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Le 5 migliori faide NBA del 2017
04 gen 2018
Tutti i momenti in cui i protagonisti della NBA hanno litigato col resto del mondo.
(articolo)
11 min
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Riavvolgendo il nastro del 2017 mi sono accorto di come l’NBA sia davvero una lega stranissima, una specie di Millennium Falcon che viaggia nell’iperspazio mentre tutto intorno si muove al rallentatore. Questa differenza di velocità, se si sbaglia a inserire le giuste coordinate, porta a inevitabili collisioni con il mondo esterno. Ne ho messe in fila cinque.

5) Sports vs Stick to Sports

Un paio di settimane fa i Cleveland Cavaliers giocavano a Washington e LeBron James è sceso in campo con le sue Nike 15 PE d’ordinanza, solamente che una era bianca e l’altra era nera. Entrambe però sul tallone avevano cucita in oro la scritta Equality, a dimostrazione che tutto ciò che fa James è misurato al millimetro. È stato uno degli ultimi atti politici di un anno costellato da un continuo batti e ribatti tra sport e politica, un rapporto da sempre strettissimo ma reso ancora più urgente dopo l’elezione di Donald Trump.

Le forti posizioni prese dall’inquilino della Casa Bianca hanno trovato risposta nei protagonisti delle maggiori leghe professionistiche statunitensi, costringendo l’opinione pubblica a dividersi come il Mar Rosso: da una parte chi ha appoggiato le manifestazioni dei giocatori, dei proprietari, dei giornalisti che si sono sentiti attaccati dal proprio Presidente, il quale in più di un’occasione li ha definiti ungrateful black multi-millionaires; sull’altra sponda chi condivide i sentimenti di Trump verso le stelle, che con i loro comportamenti da viziati insultano i valori sui quali si basa la grandezza dell’America.

Per l’occasione è stata tolta dalla naftalina l’odiosa espressione Stick to Sports, che significa in soldoni “stai nel tuo”, considerando gli atleti come dei semplici corpi performanti, capaci di esprimersi solo attraverso le fibre dei loro muscoli come fossero gladiatori nel Colosseo, e che dovrebbero limitarsi allo sport senza esprimere opinioni personali. Un’idea così fastidiosa e neanche tanto velatamente razzista che speravo di non dover più sentire; invece eccola rispuntare come un brutto maglione a Natale, pronta a ridurre degli atleti a mere figurine senza testa, incapaci di formulare qualsivoglia giudizio e di mettere giù alcun tipo di azione. Se pensavate che lo sport potesse veicolare dei valori o contribuire a far fare all’umanità un passetto in avanti verso una società migliore, vi sbagliavate di grosso: è una specie di Hunger Games in cui conta solo lo spettacolo. Serve solo a far divertire lo spettatore, il resto non conta.

Speriamo che questa faida si risolva prima dell’inizio del 2018, anche perché sembra appartenere al secolo scorso.

4) Kevin Durant vs l’Internet

Sherry Turkle nel suo ormai storico La vita sullo schermo annunciava che finalmente su Internet «puoi essere chiunque tu voglia essere. Se vuoi puoi ridefinire completamente te stesso. Puoi anche cambiare sesso, essere molto più loquace o taciturno. Puoi essere proprio chi vuoi essere, davvero, chiunque tu sia in grado di interpretare». Kevin Durant ha preso tutta questa storia troppo sul serio, finendo per riempire il web di suoi alter-ego, i quali alla fine hanno preso il sopravvento.

Come James McAvoy in Split, il Durant che conosciamo a volte viene scavalcato dalle sue altre personalità: c’è Angry Durant, quello che si fa espellere dopo aver discusso con gli arbitri di etica nicomachea; c’è Businessman Durant investitore nelle start-up della Valley; che Media Durant, quello che rilascia le interviste più interessanti della lega; e infine c’è il Durant che rosica, che non riesce a dormire e passa la notte a rispondere ai suoi interminabili haters su come non fosse colpa sua se Oklahoma City non è mai arrivata al quel titolo che sembrava scritto nelle stelle. È così che abbiamo scoperto che non gli piaceva l’organizzazione o giocare per Billy Donovan, che lui e Russ erano soli con attorno “those cats” e che una squadra così non avrebbe avuto nessuna speranza contro gli Warriors.

E ha dato vita ad uno dei miei Russmoment preferiti del 2017.

