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Brutti, sporchi e cattivi come i Clippers
25 feb 2022
25 feb 2022
La squadra di Tyronn Lue è riuscita a rimanere a galla nonostante gli infortuni di Leonard e George.
(articolo)
16 min
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Per quale motivo un semplice appassionato di pallacanestro che non ha interessi di tifo dovrebbe guardarsi una partita di NBA? Si possono trovare svariate ragioni, ma una delle principali è certamente la qualità dei giocatori in campo, e in particolare quella delle stelle. Nessun campionato sportivo al mondo mette assieme una quantità di talento quanto la NBA al suo meglio: i migliori esseri umani al mondo a mettere la palla dentro un canestro sono tutti lì, salvo rarissime eccezioni di giocatori che ci sono già stati oppure ci saranno presto.

Ma in una lega che offre picchi di talento speciali anche in squadre perdenti, per quale motivo oggi una persona dovrebbe mettersi davanti alla tv o al pc per vedere una partita degli L.A. Clippers? L’assenza fin da inizio stagione di Kawhi Leonard e quella da Natale in poi di Paul George hanno tolto i due principali motivi di interesse attorno ai “fratelli minori” di Los Angeles, che hanno tenuto fede alla loro nomea di squadra più sfigata della lega inanellando una serie di infortuni dietro l’altro proprio quando hanno raggiunto il miglior risultato della loro storia con le finali di conference dello scorso luglio.

La rottura del legamento crociato anteriore di Kawhi Leonard nella serie contro gli Utah Jazz ha dato il via a una serie di imprese culminate con la folle gara-6 (vinta in rimonta da -25 all’intervallo) e con una serie giocata col coltello tra i denti per sei partite contro i Phoenix Suns, ma ha anche gettato un’ombra sull’intera stagione 2021-22, nella quale inevitabilmente Leonard non sarebbe sceso in campo all’inizio. Lo stesso due volte MVP delle Finals si era dato una chance di rientrare in tempo per il termine della stagione firmando un contratto di tre anni con opzione per il quarto, assicurandosi economicamente e approcciando con più serenità la lunga riabilitazione dall’infortunio; ma il successivo problema al legamento del gomito destro subito da Paul George nel mese di dicembre (un infortunio dal quale non è più rientrato dopo Natale) ha reso ancora più precaria l’intera stagione dei Clippers, facendoli precipitare in un limbo.

Se i vari componenti della franchigia (giocatori, coaching staff, dirigenza e proprietà) avesse deciso di “darla su” e di pensare già al prossimo anno e al ritorno a pieno regime delle due stelle, nessuno avrebbe potuto fargliene davvero una colpa. Date le circostanze avverse del fato, sarebbe stato comprensibile e per certi versi auspicabile, dando il maggior spazio possibile ai giovani e alla ricerca di comprimari per dare l’assalto al titolo nel 2023. Invece i Clippers — complice anche il fatto di aver ceduto agli Oklahoma City Thunder la loro scelta del 2022 (e quella del 2024, e quella del 2026, con la possibilità in favore di OKC di scambiare anche quelle del 2023 e del 2025 se più favorevoli) — hanno deciso di continuare a combattere. E quello che ne è venuto fuori è una delle storie più improbabili dell’intera stagione.

La sfiga ha sempre un occhio di riguardo per i Clippers

È un gioco abbastanza semplice da fare, eppure sforzatevi: che record avrebbero oggi le migliori squadre della NBA se avessero dovuto fare a meno del loro miglior giocatore della squadra (nonché uno dei 75 più grandi di sempre) per tutta la stagione e del loro secondo miglior giocatore (che stava giocando a livelli celestiali) dopo le prime 20 partite? I Clippers non sono solamente la seconda squadra ad aver “perso” più partite per via degli infortuni e delle positività al Covid-19 (ben 287, solo Orlando peggio di loro con 366), ma anche quella che ha dovuto fare i conti con le assenze più pesanti, visto l’impatto che hanno Leonard e George per i loro destini.

La differenza di vittorie ottenute dai Clippers e dai Magic è peraltro piuttosto evidente.

