Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Marco D'Ottavi
I Golden State Warriors sono ancora vivi
24 apr 2023
24 apr 2023
La quasi morte e successiva rinascita dei campioni in carica.
(di)
Marco D'Ottavi
(foto)
IMAGO / USA TODAY Network
(foto) IMAGO / USA TODAY Network
Dark mode
(ON)

Doveva essere proprio Harrison Barnes? Per molti il finale di gara-4 tra Golden State e Sacramento ha avuto il retrogusto - dolce o amaro, dipende da che parte state - delle storie imperfette. Lui, che della dinastia degli Warriors è stato il pezzo fallato, quello sacrificato sull’altare dello star-power (o, meglio, di Kevin Durant), poteva chiudere (per sempre?) uno dei più incredibili cicli sportivi della nostra contemporaneità, se non per vittorie almeno per impatto culturale. E invece la sua tripla sulla sirena per mandare Sacramento avanti 3-1 nella serie di primo turno di playoff è stata diabolicamente sputata dal ferro.

«Per favore, non entrare» dirà di aver detto - ma forse piuttosto pensato - Andrew Wiggins mentre il tiro di Barnes produceva la sua parabola.

Due a due, quindi, e tutto rimandato in una serie che promette di crescere ancora di intensità e spettacolo e che ieri ci ha regalato la partita più bella dei playoff fino a questo momento. Doveva essere proprio Harrison Barnes è una domanda legittima, non solo per la catarsi, ma anche per la partita in sé: non è di certo il giocatore a cui vuoi far prendere l’ultimo tiro, quello decisivo per spaccare in due una serie, la prima che la tua squadra gioca in 17 anni, soprattutto se hai in squadra De'Aaron Fox, che ha appena vinto il premio di Clutch Player of the Year. E qui viene il diavolo sotto forma degli Steph Curry e dei Draymond Green, sotto forma di quel detto banale, ma in fondo un po’ vero come ogni detto banale, che i campioni non muoiono mai, nonostante ieri - sera nostra, mattinata loro - sembrasse vero proprio il contrario. Ma ripartiamo dall’inizio, più o meno: Sacramento e Golden State arrivavano a gara-4 con un carico di storie invidiabile, se lo sport è la cosa che vi piace. Due franchigie quasi all’opposto nel sentimento popolare - elitari e vincenti gli Warriors, popolari e perdenti i Kings - ma a modo loro anche molto simili nella proposta di gioco, anche perché il capo allenatore dei secondi, Mike Brown, è stato assistente di Kerr per sette anni. L’ultima storia, la più fresca, vedeva coinvolti Green e Domantas Sabonis, e una brutta storia di calpestamenti molto dibattuta, forse anche troppo, che era costata una partita di squalifica per il giocatore di Golden State, che rientrava proprio per gara-4.Rientrava, ma partendo dalla panchina. È stata questa la sorpresa, a quanto pare proposta dallo stesso Green e discussa poi con Curry, fino a convincere Kerr: se le cose erano andate tanto bene in gara-3 (vinta facilmente dagli Warriors con un Kevon Looney da 20 rimbalzi e 9 assist) senza di lui, perché toccarle? È stato difficile non vederci anche un aspetto più emotivo, legato all’episodio con Sabonis: nelle ultime 597 partite giocate da Green, solo due volte non era partito tra i titolari. Nel basket la differenza tra titolari e riserve non è così delineata e alla fine Green ha pur sempre giocato 31 minuti, meno dei 42, 39 e 37 di Curry, Thompson e Wiggins, ma più dei 26 di Jordan Poole che aveva occupato il suo posto in quintetto. Tuttavia è impossibile non vedere in questa scelta una scintilla di rinascita per Green e gli Warriors, qualcosa che poi si è riverberato sulla partita non solo per alcune migliori spaziature viste in attacco, ma anche a un livello più profondo, che ha coinvolto soprattutto il loro numero 23, che ha tirato fuori una partita incredibile. Insomma, ci sarebbe tanto da dire su questa serie, anche dal punto di vista tattico, anche oltre la prestazione di Draymond Green. Le rotazioni che si accorciano, l’impatto di Wiggins, l’incazzatura di Klay Thompson per i pochi tiri avuti, la fioritura di Fox, Keegan Murray finalmente presente, la difesa di Davion Mitchell su Curry, l’impegno di Curry per sfuggirne. Ma è difficile uscire dal puro racconto, in una partita che è sembrata un’altalena, tra due squadre che giocano bene e attaccano meglio. Conviene allora andare per immagini, o canestri, come quello di Curry nel primo quarto, in quello che era sembrato il primo tentativo di fuga della partita (ce ne saranno diversi), due punti - anche statisticamente inconvenienti, visto che è un famigerato long 2 - che ci ricordano perché, al di là di tutto, resterà per sempre uno dei più belli da vedere (e dei più rivoluzionari) su un campo da basket.

Una fuga però tarpata da Sacramento, che non solo è rientrata, ma alla fine del secondo quarto sembrava avere l’inerzia dalla sua parte, in vantaggio di 4 punti con 9 triple segnate e con Fox che sembrava semplicemente inarrestabile, seguito a ruota da Murray. Una serie playoff è però - e torniamo alle frasi abusate - una partita a scacchi e la mossa di Kerr, al ritorno in campo, è stata quella di spostare Green su Fox. Una decisione strana, anche perché Wiggins si era ritagliato il suo posto da difensore sul miglior esterno avversario con merito, ma che ha funzionato, perché Green non è solo un genio difensivo, ma è anche il difensore più versatile di quest’era di pallacanestro che ha fatto della versatilità uno dei suoi capisaldi. Gli Warriors hanno vinto il terzo quarto 37-23, dando l’impressione di aver preso - questa volta sì - la fuga giusta. Anche perché quando le cose vanno bene, il loro basket diventa una forma d’arte a metà tra il ricamo e l’architettura.

