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Le conseguenze della scelta di Kyrie Irving
13 ott 2021
L’ultimo colpo di scena di una storia che si preannuncia ancora lunga.
(articolo)
11 min
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Nel corso degli ultimi anni, tra i molti argomenti extra-cestistici su cui Kyrie Irving ha ritenuto doveroso esprimere un’opinione, c’è anche la scomparsa dei dinosauri. Campione di scetticismo già noto per le sue dichiarazioni sulla Terra piatta, in quell’occasione Irving avanzava dubbi circa la ricostruzione postuma dell’aspetto delle creature preistoriche e sul fatto che la loro estinzione fosse proprio dovuta all’impatto di un asteroide. Il tema relativo agli asteroidi, passione curiosamente condivisa dal compagno e amico fraterno Kevin Durant, e più in generale quello della scienza sono stati spesso elemento portante delle peripezie dialettiche dell’ex giocatore di Cleveland e Boston. Fino a qualche settimana fa, tuttavia, queste peripezie dialettiche, al netto della stramberia che le caratterizzava, non avevano mai davvero inciso sulla professione esercitata dallo stesso Irving, che rimaneva – e rimane – uno dei più luminosi talenti visti sul parquet negli ultimi dieci anni.

Giusto per non dimenticare, nella gran confusione, di cosa è capace Irving con la palla in mano.

La situazione ha però vissuto una svolta con l’avvicinarsi della nuova stagione e con la relativa questione vaccinale che ha coinvolto la NBA. E se è forse esagerato definire come un asteroide ciò che ha colpito i Nets e in qualche modo tutta la lega, non è difficile intuire come l’impatto della scelta di Irving segnerà i prossimi mesi, a Brooklyn e non solo.

Strategie di contenimento del danno

La questione che riguarda la NBA e la vaccinazione dei giocatori è piuttosto complicata, ragion per cui è necessario prima di tutto riepilogare velocemente la cronaca dei fatti fin qui. La lega, come d’abitudine da inizio pandemia, in contemporanea con l’avvio dei training camp ha inviato alle 30 franchigie un memorandum con i protocolli sanitari da adottare per la stagione 2021-22. All’interno del documento, la NBA sceglieva di non rendere obbligatoria la vaccinazione (pur avendo provato a discuterne con l’associazione giocatori, ricevendone un no secco), preferendo invece differenziare con forza il trattamento riservato ai giocatori vaccinati rispetto a quelli non-vaccinati.

Con questa mossa, la speranza di Silver e soci era che il maggior numero di giocatori possibile decidesse di vaccinarsi se non per convinzione, almeno per oggettiva convenienza. Anche perché, a corollario dei protocolli NBA, tre tra le maggiori metropoli americane – e sede di ben cinque franchigie NBA – come Los Angeles, New York e San Francisco avevano nel frattempo stabilito regole ancora più stringenti e che di fatto avrebbero impedito ai giocatori non vaccinati di scendere sul parquet per le gare casalinghe, pur permettendo di allenarsi in strutture private e non pubbliche. La combinazione di soft power esercitato dalla NBA e di quello decisamente meno soft delle amministrazioni locali aveva funzionato in alcuni casi, come quello di Andrew Wiggins, che si è vaccinato pur avendo espresso chiaramente la volontà di non farlo, lasciando però in una zona d’ombra chi, come Bradley Beal, Jonathan Isaac e Trey Burke, aveva deciso di non vaccinarsi e, giocando in città che non prevedono restrizioni particolari, vedeva di fatto agevolata questa scelta.

Nonostante il supporto alquanto limitato di stelle da cui era lecito aspettarsi ben altra esposizione sul tema, forse anche per la relativa visibilità mediatica dei giocatori coinvolti e delle rispettive franchigie, la strategia di contenimento del danno – d’immagine e pratico – derivante dalla presenza di una minoranza di giocatori non disposti a vaccinarsi sembrava comunque aver funzionato, anche perché è bene ricordare che il 96% dei giocatori NBA è stato vaccinato. Anche l’eco mediatico di alcune uscite durante il Media Day e di articoli come quello di Rolling Stone sembrava essersi in parte smorzato. Solo che poi è arrivato Kyrie Irving.