Negli ultimi due anni la dirigenza guidata da Lawrence Frank (con la supervisione dall’alto di Jerry West) ha rimodellato il roster mossa dopo mossa per rendere questa squadra in tutto e per tutto i Clippers di Kawhi & PG13. Uno dopo l’altro i membri di quel gruppo del triennio 2018-2020 che era andato enormemente oltre le aspettative sotto Doc Rivers — da Patrick Beverley a Lou Williams passando per Montrezl Harrell e Danilo Gallinari — sono stati ceduti, e tutti i giocatori scelti per rimpiazzarli sono stati pensati per essere messi di fianco ai due All-Star, non per dover giocare senza di loro.

E anche al di là delle due star, altri membri fondamentali per il manipolo di giocatori rimasti a disposizione hanno avuto problemi a non finire: Marcus Morris ha giocato le prime due partite e poi è rimasto fuori per quattro settimane; quando è tornato è stato il turno di Nicolas Batum, rimasto fuori 19 giorni per via del Covid-19 (e quando è tornato non c’era già più George); per un mese filato hanno avuto almeno un giocatore nel protocollo salute e sicurezza, in particolare Luke Kennard che ha saltato i primi 18 giorni di gennaio; infine non appena hanno provato ad aggiungere un altro realizzatore dal mercato in Norman Powell, lo hanno perso dopo appena tre partite per una frattura al piede che potrebbe tenerlo fuori per il resto della stagione.

In tutto questo anche il calendario ci ha messo del suo, visto che i Clippers sono stati l’unica squadra della lega a giocare 61 partite prima della pausa per l’All-Star Game. Anzi: secondo quanto scritto da Elias Sports Bureau, solo i Minnesota Timberwolves del 2017-18 e alcune squadre degli anni ’50 hanno giocato quanto loro prima della pausa di “metà” stagione. Di mezzo ci sono stati anche una partita a Toronto a San Silvestro e una a New York a capodanno (mai capitato nella storia della NBA che accadesse), cinque occasioni diverse in cui hanno dovuto giocare cinque gare in sette giorni, e un momento in cui hanno dovuto giocare 11 partite in 11 città diverse, di cui quattro con quattro fusi orari differenti.

Specialisti in rimonte impossibili

Con questa combinazione letale di infortuni delle stelle e calendario a dir poco avverso, gran parte delle squadre avrebbe probabilmente alzato bandiera bianca molto tempo fa. I Clippers invece sono arrivati alla pausa per l’All-Star Weekend a una sola vittoria dal 50%, un 30-31 buono per l’ottavo posto a Ovest con una gara e mezzo di vantaggio sui cugini dei Lakers, che (pur con tutti i loro problemi) hanno quantomeno avuto 41 partite da LeBron James e 37 da Anthony Davis, oltre che 57 da Russell Westbrook (ok, visti i risultati si può dibattere se questo sia stato un bene oppure no). Con 26 partite giocate, Paul George è il tredicesimo giocatore più presente per i Clippers in questa stagione, e alcune di queste sono state disputate con un gomito già infortunato.

Il risultato è stato che i Clippers in questa stagione sono stati, senza girarci tanto intorno, a tratti inguardabili. Il loro rating offensivo di 108.7 punti su 100 possessi è il quint’ultimo di tutta la NBA, davanti solo al Quartetto Del Tanking di questa stagione (OKC-Detroit-Orlando-Houston); commettono palle perse sopra la media della NBA, complice una cabina di regia affidata quasi interamente a Reggie Jackson (mai stato noto per le sue visioni di pallacanestro); sono tra le peggiori squadre a rimbalzo d’attacco di tutta la lega e, pur andando piuttosto spesso in transizione, sono i peggiori in assoluto a segnare quando hanno l’opportunità di farlo. In più la loro selezione di tiro è putrida, non arrivando mai al ferro e prendendosi una quantità insensata di tiri dai sei metri con scarsissime possibilità di successo (37.6% nei long 2s, quart’ultimi in tutta la NBA). Sono anche tra le peggiori squadre per numero di passaggi realizzati e assist potenziali creati. Tutti indicatori statistici che indicano una lampante, inevitabile e drammatica mancanza di talento, a cui però i Clippers sono riusciti a fare fronte nell’unica maniera possibile: difendendo come pazzi con un manipolo di giocatori sporchi, brutti e cattivi.