Negli anni Internet, da luogo di condivisione e fratellanza, si è trasformato in un inferno di odio e frustrazione, l’esatto percorso compiuto da Durant, da nerd con lo zainetto a vampiresco Signore Oscuro dell’Internet. La sua odissea twitteriana iniziata parlando di documentari naturalistici è finita a trollare ogni singolo hater finché la sua malefica creatura non gli si è ritorta contro, svelando a tutti cosa era diventato. Forse è solamente una strana metafora della nostra vita online; forse in realtà Durant andando a Oakland si è immolato per i nostri peccati (visto che Sam Hinkie non era bastato), per mostrarci la nostra natura mortale. O forse ha un senso di colpa mostruoso che lo sta mangiando vivo e a fine carriera di lui resteranno solo gli anelli e qualche burner account nascosto. In ogni caso ha fatto la figura del bufu e ha vinto l’MVP del Peggior Uso di Twitter 2017 scalzando il campione in carica del 2016, Draymond Green, che lo aveva scambiato per Tinder.

Nel 2018 dovremmo imparare a convivere con questi errori dei nostri giocatori preferiti perchè comunque non vogliamo rimanere Stick to Sports (vedi punto 5) e mai come quest’anno i social siano diventati parte integrante dell’ecosistema NBA.

3) LaVar Ball vs il Senso Comune

Ammetto di essere un fan della famiglia Ball: non vedevo scoppiare così tante teste da quando da piccolo vidi Mars Attacks! su Italia 1 e se, come spero, il prossimo anno ci sarà un’invasione aliena, basterà mettere a tutto volume le interviste di LaVar per liberarci degli intrusi interstellari.

Lo scorso anno papà LaVar era folklore locale in quel di Chino Hills, California, ma praticamente sconosciuto al pubblico non avvezzo alle nuances del basket liceale. Un’anno dopo è apparso su ogni media statunitense, è al centro di uno conflitto geopolitico ed è stato personalmente insultato dal Presidente degli Stati Uniti (vedi sempre punto 5). Infine ha lanciato il suo primogenito nella squadra di basket più importante al mondo e ha spedito gli altri due nel glaciale inverno lituano.

Per quanto si possa detestarlo visceralmente, non si può non ammettere come abbia dominato l’anno che ci apprestiamo a salutare trasformando un'azienda a conduzione familiare in un brand globale, il tutto giocando alle sue regole, cioè sgasando sulla sua Lambo con il dito medio alzato in faccia alle consuetudini che si davano ormai come normative nell’NBA. È entrato in gamba tesa ovunque ci fosse qualche totem da abbattere o qualsiasi reliquia da fare a brandelli, e ha contribuito a suo modo ad accelerare alcuni cambiamenti fisiologici.

La sua guerra sacra contro i luoghi comuni e le nostalgie del mondo a spicchi è stata una delle gioie più lucide dell’anno e i commenti infuriati sotto ogni articolo che lo riguardava hanno riempito le mie notti più fredde. Faccio davvero fatico ad immaginarmi un 2017 senza LaVar forse perché LaVar è la cosa più 2017 che è successa nel 2017.

Permettetemi di ricordarvi perché con una breve una Top Five nella Top Five delle sue migliori uscite:

Quando ha detto che avrebbe ucciso Michael Jordan in uno contro uno (ogni cosa che riguarda Jordan va al primo posto);

Quando si è presentato con i figli a Monday Night Raw (is this a crossover episode?);

Quando ha costretto i Lakers a rispolverare una regola mai rispettata per impedirgli di rilasciare interviste (quando ti fanno una legge ad personam significa che sei arrivato);

Quando ha rilasciato una emoji di lui che schiaccia sopra Donald Trump (servono spiegazioni?);

Quando ha dichiarato guerra all’NCAA spedendo i figli in Lituania (non si scherza con LaVar).

Ci vediamo a Prienai, vai a insegnare i gruppi Whatsapp ai lituani.

2) Kelly Oubre x Supreme vs NBA Fashion Police

Kelly Oubre ha gli occhi di smeraldo, una mascella rassicurante e il parrucchiere personale per aggiustarsi il taglio due volte a settimana. Il fatto che sia un discreto giocatore di basket è quasi secondario: Oubre dovrebbe avere un contratto solo perché è molto bello e si veste molto bene nei tunnel delle arene (la cosa migliore su Oubre che ho trovato è che ha una fan fiction tutta sua). Il suo stile da metrosexual spalmato su un corpo troppo invadente per essere contenuto in jeans strappati e occhiali geometrici ha quel qualcosa in più rispetto ai molti cloni di Russell Westbrook: c’è la ricercatezza di chi ci si impegna e ci crede per davvero.

