The Mother’s Day Massacre. Chissà se il devastante 112-88 con cui Boston ha annichilito i Sixers in gara-7 di semifinale della Eastern Conference passerà alla storia così. 38 anni dopo il Memorial Day Massacre – la batosta impartita dai Celtics ai Lakers in gara-1 di finale, il 27 maggio 1985. Memorial Day, appunto. A Boston è cambiato tutto da allora: giocatori, palazzetto, costo della vita. Persino i cannoli di North End, dicono, non sono più gli stessi. Ma a essere rimasta immutata è la sete di sangue per serate del genere. A farne le spese, con interessi salatissimi, sono i Philadelphia 76ers di Doc Rivers: l’uomo che era alla guida dei Celtics quando vinsero il titolo per l’ultima volta nel 2008. E che ora rischia seriamente di doversi trovare un altro lavoro, dopo una sconfitta che in molti, e senza torto, hanno già descritto come embarrassing. Imbarazzante.
Così come imbarazzante, ma in un senso completamente diverso, è stato il dominio di Jayson Tatum. Che con una prestazione di quelle che entreranno dritte nella storia ha fatto a pezzi la difesa dei Sixers dal primo all’ultimo minuto. 25 punti alla pausa, 17 in un terzo quarto di pura onnipotenza, 51 a fine partita. Record di sempre in una gara-7 di playoff NBA, superando i 50 di Steph Curry di due settimane fa. Un mostro che a Philadelphia continueranno a sognarsi, assieme ai tanti altri che hanno sgonfiato le speranze dei Sixers in questi ultimi dieci, dolorosissimi anni.
La perfezione
Pulito. Elegante. Devastante. Se la padronanza dei fondamentali offensivi di Jayson Tatum non è perfetta, ci si avvicina infinitamente. Se ne sono accorti, una volta di più, i Sixers. Che dopo essere stati puniti dalle sue prodezze durante la regular season, sono stati messi a ferro e fuoco per l’intera durata di gara-7. Contro la sua completezza offensiva non c’è stato nulla da fare. Un passo troppo vicino, ed ecco una comoda entrata. Un passo troppo lontano, ed ecco il canestro da fuori. Un cambio con un piccolo, e arrivava il canestro in post basso o una delle sue già iconiche partenze dorsali inarrestabili. Un cambio con un lungo, ed era il momento del marchio di fabbrica: il tiro in arretramento dopo un palleggio laterale, seguito dall’immancabile ciuff della retina. Per due volte in fila, in faccia a Joel Embiid. E così, con movenze felpate eppure discrete — tanto eleganti quanto poco appariscenti — il tassametro del suo tabellino ha continuato a correre. Con costanza impressionante. Ma più dei numeri, è stata la qualità delle sue giocate, nella pianificazione e nell’esecuzione, a lasciare tutti a bocca aperta. Come un sofisticato computer, è sembrato riuscire sempre a calcolare la decisione che massimizzasse il profitto per l’esito del suo uno contro uno, calcolando in tempo reale tutte le variabili del caso. Dove andare, come cambiare mano, dove arrestarsi, come concludere. Sempre un passo avanti rispetto alla difesa. Come un videogioco impostato al livello di difficoltà massimo, sostanzialmente inaffrontabile per chiunque provasse a sfidarlo.
E dire che la partita di ieri è arrivata dopo una serie difficile. Da cui l’ex Duke esce nettamente ingigantito, ma in cui non sono mancati i momenti di affanno. A partire da gara-2, chiusa con 7 punti in soli 19 minuti, frenato da problemi di falli precoci. O lo scarico fantasma per Marcus Smart nell’ultimo possesso del supplementare di gara-4, arrivato con quel mezzo secondo di ritardo che ha impedito un tiro in tempo utile, tenendo in vita i Sixers nella serie. E infine quella che poteva essere la vera serata da incubo, in gara-6. Sviluppatasi in forma di un continuo litigare col canestro — questoil suo tabellino dopo tre quarti — e proseguita con un graduale insorgere del panico, come testimoniato da un paio di giocate di confusione totale nel momento peggiore dei Celtics, quando i Sixers sembravano aver messo le mani sulla partita e sulla serie.
Chissà cosa si sarebbe detto di lui se Boston avesse perso quella partita: sarebbe potuto essere l’incidente di percorso sulla strada della gloria o la serata che ne avrebbe macchiato per sempre la carriera? Tatum, però, ha pensato bene di uscire dalla crisi con 4 triple e un ultimo quarto da 16 punti, regalando gara-7 ai compagni, lasciandoci col dubbio. Quello che viene consegnato alla storia sono invece i canestri a raffica dell’ultima, decisiva vittoria. La pulizia del gesto tecnico. La retina che si gonfia. I sorrisi. Quella con i Sixers era una sfida importante per l’ex Duke. Per le sorti della sua stagione, certo. Ma anche per cementare il proprio ruolo come stella assoluta della lega. Quel tipo di superstar la cui sola presenza basta a rendere una squadra competitiva per il titolo, a prescindere dal contesto. Per la risposta definitiva dovremo attendere le prossime settimane, ma quello lanciato nella serata di ieri è un segnale estremamente forte.
