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LeBron James si è ripreso il suo trono
14 ott 2020
14 ott 2020
A quasi 36 anni, il Re è ancora il giocatore di pallacanestro più forte del pianeta.
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Alla vigilia di gara-5 delle Finals contro i Miami Heat, a una vittoria di distanza dal quarto titolo della sua carriera, a LeBron James è arrivata una domanda inevitabile sulla sua legacy. Come se non aspettasse altro, il Re ha risposto: “La mia legacy verrà raccontata nel modo in cui deve essere raccontata, ma non ci penso poi così tanto”. Una risposta piuttosto strana, che si inserisce nel grande solco delle parole passivo-aggressive di James, che in questi ultimi anni spesso ha cercato di indirizzare la narrazione della sua carriera nei binari a lui preferiti.

In realtà sappiamo bene sin dal 2014 che lui è convinto di essere uno dei primi quattro giocatori della storia della pallacanestro (il famoso “Mount Rushmore”), e anche che la vittoria nel 2016 rimontando da 1-3 contro una squadra da 73 vittorie come quei Golden State Warriors lo abbia — nella sua testa — messo allo stesso livello o addirittura un gradino più su rispetto a Michael Jordan, che un’impresa così non l’aveva mai realizzata.

Quello che il resto del mondo pensa, però, non è esattamente allineato con quello che LeBron pensa, o almeno non nei termini che lui ritiene adeguati. E ne abbiamo avuto la riprova negli ultimi quattro anni, quelli passati tra il terzo e il quarto titolo della carriera di James, durante i quali le due sconfitte in finale contro i Golden State Warriors di Kevin Durant e la prima fallimentare stagione con i Los Angeles Lakers hanno in qualche modo fatto perdere terreno a LeBron nella rincorsa a Michael Jordan. Perché alla fine il dibattito sul Greatest Of All Times — che, a scanso di equivoci, rimane di pochissimo rilievo per le sorti dell’umanità o anche solo della nostra esperienza di appassionati di basket — si è ridotto solamente ai loro due nomi, e almeno su questo si può essere d’accordo.

Ognuno ha il suo GOAT

Il dibattito rimane comunque più attuale che mai, specialmente adesso che James — a pochi mesi dai 36 anni — si è di nuovo messo sul trono della NBA, vincendo il premio di MVP delle Finals con la terza squadra diversa come non era mai riuscito a nessuno nella storia della NBA. E la discussione, che è stata in qualche modo riportata in auge dall’uscita di The Last Dance durante il primo lockdown, è di nuovo ricominciata: il discorso su chi fosse il GOAT era partito prima ancora che i Lakers vincessero il titolo e inevitabilmente è stato cavalcato come uno dei temi portanti del successo di James su tutti i media che hanno trattato le Finals. Ma se anche due tra le penne più ispirate del giornalismo americano come John Hollinger di The Athletic e soprattutto Zach Lowe di ESPN non sono riusciti a sbrogliare la matassa ingarbugliata che sono i paragoni tra James e Jordan, creando più confusione che altro nei loro ragionamenti e “dovendo” scriverne più che avendo qualcosa di rilevante da dire, allora significa davvero che una soluzione a questo dibattito non c’è.

La spada che spezza il nodo di Gordio che è diventata la discussione sul GOAT non può che essere una: ognuno ha la sua opinione su chi sia il più grande di sempre, e questo titolo di James non cambia davvero più di tanto la sua sostanza. Se pensavate che Jordan fosse il migliore per il suo record di 6-0 alle Finals, che probabilmente non verrà mai pareggiato da nessuno, LeBron non ha più modo di superarlo già dal 2007 — perché anche se vincesse altri tre titoli portandosi a sette, rimarrebbero comunque quella da 22enne contro i San Antonio Spurs, oltre alle altre cinque che sono seguite. L’aura di invincibilità di MJ e la creazione di un modo “giusto” di essere leader (ad esempio prendendosi il tiro per decidere la partita invece che passarlo, al contrario di quanto fatto da LeBron in gara-5 con Danny Green, almeno secondo la vulgata di chi non ricorda John Paxson e Steve Kerr) ci sono ormai entrate talmente sottopelle che ogni deviazione da quella norma ci sembra in qualche modo sbagliata, come se si possa vincere solo nel modo in cui lo ha fatto Jordan.

Il filmino delle vacanze di LeBron alle Finals.

Se invece pensate che James sia il migliore per la longevità del suo picco (che non è ancora finito nonostante i suoi compagni di Draft siano tutti, o quasi, con uno o due piedi fuori dalla lega mentre lui è ancora in cima contro gente molto più giovane di lui) e per la completezza del suo gioco in ogni sua sfaccettatura, con ogni probabilità lo pensavate anche prima che alzasse il Larry O’Brien Trophy nella notte tra domenica e lunedì. E se per voi il suo impegno sociale e politico ha un peso nel ragionare se sia il GOAT oppure no, non è neanche in discussione chi abbia avuto un ruolo più importante tra lui e Jordan negli anni della loro massima rilevanza. In ogni caso non c’è modo di uscirne, ma alla fine non è importante che lo sia: il GOAT è dentro di voi e nessuno ha poi così tanta intenzione di farvi cambiare idea.