Pur dovendo fare a meno di due delle migliori stelle “two-way” dell’intera lega, i Clippers hanno abbastanza incredibilmente la settima miglior difesa della lega e hanno un potere quasi mefistofelico nel far tirare male gli avversari. Non c’è una singola zona di campo in cui gli avversari dei Clippers tirino sopra media, per un 51.4% effettivo che li posiziona al quinto posto dell’intera lega (contro il 53.4% che dovrebbero tenere: solo Boston e Cleveland hanno una discrepanza maggiore tra i due dati). I Clippers sono la quarta miglior squadra della NBA a difendere il ferro, ma sono anche la squadra che fa tirare peggio gli avversari dagli angoli, con un 34% che si può leggere in due modi: o hanno avuto un po’ di fortuna fino a questo momento (ma le percentuali sui tiri “wide-open” degli avversari non sono fuori scala, anzi non sono nemmeno in top-5) oppure i Clippers sono fenomenali nell’entrare sotto pelle agli avversari, il che ci porta a un altro punto.

Nel corso di questa stagione nessuno ha avuto la loro capacità di rimontare da situazioni impossibili. Anzi, per certi versi quella di rimontare è la loro identità senza Leonard e George, come ha ammesso anche Nicolas Batum recentemente («Dallo scorso anno ai playoff, questo è quello che siamo»). Il momento più assurdo è stato a Washington lo scorso gennaio, quando i Clippers erano andati sotto di 35 lunghezze nel secondo quarto e coach Tyronn Lue nella ripresa non ha schierato i suoi veterani, completando la seconda più grande rimonta dal 1996 a oggi. E non solo: i Clippers erano sotto di 7 lunghezze a 20 secondi dalla fine, una situazione che negli ultimi 20 anni ha portato la squadra in vantaggio al successo in 16.239 occasioni su 16.240, con l’unica eccezione di una vittoria nel 2014 di Cleveland su Orlando (ma dopo un tempo supplementare).

Un caso isolato? Macché: quella di Washington era la terza rimonta da -24 nel solo mese di gennaio, dopo averne già rimontati 25 l’11 gennaio ai Denver Nuggets di Nikola Jokic (un’altra squadra martoriata dagli infortuni, ma se non altro con il proprio MVP in campo) e 24 nel terzo quarto il 21 gennaio ai Philadelphia 76ers dell’ex Doc Rivers e di un altro candidato MVP come Joel Embiid. Nelle ultime quattro stagioni, i Clippers hanno sette vittorie in partite in cui sono stati sotto di almeno 24 punti — quattro in più di qualsiasi altra squadra in questo lasso di tempo.

Pur avendo un record perdente contro squadre sopra il 50% di vittorie, hanno alle spalle numerose vittorie contro alcune delle migliori squadre della NBA. I Clippers hanno battuto almeno una volta tutte le squadre che la precedono in classifica a Ovest, tranne Memphis (la loro bestia nera: con loro sono 0-4 in stagione) e Utah (una sola partita giocata e persa). Per il resto hanno battuto Phoenix, Golden State (due volte), Dallas (due volte), Denver e Minnesota (tre volte), oltre a vantare successi anche contro squadre dell’Est come Miami, Philadelphia, Boston (due volte) e Brooklyn con Durant e Harden in campo.

La vera superstar dei Clippers è Tyronn Lue

Sballottati da una parte e dall’altra in un mare in tempesta, a tenere la barra dritta per l’intera squadra ci ha pensato Tyronn Lue, che è probabilmente alla sua miglior stagione in carriera se si considera il solo coaching. L’ex coach campione NBA coi Cleveland Cavs nel 2016 è riuscito a tirare fuori qualcosa da ogni singolo giocatore a disposizione, trovando spazio e ruolo anche a giocatori con contratto two-way come Amir Coffey (che in sei occasioni diverse è stato il miglior marcatore dei suoi) o altri che nemmeno erano sicuri di avere un posto in NBA come Isaiah Hartenstein (che con il suo contributo ha di fatto reso sacrificabile anche un campione NBA come Serge Ibaka, spedito a Milwaukee alla deadline). Anche Brandon Boston Jr., che sembrava essersi perso dopo un anno disastroso a Kentucky, ha soppiantato Keon Johnson nelle gerarchie (tanto da portare alla sua cessione nello scambio per Powell e Covington), e Luke Kennard è stato rigenerato dopo una passata stagione in cui non metteva piede in campo, rendendolo uno dei più mortiferi tiratori della lega (44.8% da tre su oltre 6 tentativi a partita uscendo dalla panchina) e facendolo passare da asset negativo a positivo nonostante quel contratto.