Collasso e imbarazzo
"Collapse"aveva titolato il Philadelphia Inquirer dopo la bruciante sconfitta di gara-6. Una partita che i Sixers avevano in controllo, mentalmente e tatticamente, prima di smettere improvvisamente di giocare. Subendo lo schiaffone del ko proprio quando avrebbero dovuto sferrarlo. E collasso è stato anche in gara-7, seppur con modalità diverse. E, se possibile, infinitamente peggiori. Difficile descrivere la prestazione sfoggiata dalla squadra di Doc Rivers nel secondo tempo di gara 7 — o meglio, a partire da metà del secondo quarto. Un crollo talmente imbarazzante da rendere inutile qualsiasi tipo di considerazione tattica. Nel momento cruciale della stagione, Philadelphia ha smesso di giocare sotto tutti i punti di vista: mentalmente, tecnicamente, emotivamente. Infilzati a ripetizione dalle prodezze di Tatum, i Sixers hanno risposto con oltre 6 minuti (!) di assoluta siccità offensiva, non riuscendo neanche - in buona parte dei possessi - a toccare il ferro. Non si è nemmeno trattato di sbagliare tiri; è che i tiri non sono proprio arrivati. Men che meno dai due giocatori che avrebbero dovuto essere i punti di riferimento.
Da Embiid e Harden ci si aspettava leadership, o quantomeno disperazione. E soprattutto la capacità di inventarsi le giocate che colmassero le evidenti lacune dei Sixers nei confronti degli avversari. E invece, al momento del dunque, è arrivato il nulla assoluto. Inqualificabile Harden, incarnatosi nell’ennesima versione di Bad Game James già mostrata ripetutamente durante la serie. Invisibile Embiid, tenuto lontano dal canestro dalla sapienza di Al Horford, e completamente incapace di creare problemi alla difesa dei Celtics che lo ha raddoppiato sbadigliando, inducendolo all'errore. E così, abbandonati dai propri leader, tutti i Sixers sono andati rapidamente a picco. Condannando i propri tifosi a un’uscita di scena imbarazzante, indegna di una stagione giocata per lunghi tratti su buoni livelli.
E dire che l’inizio di Philadelphia era stato promettente. Non che la squadra di Doc Rivers avesse fatto vedere chissà quali prodezze, ma almeno era riuscita a fare tutto il contrario di quanto ci si aspettava, riuscendo comunque a issarsi avanti nel punteggio fino al +9. Tra le cose buone: una difesa finalmente difficile da battere uno contro uno; aiuti perfettamente sincronizzati; PJ Tucker che infila piazzati dall’angolo come se fosse Klay Thompson. Tra quelle meno buone: Harden in versione fantasma deleterio che scarica alla prima occasione possibile invece di arrivare al ferro; Embiid che prova ad emularlo, riuscendoci piuttosto bene; opportunità in transizione buttate via. Contro dei Celtics inspiegabilmente letargici — Tatum e Robert Williams a parte — era bastato per prendere il comando delle operazioni e dare l’impressione di potersela quantomeno giocare. Ma si era pure insinuato il dubbio che, con le proprie stelle fuori partita, un andazzo del genere non fosse sostenibile. E infatti, alla minima scrollata da parte dei Celtics, il castello di sabbia è crollato. "Generational Choke Job" twittavano già vari tifosi dei Sixers nel tardo pomeriggio. Sprizzando un livello di negatività che sarà pure stato esagerato in molte occasioni passate, ma è parso perfettamente adeguato a quanto successo ieri.
Sliding doors
In una serie durata sette partite e con continui ribaltamenti di inerzia, difficile attaccarsi a un episodio particolare. Soprattutto considerando che cinque delle sfide sono terminate con una netta vittoria di una o dell’altra squadra. Eppure, in mezzo a mille spunti tattici ed emotivi, c’è un istante che rimane impresso. Quello in cui James Harden si lancia in contropiede, sale in terzo tempo e, forse timoroso della stoppata di Jaylen Brown, si fa scappare via la palla. Sarebbe stata una palla persa come un’altra, se "il Barba" non avesse colpito con una gomitata l’avversario, rimediando un fallo flagrant di tipo 1.
Siamo a metà secondo quarto, con i Sixers avanti 35-27. Si arriverà alla fine del terzo periodo sull’’88-62 Celtics: un 61-27 di parziale che restituisce, seppur vagamente, l’idea del dominio dei padroni di casa. Non è certo stato quel singolo momento a cambiare le sorti di una partita in cui nulla ha funzionato per Philadelphia. Ma rimane un frammento di cui ci si ricorderà, anche perché piuttosto rappresentativo delle punte abissali toccate da Harden nelle proprie serate negative. Sia dal punto di vista tecnico che, soprattutto, mentale. Nel gioco delle sliding doors, dei destini che avrebbero potuto invertirsi, l’episodio chiave per il Celtics sarebbe stato il rocambolesco canestro e fallo di PJ Tucker alla fine di gara-4. Che con un movimento goffo — come i vecchi con la panciera che sudano al campetto — riesce ad accaparrarsi il rimbalzo su un tiro che non aveva nemmeno toccato il ferro, e a convertirlo nei tre punti che avrebbero pareggiato una partita ormai persa. In un mondo in linea con i desideri dei tifosi dei Sixers, quel canestro esteticamente così brutto avrebbe potuto essere il simbolo della rinascita, delle prime finali di conference dal 2001 a oggi. E invece ha comportato solo l’ennesima illusione. Di quelle che infligge sofferenza, e inaugura l’ennesima estate di rimpianti.