato e intelligente il loro marchio di fabbrica.
Cultura + Big Market = stelle
I Brooklyn Nets e gli L.A. Clippers fino a poco tempo fa erano lo zimbello della lega non solo per le loro condizioni geografiche (figli di un Dio minore nei due mercati più grandi degli Stati Uniti), ma anche per le proprietà (Donald Sterling da una parte, Mikhail Prokhorov dall’altra) e per dirigenze che non erano mai riuscite a creare squadre che andassero oltre il secondo turno dei playoff, inanellando una serie di decisioni da mani nei capelli. Negli ultimi anni però le cose sono cambiate specialmente in testa alle due franchigie, cominciando a fare un lavoro con un senso e una visione che ha dato risultati costanti, creando quella “culture” che tutti vogliono avere ma che pochi sanno realmente creare.
Non è un caso se tre dei free agent più importanti sul mercato — Kevin Durant, Kyrie Irving e Kawhi Leonard — hanno scelto di andare lì piuttosto che ai Knicks e ai Lakers, franchigie dal blasone maggiore ma dalla situazione dirigenziale, diciamo così, da tempo deficitaria. Se c’è una cosa che abbiamo imparato da questa free agency è che il lavoro nella gestione degli asset e la serietà nella costruzione di una squadra competitiva pagano, specialmente se unite a un contesto geografico comunque favorevole (come sottolineato da Jared Dudley, la nuovissima practice facility dei Nets permette ai giocatori di vivere in città invece di farsi un’ora di macchina per andare a Tarrytown in quella dei Knicks) e in un mercato di grandi dimensioni. Quando si unisce la mentalità da squadra dello small market alla geografia del big market, il risultato non può che essere quello di attrarre i migliori free agent sul mercato, specialmente quelli che vengono da quella parte degli Stati Uniti come Leonard e George. Era vero prima ed è vero ancora adesso.
Allo stesso modo, come sottolineato da Howard Beck su Bleacher Report, può anche capitare che squadre gestite benissimo come Golden State e Toronto perdano i loro due migliori giocatori solo perché l’erba del vicino viene considerata più verde, come capitato con KD e Kawhi. Ma è la natura stessa della NBA che si è venuta a creare con i contratti sempre più corti e una situazione di free agency pressoché perenne (si parla già di quanto sarà folle il mercato del 2021!). Anche le franchigie NBA devono fare i conti con una realtà in cui, che piaccia oppure no, non tutto è sotto il loro controllo in questa epoca in cui i giocatori hanno sempre più potere, e che spesso uscirne salvandosi in corner, seppur non in maniera ideale, è meglio che rimanere a bocca asciutta. Chiedere a Sam Presti e David Griffin per informazioni su come riuscire a cavarsela in una situazione disperata.
Space Jam 2 ha già cambiato l’NBA più dei Monstars. (Photo by Ethan Miller/Getty Images)
Kawhi Leonard è il Keiser Söze della NBA
L’altra cosa che abbiamo imparato, se mai ce ne fosse ancora bisogno, è che alle superstar piace giocare con altre superstar, perché oramai l’asticella per vincere il titolo — per quanto abbassata dalla sparizione degli Warriors in versione Superteam — è messa talmente in alto da rendere molto difficile farcela da soli sul medio-lungo periodo. Per questo abbiamo visto Durant e Irving unire le forze e per questo Kawhi Leonard ha imposto la presenza di un’altra stella come sua condizione necessaria per tornare a Toronto o in California (e se non fosse andato ai Clippers si sarebbe unito ai Lakers dove ce n’erano già due).
Se c’è un giocatore che ha già vinto l’anno 2019 anche dovesse sparire dai radar da qui a fine dicembre è di sicuro l’MVP delle ultime Finali. Che oltre ad avere vinto il secondo titolo con due squadre diverse giocando una delle migliori post-season di tutti i tempi, nell’ultima settimana ha mostrato un volto di sé che non avevamo ancora imparato a conoscere: quella del recruiter di altissimo livello. Di fatto abbiamo imparato più cose su Leonard in questa free agency che nei suoi primi otto anni nella NBA: con una ragnatela di intrecci degna di Keyser Söze, è riuscito ad ottenere tutto quello che voleva sia in termini personali (tornare a vivere a Los Angeles) che in termini di carriera (continuare a competere per il titolo) e anche dal punto di vista economico (firmando un 2+1 per poter massimizzare i suoi guadagni e il suo potere nella franchigia). Soprattutto lo ha fatto a suo modo, senza dover sottostare a nessuno, ma invece dettando le sue condizioni e ottenendole.
