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Klay Thompson è tornato
10 gen 2022
10 gen 2022
Dopo 941 giorni di attesa, il giocatore più amato della NBA è tornato in campo.
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8 min
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Quantificare la durata dell’assenza di Klay Thompson è un’operazione che non può ritenersi conclusa con il conteggio, peraltro piuttosto eloquente, dei 941 giorni passati lontano dai parquet. Perché in quei due anni e mezzo abbondanti sono successe molte cose, dentro e fuori dal microcosmo della guardia dei Golden State Warriors. Ci sono stati la rottura del crociato sinistro prima e, a quindici mesi di distanza, quella al tendine d’Achille della gamba destra, un uno-due in grado di stroncare la carriera di un atleta arrivato alla soglia dei 30 anni d’età e in precedenza abituato a sostenere ritmi da vero e proprio Iron man (24 partite saltate in 8 stagioni, senza mai mancare a una gara di playoff). Nel mezzo dei due infortuni, a inizio luglio 2019, era poi arrivato il ricco rinnovo contrattuale da 180 milioni di dollari che l’avrebbe trattenuto a Golden State per le successive cinque stagioni. Le prime due di quelle stagioni, forse le più bizzarre e complicate nella storia della NBA e di certo le meno felici dell’ultima decade per la franchigia californiana, Thompson le ha però trascorse allenandosi in solitudine lontano dai riflettori e dai compagni di squadra. Nel frattempo gli equilibri della lega venivano stravolti dal cambio di maglia di molte delle sue stelle, dall’ex sodale Kevin Durant a Anthony Davis, da James Harden a Kawhi Leonard e così via. Per dire: l’ultima volta che Klay Thompson è sceso in campo, Zion Williamson e Ja Morant non erano neanche stati scelti al Draft.

E se il lungo percorso verso il ritorno in campo è stato mitigato da svaghi di varia natura in pieno – e unico – stile Klay e da qualche tentativo di riciclarsi nel cinema e in TV, il basket è rimasto al centro dei pensieri, a volte anche un po' polemici, di Thompson. Un lungo percorso che avrebbe dovuto avere la partita di Natale come ultimo approdo, appuntamento rimandato di un paio di settimane e accompagnato da un’ondata di affetto che ha coinvolto compagni, avversari, addetti ai lavori e semplici appassionati. Un affetto testimoniato dai primi risultati del voto popolare per l’All-Star Game, in cui Klay risulta 4° a Ovest tra le guardie pur senza aver giocato un singolo minuto di pallacanestro, e dalla decisione di Draymond Green, dolorante al polpaccio, di essere presente, seppur per onor di firma, nel quintetto base della gara contro i Cleveland Cavaliers di questa notte.

Rischio ruggine

Inutile girarci intorno: quando un atleta reduce da un doppio infortunio e da quasi 31 mesi di stop torna all’attività agonistica, l’entusiasmo e la curiosità di rivederlo in azione si mischiano al timore di ritrovarlo in una versione inevitabilmente arrugginita e, ancor di più, di assistere a eventuali ricadute. Inoltre, per quanto significativo, il ritorno in campo va interpretato come indicazione di massima, primo passo di un cammino che per forza di cose resta incerto. In quest’ottica, al suo esordio sul parquet del Chase Center, Klay Thompson ha lanciato segnali più che positivi, anche perché la partita proposta dal calendario non era delle più semplici.

Gli Warriors arrivavano alla sfida casalinga con Cleveland dopo il primo back-to-back di sconfitte della stagione, arrivato contro le non irresistibili Dallas e New Orleans, e di fronte avevano i Cavs che, al netto delle assenze di lungo e breve periodo, rappresentano una delle sorprese più inaspettate della regular season 2021-22. Più che sul risultato in sé, maturato in una vittoria dei padroni di casa sempre in controllo della partita, gli occhi erano tutti puntati sul numero 11 in canotta bianca. E Klay non ha deluso, dimostrando una fame di pallacanestro alimentata dal lungo digiuno e giocando una gara solida condita da qualche passaggio a vuoto ma soprattutto da momenti in cui ha riportato indietro l’orologio al 2019.

Un canestro non banale dopo due anni e mezzo senza partite e con una dinamica non dissimile da come si è rotto il crociato nel ginocchio sinistro, atterrando con fiducia sui piedi.

Al di là delle statistiche personali - 17 punti con 7/18 dal campo, 3 rimbalzi, un assist e una stoppata in 20 minuti scarsi giocati -, la prestazione di Thompson è risultata incoraggiante prima di tutto nella scioltezza con cui ha riproposto il suo arsenale offensivo, ben più completo di quanto si tenda a considerare, e nell’affiatamento con il resto della squadra. E se sull’intesa con Steph Curry e con vecchie conoscenze come Andre Iguodala e Kevon Looney c’erano pochi dubbi, quella con Andrew Wiggins e ancor di più con Otto Porter ha lasciato intravedere margini di grande crescita.

Tripla a rimorchio sul contropiede: azione che Klay potrebbe replicare a occhi chiusi.