La #RevengeSZN del Re

Quello che nessuno può mettere in discussione è la grandezza di quanto fatto da James in questa lunghissima stagione 2019-20, nella quale ha riscoperto un abnegazione difensiva che sembrava ormai destinata all’oblio (dopo anni a tratti rivoltanti a Cleveland) e nella quale ha esercitato il suo controllo sul resto della lega con ferocia glaciale, dentro e fuori dal campo. E se del suo cambiamento tecnico-tattico (meno dominio, più controllo) avevamo già parlato in occasione del suo ritorno alle Finals dopo la serie contro Denver, forse conviene spendere qualche parola sul modo molto particolare in cui ha vissuto questa stagione.

Il fatto che nel discorso finale dopo aver ricevuto il premio di MVP abbia detto in maniera sibillina «Anche io voglio il mio dannato rispetto» è il culmine di una stagione passata a cercare di zittire chi lo riteneva in fase calante, sia che questo qualcuno esistesse davvero oppure no. Nessuno realmente si è sognato di dire che James fosse finito, ma era inevitabile avere qualche dubbio dopo la stagione passata, in cui il fisico aveva dato un primo chiaro segnale di cedimento — a 34 anni di età e con un chilometraggio già in top-10 per minuti giocati nella storia della NBA — con quell’infortunio all’inguine che ancora in queste Finals veniva segnalato nell’injury report dei gialloviola. Non era un’idea così campata per aria, insomma.

James però ha continuato a vedere nemici dove forse nemmeno ce n’erano anche per alimentare la sua voglia di rivincita e la sua narrazione, utilizzando l’hashtag #RevengeSZN su tutti i suoi post social ed esercitando la sua influenza ogni volta che ne ha avuto l’opportunità, spesso in maniera esagerata. Anche una polemica scema come quella dei “soli” 16 primi posti per il premio di MVP — utilizzata per esprimere che secondo lui lo meritava più di Giannis Antetokounmpo, pur senza dirlo esplicitamente perché avrebbe finito per fare la parte del rosicone — è stato un modo per mandare un messaggio ai media che non lo avevano votato, e anche per preparare anche un po’ il campo a un’eventuale votazione per quello delle Finals (che infatti è finito nelle sue mani con voto unanime, giustamente).

...and i took that personally.

Re in una bolla

Per vincere il suo quarto anello della carriera ha dovuto superare anche l’ostacolo della bolla di Disney World, che per sua stessa ammissione ha pensato più di una volta di abbandonare (andandoci vicino nella notte dello sciopero dei giocatori, secondo quanto raccontato più o meno ad arte). James è stato il principale promotore del ritorno in campo nei mesi della pandemia ma allo stesso tempo uno di quelli che ha vissuto peggio la bolla. Ci ha messo diverso tempo per ritrovare i suoi ritmi — le otto seeding games dei Lakers sono state tutt’altro che memorabili, le sue parole «Abbiamo problemi fuori dal campo» facevano immaginare questioni personali che non sono mai state del tutto chiarite — ma ingranando piano piano, tenendo gli occhi sul premio finale, anche a costo di non far entrare la sua famiglia a Disney World pur di chiudere l’esperienza il più in fretta possibile, è riuscito a portare a termine la missione.

Nessuno di noi da fuori può davvero capire quanto sia stato complicato vivere per oltre tre mesi in una sorta di perenne giorno della marmotta, vedendo sempre gli stessi luoghi e le stesse persone con la stessa routine mentre bisognava creare dentro di sé la tensione per performare al più alto livello — con gli occhi del mondo lontani ma sempre puntati addosso, perché comunque quando in campo c’è LeBron James ci si aspetta sempre che vinca sempre. Anche alla soglia dei 36 anni e alla sua 17^ stagione nella lega, quando alle sue spalle ha già una quantità smisurata di record e un posto indiscutibile tra i più grandi sportivi di sempre, James ha sentito la necessità di riaffermare il suo posto in cima alla NBA, prendendosi anche la responsabilità di guidare una franchigia in cui prima di questa stagione era solo un “ospite” in uno dei momenti più complicati come i mesi post-morte di Kobe Bryant.

James dice sempre di avere le spalle abbastanza larghe per poter sopportare ogni peso, ma è con la testa che riesce a essere davvero LeBron James. Il quarto titolo della sua carriera è stato un titolo vinto prima di tutto con la testa, dimostrandosi mentalmente più pronto e concentrato rispetto ai suoi tanti avversari, più consapevole di avere tra le mani un’occasione d’oro con Anthony Davis al suo fianco e di non poterla davvero sprecare — visto che sa che le lancette dell’orologio stanno scorrendo, anche se vorrebbe farci credere il contrario. Essere riuscito a portare a compimento questa stagione è tutt’altro che banale: un infortunio al momento sbagliato o una settimana storta avrebbero potuto far deragliare questa sua chance. E invece è andato a riprendersi il trono.

Se il primo titolo con Miami è stato quello del sollievo, il secondo quello della consacrazione e il terzo quello del suo destino, questo quarto anello per James rappresenta quello della totale e completa maturità — tecnica, tattica, fisica e in particolar modo mentale. Non c’è più niente su un campo da pallacanestro che gli sfugga, niente che non sia nelle sue possibilità, niente che non abbia già calcolato. Poi può riuscirci o non riuscirci, ma nulla è più lasciato al caso. Forse non ci capiterà mai più di vedere un giocatore così: goderselo fintanto che lo abbiamo nelle nostre vite, senza doverlo per forza paragonare al passato, potrebbe non essere una brutta idea.

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