Il modo in cui Leonard ha portato via Paul George da Oklahoma City reclutandolo per unirsi a lui ai Clippers è stato geniale, tenendo sulle spine l’intera NBA fino a quando il suo piano non si è compiuto con un clamoroso colpo di scena. Solamente a cose fatte abbiamo scoperto che Leonard aveva provato a convincere sia Durant che Irving a seguirlo ai Clippers, e il modo in cui ha mandato a vuoto tutti gli insider più potenti della lega — da Adrian Wojnarowski a Shams Charania passando per Marc Stein e Chris Haynes — nella settimana più scrutinata dell’anno ha qualcosa di miracoloso per quelli che sono i meccanismi della NBA del 2019. Leonard avrebbe vinto anche se fosse andato ai Lakers, unendo le forze con LeBron James ed Anthony Davis, ma non avrebbe vinto secondo i suoi termini e si sarebbe unito in corso d’opera a una squadra che stavano già costruendo altri, ricevendone inevitabilmente meno meriti. Andando ai Clippers in questo modo, invece, ha dimostrato di essere una superstar a tutto tondo, esercitando il potere guadagnato nell’ultimo anno e mostrando un volto di lui che non avevamo ancora scoperto. Alla faccia dell’automa.
Lo sguardo di chi ne ha viste tante, il sorriso di chi le ha fregate tutte. (Photo by Vaughn Ridley/Getty Images)
Il nuovo equilibrio competitivo
Dopo cinque stagioni in cui solamente tre squadre hanno raggiunto le Finals (anche se tutte e tre hanno vinto il titolo), è legittimo pensare che nei prossimi due/tre anni vedremo maggiori avvicendamenti all’appuntamento finale per alzare il Larry O’Brien Trophy. I roster delle squadre non sono ancora definitivi, ma per come si sono posizionati i pezzi più importanti del puzzle ci sono almeno una dozzina di squadre che possono pensare di avere chance superiori allo 0% di vincere il titolo. Di fatto, tutte le otto franchigie che andranno ai playoff a Ovest possono pensare che con la giusta combinazione di salute, talento e fortuna possono arrivare fino in fondo; lo stesso si può dire di almeno cinque/sei squadre a Est, anche se al momento Milwaukee e Philadelphia sembrano avere qualcosa in più delle altre per potersi considerare contender. Il mercato aperto fino a febbraio e i tanti giocatori in scadenza facilmente ottenibili, però, possono far cambiare i rapporti di forza.
Questo equilibrio competitivo è di sicuro un bene per la NBA, che torna ad avere reale incertezza su chi vincerà il prossimo titolo e potrà sfruttare questa novità per “pubblicizzare” la prossima stagione come una delle più combattute degli ultimi anni. Il problema, semmai, è evitare che si crei un livellamento verso il basso: a differenza degli Warriors con Durant sano che sembravano pressoché intoccabili sotto ogni punto di vista tecnico-tattico, passando in rassegna ciascuna squadra si può trovare un difetto che fa storcere il naso. Andando in rigoroso ordine di quote di Las Vegas:
I Clippers sembrano sulla carta la squadra più completa sui due lati del campo, ma se bisogna trovare loro un difetto non si può non notare la mancanza di playmaking e di movimento di palla in attacco, visto che le principali bocche di fuoco (Leonard, George e Lou Williams) non spiccano per visione di gioco.
I Bucks hanno il sistema più solido della lega sui due lati del campo e hanno perso “solo” Malcolm Brogdon, ma abbiamo visto come manchi un piano B quando Giannis Antetokounmpo non riesce a imporsi fisicamente sulle difese avversarie. Il roster è pieno di gente che sa tirare, ma non di knockdown shooter: la differenza è sensibile quando la posta in gioco si fa più alta.
I Lakers hanno star power, ma è difficile trovare un terzetto coerente da affiancare a Davis e LeBron, con il secondo che pare in predicato di occupare stabilmente la posizione di point guard mentre è in una fase della carriera in cui dovrebbe giocare sempre più lontano dal pallone (e gestire di più il carico del suo assurdo chilometraggio).