Tyronn Lue ci ha scherzato un po’ su, dicendo che la sua dirigenza «continua a pensare di poter fare dei miracoli, ma non so per quanto potrò andare avanti», ma c’è un fondo di verità nelle sue parole. La dirigenza dei Clippers può permettersi di perseguire un’idea di squadra ben precisa, accumulando il maggior numero possibile di ali attorno a Leonard e George nella convinzione che, in un modo o nell’altro, Lue riuscirà a trovare il modo di farli funzionare tutti quanti. Anche perché i Clippers di Lue sono al loro meglio quando possono sfruttare la loro strutturazione small, quella che ha mandato in crisi gli Utah Jazz negli scorsi playoff e che, con i due All-Star sani, li renderebbe di fatto una seria candidata per il titolo.

Tyronn Lue ha dovuto far fondo a tutti i trucchi difensivi della sua borsa per cercare di dare una chance ai suoi, spesso cercando di rimanere tatticamente un passo avanti ai suoi avversari senza dare punti di riferimento. Recentemente sia Monty Williams che Steve Kerr hanno sottolineato il suo coraggio nell’andare fuori dagli schemi e di cambiare più volte nel corso della stessa partita, specialmente negli ultimi quarti in cui spesso è riuscito a fare la differenza. I Clippers hanno il sesto miglior differenziale su 100 possessi nei finali punto a punto (+14.0 in 101 minuti) e in generale hanno un differenziale di +4.2 nei quarti periodi (sesto miglior dato NBA), ben superiore al -0.9 su base stagionale (19° dato della lega, inferiore ai San Antonio Spurs che però hanno sette vittorie in meno di loro e sono fuori dal play-in).

Lue è riuscito a tenere la squadra in linea di galleggiamento (non hanno mai perso più di tre partite in fila da quando è arrivato) cercando di aggirare i limiti fisici del roster, uno dei peggiori statisticamente a rimbalzo tanto in attacco quanto in difesa. Uno dei segreti per far funzionare i quintetti “piccoli” è che, pur schierando lunghi sottodimensionati, nei ruoli degli esterni si ha spesso una superiorità fisica nei confronti dei diretti avversari. Una superiorità però che i Clippers non hanno mai avuto quest’anno: per dirla con le parole di Lue, «un conto è giocare piccolo con Leonard, Morris, George e Batum, un altro è farlo con Terance Mann, Reggie Jackson e Eric Bledsoe. Quest’anno quando giochiamo “small”, siamo “super small”».

A dargli una mano è stato anche il mercato, mettendogli tra le mani un jolly difensivo come Robert Covington. Pur essendo probabilmente lontano dai suoi giorni migliori, Covington ha avuto un impatto sensazionale sulla difesa dei Clippers fino a questo momento, accumulando recuperi e stoppate seguendo i suoi istinti lontano dalla palla. Batum senza mezzi termini lo ha definito come «il giocatore con le mani più veloci della NBA, anche più di Kawhi» e fino a questo momento il suo impatto sul parquet è quantificato dall’incredibile -21.7 di rating difensivo dei Clippers quando è sul parquet rispetto a quando non c’è (seppur con un campione statistico ridotto a soli 120 minuti, ma contro squadre del livello di Bucks, Grizzlies, Mavericks, Warriors e Suns, oltre che Houston).

Le due recenti partite contro Dallas, in particolare, hanno mostrato quanto Lue sia disposto anche a soluzioni estreme se ritiene che diano le migliori chance di vittoria alla sua squadra. Sin dai playoff nella bolla del 2020, l’effetto che ha la presenza in campo di Ivica Zubac su Luka Doncic è equivalente a un toro che vede il colore rosso in un cartone animato: va in full berserk e diventa inarrestabile. È stato così a Orlando, è stato così nella serie di playoff dello scorso anno ed è stato così anche due settimane fa, quando lo sloveno ha realizzato 28 punti in un solo quarto e ha chiuso poi con 51 nella vittoria dei suoi Mavs sui Clippers, torturando il centro croato ad ogni occasione.