La scelta di Kyrie e quella dei Nets

La decisione di Irving, che ormai sembra definitiva – ammesso che il termine definitivo abbia alcun senso nel mondo di Kyrie – e la sospensione da parte della franchigia (che ha deciso di metterlo fuori squadra fino a quando non potrà partecipare interamente alle attività del gruppo, quindi fino a quando non si sarà vaccinato o fintanto che le regole della città di New York resteranno in vigore) hanno diversi risvolti e conseguenze dal punto di vista economico, tecnico e relazionale. L’aspetto economico sembra destinato allo svolgimento più lineare: l’accordo sottoscritto tra NBA e NBPA, il sindacato dei giocatori tra le cui fila Irving ricopre un ruolo di prestigio, autorizza i Nets a trattenere 1/92esimo dello stipendio annuale di Irving per ogni gara saltata causa effettiva impossibilità di giocare in ragione della sua decisione di non vaccinarsi, pari a circa 380.000 dollari.

Il conteggio è presto fatto: alle 41 partite casalinghe vanno aggiunte le due contro i Knicks al Madison Square Garden, per cui ovviamente valgono le medesime regole stabilite dalle autorità competenti per la municipalità di New York per i suoi residenti (ma non per i giocatori in trasferta, che potranno giocare al Barclays Center e al MSG senza restrizioni). Il totale della trattenuta totale supererebbe quindi 17 milioni di dollari sui 35 complessivamente dovuti al giocatore per la stagione 2021-22. Irving verrà altresì regolarmente pagato per la quota parte che riguarda le partite in trasferta perché la decisione di non schierarlo non è frutto di condizioni oggettive, ovvero le norme previste dall’amministrazione cittadina, bensì di una libera scelta da parte della dirigenza della franchigia, come ha specificato anche il General Manager Sean Marks parlando con la stampa.

«Non siamo alla ricerca di partner che ci sono solo a metà. Non sarebbe giusto nei confronti di nessuno, Kyrie incluso. La speranza è di riaverlo: lo accoglieremo a braccia aperte in circostanze diverse da quelle attuali. Il nostro obiettivo non è cambiato: essere l’ultima squadra a rimanere in piedi a fine stagione».

Le ramificazioni più a lungo termine, invece, potrebbero coinvolgere il contratto che lega Irving ai Nets e che scade a giugno 2023 (con una player option esercitabile sull’ultimo anno). Prima dell’insorgere della problematica vaccinale, le discussioni relative all’estensione da 181.6 milioni di dollari in quattro anni sembravano avviate verso un esito soddisfacente per entrambe le parti, ma la situazione di insicurezza potrebbe rappresentare un elemento di notevole disturbo e forse un ostacolo insuperabile nella negoziazione, che al momento è del tutto congelata. Anche ai piani alti di Nike, che a novembre lancerà le sue nuove Kyrie 8 e con cui già in passato c’erano stati problemi, guardano con preoccupazione alle possibili ricadute commerciali nell’arco dei prossimi mesi.

Quanto a ricadute, quelle sul resto dei compagni appaiono certe. Irving avrebbe potuto giocare solo in trasferta, particolare che, considerate anche le complessità logistiche del calendario della regular season, avrebbe reso la sua presenza più che intermittente. È facile intuire l’impatto che questa discontinuità avrebbe avuto sui meccanismi di una squadra che l’anno scorso, per vari motivi, è riuscita a mettere in campo le sue tre stelle col contagocce. E se è plausibile affermare che anche senza Kyrie i Nets possano essere comunque una squadra da titolo potendo contare su Durant, Harden e un roster profondo e costosissimo (Joe Tsai pagherà circa 280 milioni tra stipendi e luxury tax per questa stagione), lo è altrettanto affermare che l’anomalia di una presenza a intermittenza avrebbe costretto coach Steve Nash ad adottare soluzioni tattiche diverse di volta in volta e quindi sempre un po' provvisorie, senza riuscire a creare rotazioni ed abitudini in vista dei playoff. Paradossalmente, l’assenza tout court potrebbe risultare di più facile gestione, anche se rimane fuori dubbio come, in particolare nei momenti decisivi della stagione, avere o non avere a disposizione uno dei migliori attaccanti della sua generazione potrebbe fare la differenza.

Esempio pratico di quanto la presenza di Irving avrebbe potuto rappresentare un’arma decisiva per i Nets. Lo scorso anno Kyrie ha vissuto la miglior stagione della sua carriera ed è stato per larghi tratti il più sano dei tre All-Star di Brooklyn

Con la decisione di lasciare fuori Irving i Nets hanno scelto di mettere ordine in una situazione che rischiava di compromettere la coesione tecnica, la serenità del gruppo e la continuità nel percorso di crescita necessario per provare l’assalto al Larry O’Brien Trophy, anteponendo gli interessi della squadra a quelli del singolo giocatore, per quanto influente. E anche se sul campo i Nets dovessero comunque riuscire a reggere l’assenza di Irving, gli effetti di quanto avvenuto sulle dinamiche di spogliatoio, e più in generale nei rapporti di potere all’interno della franchigia, potrebbero rivelarsi pesanti.