L’anno scorso ha speso parte della sua off-season in uno stage da Esquire Mag, ha lanciato un suo personale brand, Dope Soul, ed è una presenza fissa alle sfilate della settimana della moda di New York. Ecco, forse Kelly Oubre ci crede un po’ troppo e far parte dei wannabe Bad Boys di Washington DC non aiuta. Non so come sia successo ma i Wizards sono diventati in pochi anni la squadra più rancorosa della lega e hanno fatto emergere il lato dark dell’autonominatosi “Wave Papi” (sempre grande rispetto per chi si da i soprannomi da solo). E se ad inizio anno la vittima preferita era Kelly Olynyk, spintonato in malo modo negli scorsi playoff perché si vestiva da schifo, in questa nuova stagione la sua noia adolescenziale si è condensata contro le direttive sul vestiario dell’NBA, sfidate ripetutamente come se fosse un personaggio uscito dalla penna di Bret Easton Ellis. Prima è stato multato per essere arrivato negli spogliatoi con una pellicciona di Supreme x Hysteric Glamour con dietro stampata a più ripresa la nota espressione di disprezzo FUCK YOU.

Oubre è l’XXXTentation dell’NBA.

Poi è stato nuovamente ripreso per aver indossato una shooting sleeve sempre di Supreme durante la sfida a Brooklyn contro i Nets. Mentre J.R. Smith la stessa sera la indossava al braccio, Kelly ha deciso di coprirci la gamba sinistra il che non ha alcun senso se parliamo di performance sportiva, quindi possiamo essere relativamente sicuri che lo abbia fatto con l’unico scopo di flexare. Durante l’intervallo qualcuno vicino all’organizzazione gli ha fatto capire che era meglio toglierla di mezzo. «Forse sono troppo wavvy per loro, non capisco perchè non dovrei poter giocare con un indumento che ha sopra i loghi di Nike e dell’NBA, non stiamo giocando forse nell’NBA?» ha detto come se nulla fosse.

La cosa che mi fa impazzire di Oubre è che vive tutto come un affronto personale, come se il mondo in ogni momento mettesse in dubbio che lui sia il più bello, il più bravo o il più sofisticato. Una cosa però è certa: nessuno può mettere Wavy Papi in un angolo, neanche l’NBA.

1) Kyrie Irving vs l’astronomia

Recentemente Kyrie Irving ha dichiarato che lui non sente il Natale come una festività ma un’occasione per guardare con la sua famiglia Una Poltrona Per Due. È l’ennesima provocazione del nuovo giocatore dei Boston Celtics, non nuovo ad uscite al limite del trolling, come quando ha fatto credere a tutti che voleva andarsene via dalla squadra vicecampione del mondo. Ok forse questo è successo davvero.

Il 2017 passerà alla storia come l’anno nel quale si è tornati a mettere in discussione la rotondità della Terra e nel quale “Uncle Drew” è passato da essere l’eroe di Gara-7, il fuoriclasse che ha deciso la rimonta più incredibile della storia dell’NBA, a una specie di redneck convinto che il nostro pianeta sia come in un’illustrazione medioevale e che tuttici stiano mentendo.

A febbraio, ospite nel podcast di Richard Jefferson e Channing Frye, mentre i Cavs volavano sopra gli Stati Uniti, Kyrie guardando dal finestrino si è accorto di come sotto i suoi occhi la terra correva senza quelle curvature che ti racconta il mappamondo. Era irrimediabilmente piatta. L’NBA dopo The Big Aristotle scopriva The Lil’ Pitagora, una versione superscettica e relativista dello studioso greco, pronto a confutare tutto ciò che scienza mondiale dà per scontato da centinaia di anni. Secondo Irving la Terra non è sicuramente piatta, ma non è neanche sicuramente rotonda: è uno stimolo per interrogarsi sulle nostre certezze, per uscire dalla nostra comfort zone. E guardando dentro di sé Irving ha scoperto che voleva scappare a tutti i costi da Cleveland - che sarà anche brutta quanto ti pare ma finché c’è LeBron significa viaggio alle Finals garantito - per tentare una carriera solista altrove. Alla fine, facendo tutto al contrario, è caduto in piedi (grazie alla forza di gravità, Kyrie!) in quel di Boston, dimostrando che forse c’era del metodo nella sua follia.

Infatti mi sembra che tutta questa storia dica più su di noi che su di lui. Non accettiamo che un giocatore fortissimo, che ci fa innamorare ad ogni palleggio, poi possa anche essere il tipo complottista che al bar ci vuole convincere di come le Big Pharma ci stiano sfruttando come polli da batteria mentre noi vogliamo solo sorseggiare il nostro frappuccino al latte di soia. È uno squarcio oltre la quarta parete dello spettacolo, una voce demoniaca che ripete «stick to sport, stick to sport» ma che te vuoi scacciare perché credi fermamente che i giocatori debbano esprimere le loro personalità a tutto tondo (vedi come sempre il punto 5) e non rimanere incasellati dentro le loro qualità performative.

Ma Kyrie Irving, con il suo atteggiamento da chi crede che Il Codice Da Vinci sia un grande esempio di non-fiction tanto da inserire l’icona dell’All Seeing Eye sulle sue nuove Nike, è un rebus insolvibile: rincorrere i suoi ragionamenti è più complicato che togliergli la palla.

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