Due giorni dopo il calendario ha messo di nuovo di fronte Dallas con L.A., ma invece di cambiare Lue è rimasto impassibile ed ha continuato a mettere Zubac su Doncic praticamente uno contro uno, accettando qualsiasi risultato venisse. L’obiettivo infatti era duplice: da una parte costringere Doncic a prendersi il maggior numero di tiri contestati, dall’altra quella di togliere ritmo a tutti gli altri Mavs — anche a costo di vedersene segnare 40 in faccia. «Quando non arrivi nel pitturato e tiri solo in step back da tre, nessun altro tocca la palla e finiscono fuori ritmo» ha detto Lue dopo la prima partita. «Forse ho lasciato Zu troppo a lungo su di lui a inizio partita, ma pensavo che alla fine si stancasse. Poi ne ha fatti 51 perché è un grande giocatore».

Nell’idea di Lue, Doncic può anche segnare 45 punti, ma non gli si può permettere di distribuire anche 16 assist ai compagni come è chiaramente in grado di fare, scegliendo tra le due l’opzione di farlo stancare il più possibile — col senno di poi una delle chiavi per vincere la complicatissima serie di primo turno dello scorso anno, nelle quali lo sloveno arrivava puntualmente stremato all’ultimo quarto. Una tattica rischiosa, come dimostra il fatto che poi hanno perso la prima partita, ma in cui Lue crede fermamente (lo ha fatto recentemente con Steph Curry e Klay Thompson, cercando di coinvolgerli il più possibile difensivamente per farli lavorare e stancare) e che ha riproposto identica due sere dopo, questa volta raggiungendo la vittoria nonostante il tiro della vittoria nelle mani di Doncic — che non è arrivato neanche al ferro.

Regola numero 1: trovare un modo di sfangarla, sempre.

Lavorare oggi in ottica 2023

Con una vittoria nel derby contro i Lakers della notte tra venerdì e sabato (statistica curiosa: i Clippers hanno vinto 30 degli ultimi 37 derby giocati contro i gialloviola dal 2012 in poi) i Clippers risalirebbero di nuovo a un record del 50%, semplicemente incredibile considerando quello che hanno dovuto affrontare e il talento complessivo della squadra nelle due metà campo. Eppure, nonostante una stagione di fatto “persa”, la dirigenza non è rimasta a guardare, concludendo una deadline che non avrà rubato l’occhio, ma che è stata semplicemente perfetta.

Con una spesa minima (Keon Johnson, Bledsoe, Justise Winslow e una seconda scelta al Draft) sono riusciti a prendere un giocatore del calibro di Norman Powell, perfetto per giocare al fianco di Leonard (con cui ha già vinto un titolo a Toronto) e George quando saranno a disposizione. In più hanno aggiunto anche Covington, che sarà in scadenza a fine anno ma che potrebbe essere confermato in estate visto l’impatto finora. Per di più, cedendo Ibaka, hanno anche ridotto la loro luxury tax di 31 milioni di dollari, pur rimanendo esorbitante a quota 82 milioni per una stagione in cui non hanno alcuna chance di vincere il titolo.

Un tipo di investimento che solo un proprietario dai fondi illimitati come Steve Ballmer può permettersi senza battere ciglio, dando carta bianca alla dirigenza per fare tutte le mosse che riteneva necessarie pur di vincere — anche quella di aggiungere il contratto di Powell che chiama altri 80 milioni di dollari nei prossimi quattro anni, un contratto che evidentemente Portland non voleva continuare a pagare pur avendolo dato a Powell solo pochi mesi fa. Con due “Traded Player Exception” a disposizione (una da 8.25 milioni in scadenza a metà luglio e una da 9.8 milioni utilizzabile entro un anno), i Clippers avrebbero anche la possibilità di aggiungere altri due “contrattini” per fortificare ancora di più un roster che per la prossima stagione è già praticamente formato, con il quintetto Jackson-George-Leonard-Morris-Zubac a cui aggiungere Powell, Kennard, Mann e Boston, oltre a Batum (che ha una player option da 3.3 milioni). A questi potrebbero aggiungersi Covington e Hartenstein se confermati in free agency, ripresentandosi ai nastri della prossima stagione come una delle principali candidate al titolo.

Poi, trattandosi dei Clippers, le catastrofi possono essere sempre dietro l’angolo, ma almeno il percorso che li ha portati fino a qui è quello giusto. Se solo la sfortuna decidesse di guardare da un’altra parte, i Clippers potrebbero per una volta legittimamente avere l’ambizione di vincere il titolo.

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