Innanzitutto perché, è utile sottolinearlo, uno dei motivi per cui i Nets sono riusciti a costruire quella che oggi è considerata la favorita per la vittoria finale è proprio la presenza di Irving, punto fondamentale per orientare le scelte di Durant prima e Harden poi di approdare a Brooklyn. E proprio questo filo che lega le tre stelle della squadra, e in particolar modo Durant a Irving, ha rappresentato forse l’elemento di maggior difficoltà nella gestione del caso Kyrie. Dalle parti di Atlantic Avenue tutti, dal proprietario Joe Tsai (dichiaratamente pro-vaccino) a Sean Marks, da Steve Nash all’ultimo dei panchinari con un contratto two-way, sapevano che il prezzo da pagare per avere Durant consisteva anche nel sopportare le bizze di Irving, che già lo scorso anno si era preso due settimane di pausa a gennaio senza permesso della franchigia, che ha fatto buon viso a cattivo gioco. La scelta di non vaccinarsi e quindi deliberatamente di saltare almeno metà delle partite in calendario, però, va ben oltre le bizze.

L’estrema cautela con cui il front office aveva maneggiato il caso Kyrie, una cautela molto simile all’accettazione passiva di quanto deciso dal giocatore e delle conseguenze per il resto dell’organizzazione, è quindi sfociata in maniera quasi inevitabile nella decisione di estrometterlo da ogni attività di squadra. Una decisione che, per ammissione dei diretti interessati, porta la firma di proprietà e general manager ma che, proprio per le ragioni esposte poco fa, è ragionevole ipotizzare sia arrivata solo a fronte del via libera da parte di Durant e Harden. Una decisione che potrebbe aprire nuovi scenari nel rapporto tra le tre stelle di Brooklyn, oltre che per il resto della NBA e non solo.

Bigger than basketball

Nell’NBA contemporanea, l’espressione “bigger than basketball” è tra le più abusate, ma la vicenda di Kyrie Irving apre riflessioni su temi che sono davvero più grandi della pallacanestro: quanto conta la libertà personale e qual è il perimetro entro cui è possibile esercitarla? Come impattano le scelte del singolo sull’ambiente che lo circonda? È plausibile appellarsi alla difesa delle proprie convinzioni quando in ballo c’è la salute pubblica, nel mezzo di una pandemia che ha tolto la vita a oltre 700.000 persone solo negli Stati Uniti? Sono domande a cui non è possibile dare una risposta univoca e di certo non è questa la sede in cui cercarla. Rimanendo alla pallacanestro, quanto successo tra Irving e i Nets può essere visto come un passo falso nell’incedere fin qui inarrestabile del fenomeno del player empowerment e potrebbe influenzare non poco i rapporti tra giocatori, agenti, proprietà e lega in vista del rinnovo poi non così lontano del contratto collettivo.

E infine, restringendo ulteriormente il campo, provando al contempo a sospendere il giudizio sulle motivazioni addotte, a metà strada tra le convinzioni religiose e il più rozzo dei complottismi, va detto che - per quanto discutibile e per certi versi sconcertante - la decisione di non vaccinarsi risulta a suo modo con il percorso personale di Irving e del personaggio “controcorrente” che ha voluto crearsi. La scommessa, non è chiaro se consapevole o meno, su cui Kyrie ha costruito la sua carriera si fonda infatti sulla convinzione che un talento con pochi eguali per il gioco del basket possa e debba giustificare comportamenti e affermazioni altrimenti insostenibili. Nella sua concezione di personaggio pubblico non è previsto l’obbligo di chiarire dichiarazioni controverse o giustificare comportamenti ambigui, la cui spinosa interpretazione viene demandata agli osservatori esterni.

E la scelta estrema e testarda di andare contro qualsiasi logica, in questo senso, appare del tutto logica, naturale prosecuzione di un discorso alla cui base c’è sempre stato il diktat “questo è Kyrie, prendere o lasciare”. I Nets, come altri prima di loro, avevano deciso di prendere ma sembrano aver compreso, come altri prima di loro, che è arrivato il momento di lasciare. Ora rimane da vedere fino a che punto, pur di tenere la sua posizione, Irving sarà disposto ad assecondare la narrazione contorta che lo vedrebbe quasi come eroe romantico d’altri tempi («Vuole essere le voce di chi non viene ascoltato» hanno detto persone vicino a lui) e a mettere gli altri, a cominciare dai compagni di squadra e in secondo luogo la sua stessa carriera cestistica, in secondo piano.

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