I Sixers sono fisicamente imponenti come e forse più dello scorso anno, ma non hanno migliorato sensibilmente la loro panchina (grosso punto debole di un anno fa, qui il mercato può fare la differenza) e il portatore di palla primario in situazioni di crunch time è un enorme punto interrogativo.
Gli Warriors hanno perso Durant e non avranno Klay Thompson fino a febbraio, ma dovranno capire come (e se) integrare D’Angelo Russell nel loro sistema, oltre a sperare che ci sia abbastanza attacco quando il pallone esce dalle mani di Steph Curry. Detto questo, paradossalmente, sono quelli che hanno maggiore familiarità tra i loro migliori giocatori.
I Rockets avevano dalla loro parte la continuità di un gruppo che ha sfidato da pari a pari Golden State, ma anche uno spogliatoio che sembrava ben oltre il punto di rottura. Per questo hanno deciso di rimescolare le carte inserendo Russell Westbrook, ma come reagirà a non essere più il capo della franchigia?
I Jazz si sono mossi benissimo sul mercato per costruire attorno a Mitchell e Gobert e fino all’inizio della free agency sembravano una credibile candidata ad arrivare fino in fondo. Poi le altre squadre si sono mosse e specialmente a Los Angeles sono emerse due contender in grado di esporre un difetto forse fatale: chi marca le superstar avversarie sul perimetro come Leonard, George e James?
I Celtics si sono salvati in corner prendendo Kemba Walker per rimpiazzare Irving, ma hanno l’enigma Gordon Hayward da risolvere (tanto a livello tecnico quanto a livello di spogliatoio) e una rotazione dei lunghi tutta da inventare, con la pesantissima partenza di Horford. Anche qui, il mercato potrebbe venire incontro per risolvere questo difetto.
I Nuggets hanno una profondità di roster invidiabile e la familiarità di tutti i membri che si conoscono a memoria, ma chi è in grado di prendersi responsabilità oltre a Jamal Murray e Nikola Jokic quando la posta in palio si fa più alta?
I Blazers sono ancora la squadra di Lillard e McCollum, ma hanno perso un po’ della loro anima difensiva costruita su Harkless e Aminu e hanno puntato un sacco di fiches su Whiteside (aspettando il rientro di Nurkic).
I Nets hanno un’impalcatura solidissima costruita nel tempo su cui hanno aggiunto Irving, ma in attesa di Durant non sembrano avere abbastanza punti nelle mani per giocarsela da subito (e far partire titolare DeAndre Jordan al posto di Jarrett Allen potrebbe creare malumori in spogliatoio).
I Pacers con le aggiunte di Malcolm Brogdon, Jeremy Lamb e TJ Warren hanno migliorato il talento complessivo del roster, ma Oladipo rimarrà fuori fino al 2020 e non hanno ancora risolto la dicotomia Sabonis/Turner sotto canestro, pensando di farli partire in quintetto assieme. Un piano che non sembra sostenibile a livello di playoff.
Gli Heat al momento sono pronti a competere solo nella testa di Jimmy Butler, che forse si aspettava l’arrivo di un’altra stella per provare a dare l’assalto al fattore campo a Est. Per ora non è arrivata, e non è nemmeno detto che basti.
I Raptors, infine, escono inevitabilmente sconfitti da questa free agency avendo perso i loro esterni titolari, ma hanno comunque una squadra competente che assicura come minimo un altro giro ai playoff. E ogni volta che si sentiranno tristi potranno guardare il Larry O’Brien Trophy in bacheca, e scusate se è poco.
Ciascuna di queste squadre adesso come adesso può pensare di uscire vincitrice dalla propria conference (e altre probabilmente stanno facendo lo stesso ragionamento, specialmente nella Western Conference), ma nessuna può esserne davvero certa nella maniera in cui gli Warriors o i Cavaliers nella seconda era James. Questo è sicuramente un bene per noi che viviamo di NBA e aspettiamo con ansia la prossima stagione — in cui forse potremo parlare un po’ più di basket giocato e un po’ meno di scenari di mercato, anche se nelle ultime stagioni ormai le due sfere non possono prescindere l’una dall’altra.