La ruggine è viceversa affiorata negli aspetti del gioco più strettamente legati alla condizione atletica, dalla lentezza nei rientri difensivi alla fatica nel tenere sugli accoppiamenti difensivi contro avversari di stazza maggiore (uno degli aspetti più sottovalutati della sua versatilità difensiva per rendere sostenibile lo small ball di coach Steve Kerr), ma si tratta in ogni caso di situazioni nelle quali, in attesa di recuperare il ritmo-partita ideale, il mestiere e l’intelligenza tattica di Thompson possono compensare la limitata reattività. Quanto al resto, qualora ce ne fosse bisogno, Klay ha tenuto a ribadire che la lunga assenza non ha influito sulla sua memoria muscolare e sulla discreta abilità nel mirare a canestro.

Meccanica di tiro non intaccata dalla lunga attività, a quanto pare.

Arma in più

Il reintegro a pieno titolo di Thompson, seppur diluito in quello che sarà un minutaggio prevedibilmente limitato nei prossimi mesi, apre agli Warriors, già protagonisti di una regular season fin qui eccellente, nuove e ancora migliori prospettive. Banalizzando si potrebbe dire che con Klay a pieno regime i Dubs potrebbero trovare in un giocatore solo – e in una versione ancora più efficace – ciò che in questa prima parte di stagione hanno avuto sui due lati del campo rispettivamente da Jordan Poole e Gary Payton II, ovvero un’arma offensiva da affiancare a Curry e un difensore in grado di prendersi cura dell’esterno avversario più pericoloso. A beneficiare del ritorno in campo di Thompson potrebbe essere innanzitutto l’altro Splash Brother, protagonista di un 2021 strepitoso ma altresì gravato da responsabilità che pesano sulla sua efficienza al tiro (42.2% dal campo e 38.7% da tre, per distacco le peggiori percentuali in carriera). È prevedibile infatti che la sola presenza di Klay migliori la qualità dei tiri presi da Curry, contribuendo così ad aumentare quella complessiva dell’attacco di Golden State (ad oggi 11° su 30 per offensive rating).

La sola presenza di Klay nell’angolo apre a Curry la via verso il ferro.

Il rientro di Thompson consentirà poi a Steve Kerr una maggior flessibilità dal punto di vista tattico, fattore non secondario perché in grado di contenere i rischi derivanti da una fase offensiva che nelle ultime due stagioni gravitava interamente attorno alle prestazioni di Curry. Con gli Splash Brothers sul parquet gli Warriors potranno riproporre la soluzione sperimentata a inizio del ciclo vincente con Iguodala come playmaker de facto, resa letale dall’aggiunta di Durant e ora affidata a Wiggins e Porter – oltre ovviamente a Green – in cui sia Curry che Thompson iniziano l’azione lontano dalla palla allargando così il campo e mandando in seria difficoltà le difese avversarie, mai davvero abituate a fare fronte a così tanta attività lontano dalla zona delle operazioni.

Con la difesa preoccupata dai movimenti degli Splash Brothers si aprono spazi e Wiggins ne approfitta.

Se non è rotto, non aggiustarlo

Come detto, gli Warriors che hanno appena ritrovato Thompson vantavano senza di lui il miglior rercord della lega e quindi, in linea teorica, l’innesto di un elemento del calibro del cinque volte All-Star potrebbe alterare gli equilibri di una squadra già lanciatissima perché, come recita un vecchio motto parecchio popolare negli Stati Uniti e spesso citato in casi simili, “if it ain’t broke, don’t fix it”. Qui, tuttavia, il rischio di compromettere la linearità del percorso della squadra appare minimo. Un po' perché Thompson, nonostante la lunghissima assenza, è parte integrante, anzi parte fondativa di quel sistema che gli Warriors, dopo qualche tentennamento durante la scorsa stagione, hanno riabbracciato con successo negli ultimi mesi. E un po' perché Klay è l’epitome del giocatore altruista, portato quasi per natura a sacrificare gloria personale e ego sull’altare del successo di squadra, senza richiedere per sé palloni o, ancor peggio, palleggi.

Di certo però ieri notte non è stato timido: “18 tiri in 20 minuti, non è cambiato niente!”, classic Klay.

Certo, le incognite non mancano, dalla tenuta fisica dopo lo stop di due anni e mezzo alla spada di Damocle della pandemia che incombe su Golden State come sul resto della lega, ma nel frattempo la partita contro Cleveland ci ha restituito uno dei protagonisti più amati nella NBA degli ultimi anni. Adesso, per il giocatore e per gli Warriors, inizia una lunga battaglia che nelle aspettative di dirigenza, proprietà e tifosi dovrebbe durare almeno fino al prossimo giugno inoltrato. Una battaglia che Klay Thompson, tra le altre cose provetto scacchistica, si giocherà mossa dopo mossa, con la voglia di recuperare il tempo perduto ma anche con la pazienza di chi ha avuto la forza di attendere un momento che sembrava non arrivare più e che ora vuole assaporare ogni azione, ogni pallone giocato, ogni canestro.

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