Warriors being Warriors.

Ma se in questa stagione la squadra di Kerr era solo la sesta migliore a ovest e Sacramento la terza c’è anche un motivo. Sacramento nel quarto quarto, con il suo miglior giocatore in panchina, approfittando di un calo di intensità degli Warriors, ha recuperato 10 punti in tre minuti ricordando a tutti quale è stato il miglior attacco della regular season e segnando con Malik Monk il canestro del 105-106 a nove minuti dal termine. Poi sono arrivati 5 punti in fila di Curry (alla fine saranno 32 con 22 tiri) a rimettere Golden State avanti, per poi continuare con una serie piuttosto assurda di palle perse, ribaltamenti, giocate difensive fuori di testa, lay-up sbagliati, classici momenti da playoff basketball. Le due squadre si sbracciano, combattono, mettono i loro corpi al servizio dello spettacolo, ma la partita non si schioda dall’incertezza, fino ad arrivare agli ultimi quattro minuti e mezzo.

Quattro minuti e mezzo che vi consiglio di recuperare nella sua interezza, pause comprese.

Che cosa raccontare? Un floater coi polpastrelli di Fox in testa a Looney; una tripla di Thompson uscendo da un blocco pin-down; una stoppata di Wiggins; un assurdo rimbalzo offensivo di Mitchell, con palla persa subito dopo, diventata una rubata volante di Monk e due punti facili sempre per Mitchell; il challenge perso da Kerr per un blocco in movimento di Looney che avrà un’importanza capitale. Ogni azione è diventata una piccola storia a sé, ma nessuna più dei possessi difensivi di Green. Rimesso in campo con due minuti e spicci sul cronometro, il 23 degli Warriors è diventato Baresi a Pasadena, Cannavaro a Berlino (o, essendo basket, forse dovremmo citare alcune partite difensive dei Rodman, dei Garnett, dei Leonard o dello stesso Green, che di certo non è nuovo a queste cose). Con i suoi avanti 124-121, accoppiato con Sabonis su una transizione di Sacramento, Green è prima scivolato su Barnes per contestarne la penetrazione al ferro e poi, sul successivo tentativo di rimbalzo offensivo di Sabonis, lo ha stoppato come fosse la cosa più facile del mondo (e poi gli ha urlato in faccia, chiudendo a suo modo i conti con l’episodio di gara-2).

Ma non è finita qui: dopo aver servito l’assist per il 126-121 a Wiggins, è sempre lui a raddoppiare su Monk che aveva portato Thompson al ferro. Era sembrato l’errore - Monk non avrebbe dovuto affrettare l’azione - che chiudeva la partita, a 43 secondi dalla fine, ma sappiamo che non è stato così. Senza neanche toccare il ferro, la palla finisce a Looney, che sa bene quello che deve fare: lasciarla nelle sapienti mani di Curry, con l’obiettivo di far passare i 24 secondi del cronometro e costruire il miglior tiro possibile. A questo punto però succede l’imponderabile: chiuso da un raddoppio improvviso (tanto che in diretta se lo perde anche la regia) di Barnes e Mitchell, con i compagni colpevolmente tutti lontani, Curry chiama un time-out, il modo più semplice per uscire dai guai in queste situazioni. Se hai un time-out però. Se non ce l’hai, come nel caso di Golden State, che lo aveva perso chiamando il challenge qualche minuto prima, succede che gli avversari ottengono un tiro libero e il possesso successivo. E visto che questa partita non poteva chiudersi così facilmente, Sacramento non solo ha segnato il libero del -4, ma al secondo tentativo - dopo che Green aveva tolto la palla dalle mani di Fox, facendola finire tra quelle di Barnes, la cui tripla aveva scheggiato il ferro - era riuscita a riportarsi a -1 con una tripla di Fox, sparata con la mano di Green in faccia. Dopo tocca a Curry, ma il suo floater si spegne sul primo ferro e sembra una premonizione. Sopra di uno, con 10 secondi da giocare e la palla in mano agli avversari, la dinastia degli Warriors ha davvero tremato. Una sconfitta avrebbe portato la serie sul 3-1, con poche o nulle speranze di rimonta. E un’uscita così netta al primo turno avrebbe portato gli Warriors a discutere la loro stessa essenza, se continuare con questo core oppure rompere il giochino, che comunque non costa poco.L’ultimo possesso si può spiegare in tanti modi: l’intelligenza di Curry nell’uscire su Fox per sporcarne il palleggio; il tempismo di Green nel raddoppiare il giocatore più clutch dell’NBA; il close-out disperato di Curry. I due giocatori più importanti della dinastia che insieme ne difendono la sua sopravvivenza. Allo stesso tempo si può dire che Sacramento ha avuto un tiro aperto per vincere la partita con un tiratore da tre onesto, uno scenario che non capita spesso quando si tratta dell’ultimo tiro in una partita dei playoff sul campo semi-inviolabile dei campioni in carica. Green dirà che è stata una loro scelta, quella di non dare un isolamento a Fox ma piuttosto lasciare un tiro aperto a qualcun altro. Se quel qualcun altro - che il destino ha voluto fosse proprio Harrison Barnes, che tra l’altro ha una sua storia personale con Green - avesse segnato, sarebbe stata la fine per loro. «Ma non l'ha fatto. Ha funzionato», ha sentenziato Green. Ha funzionato e gli Warriors sono ancora vivi per raccontarlo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura