
C’è una brutta metafora, che però calza a pennello agli Indiana Pacers di questi playoff: il pugile è alle corde, eppure è ancora in piedi. La squadra di Carlisle ha avuto la straordinaria capacità di non lasciarsi mai abbattere completamente dagli avversari, di rimanere attaccata alle partite anche nei momenti più difficili, segnando una tripla dall’angolo per ridurre lo scarto da -17 a -14, eseguendo il giusto set offensivo per tre azioni consecutive, trovando tanti punti nel momento in cui di solito le partite si impantanano.
Questa è la spiegazione razionale, se vogliamo trovarla, a tutte le epiche rimonte portate a termine dai Pacers. Ma, contro gli Oklahoma City Thunder, sembrava semplicemente impossibile fare qualcosa di simile, lasciarsi scappare la partita tra le dita per poi riprenderla al volo nel finale. Se la metafora è il pugilato, OKC è un peso massimo. La forza dei suoi pugni è inaudita, e ne sanno qualcosa Memphis, Denver e Minnesota, che quando hanno mollato un minimo hanno finito per perdere le partite con scarti storici in questi playoff.
E invece i Pacers lo hanno fatto di nuovo, e - ancora una volta - lo hanno fatto in maniera apparentemente inspiegabile: su 48 minuti di partita, sono stati in vantaggio per appena 0.3 centesimi di secondo. Gli ultimi 0.3, ovviamente. Nell’ultimo quarto i Pacers hanno rimontato uno scarto di 15 punti in 9 minuti e mezzo alla miglior squadra della NBA, quella con una difesa che rimarrà nella storia di questo sport.
La scena se l’è presa, e ormai non può essere un caso, come non lo era nelle altre volte in cui è successo, Tyrese Haliburton, capace di segnare il canestro del sorpasso con la spietata lucidità dell'assassino, andandosi a prendere l’ultimo pallone dopo l’errore di Shai Gilgeous-Alexander e cercando, e trovando, il punto esatto in cui prendersi il tiro decisivo. Quanto sarà stato storico questo tiro lo sapremo tra un po’, intanto è il tiro che ci regala una serie combattuta, o quanto meno più aperta dei pronostici della vigilia.
Ma questa vittoria va molto oltre la capacità di Haliburton di segnare i tiri decisivi, di cui dovremmo discutere in un’altra sede. Parte dalla palla a due: dopo due minuti e mezzo Indiana perdeva 7-0. Un parziale a inizio partita non è così tragico nel basket, ma con OKC partita a razzo e l’arena che faceva un gran baccano, Indiana avrebbe potuto impantanarsi fin da subito, anche perché costruire un tiro contro il quintetto dei Thunder, con Hartenstein brutalmente rimpiazzato da Wallace, sembrava un incubo. E invece Indiana è rientrata fino al 10 pari, con calma, approfittando dell’unico spiraglio che aveva a disposizione, il mismatch di Siakam, più grosso dei suoi marcatori, per trovare un paio di canestri facili.
Perché, per il resto, niente è stato facile per Indiana. La difesa di OKC è stata uno spettacolo: a fine primo tempo aveva forzato 19 palle perse agli avversari, il numero più alto mai registrato in un primo tempo delle Finals da quando viene raccolto questo dato. E soprattutto contro una squadra che in questi playoff, di media, perdeva 12 palloni a partita.
Eppure anche in un primo tempo in cui hanno perso una caterva di palloni, in cui OKC ha tirato 19 VOLTE in più (54 a 35 tiri) e neanche così più male (37% dal campo, contro il 42.9% di Indiana) sono rimasti attaccati alla partita, rientrando negli spogliatoi sotto di 12, uno scarto appena sopra la doppia cifra che, nella NBA di oggi, sicuramente non è piacevole, ma neanche così tragico.
In questo articolo su una delle rimonte di Indiana, avevo scritto che veniva la tentazione di usare l’abusato termine di "resilienza" per spiegare questa squadra. Ma la gara di ieri ha messo in chiaro come sia piuttosto la capacità di saper trovare risposte da tutti nel momento del bisogno. Nel primo tempo sono stati i canestri raccolti dalla spazzatura di un disastroso T.J. McConnell (miglior marcatore di Indiana nel primo tempo, ma con un on/off pessimo), o le due triple di Toppin, tutte e due contestate, dopo che aveva perso tre palloni e sembrava semplicemente non poter stare in campo. O, appunto, la pazienza di trovare Siakam sotto canestro, di continuare a eseguire il proprio gioco nonostante dall’altra parte rendevano tutto impossibile. Quando perdi così tanti palloni è difficile continuare a credere nel proprio piano, e invece Indiana ha continuato a farlo.
Nel secondo tempo Indiana è riuscita a limitare le palle perse. Non è riuscita a colmare lo scarto, ma - anche grazie all’imprecisione di OKC, tolto SGA - è riuscita a rimanere nella partita, senza affondare come sembrava dovesse fare da un momento all’altro. Se Dort metteva la tripla del +13, Toppin rispondeva con quella del -10, se Holmgren faceva saltare l’arena con una schiacciata, Haliburton rispondeva pochi secondi dopo. Col passare dei minuti, però, se lo scarto era accettabile, sembrava semplicemente incolmabile, sempre per quella storia che OKC è una difesa diversa da tutte le altre.
Certo, per rientrare c’è voluto quel po’ di fortuna che serve sempre: la tripla di tabella di Myles Turner dopo un side-step onestamente non la puoi spiegare, e neanche disegnare a tavolino; così come non potevamo immaginare che Nembhard, uno da una decina di punti a partita in NBA, avrebbe segnato una tripla in step-back dopo aver ubriacato SGA per ridurre lo scarto da -6 a -3 a due minuti dalla fine di una partita delle Finals. O che dopo la stoppata assurda di Dort, la partita non sarebbe tornata di nuovo nelle mani di OKC.
Questa ennesima rimonta, mi sembra, confermi non solo la bravura di Carlisle come allenatore, qualcosa che - comunque - era già confermata dal suo lavoro, ma anche la bontà del basket che ha voluto costruire a Indiana. Un basket fresco, che coinvolge tutti, che si basa sulla fiducia reciproca e sulla ricerca del miglior tiro, a prescindere dalle gerarchie o dai contratti. Questo basket collettivo, che può avere dei limiti, è però balsamico per i giocatori, perché sanno che anche nelle difficoltà saranno in grado di avere un tiro buono, e il loro compito è segnarlo o passarla al compagno che ne avrà uno migliore.
È un tipo di fiducia che sta portando avanti i Pacers, che gli ha permesso di vincere anche gara-1 delle Finals, nonostante sia difficile dire siano stati la migliore squadra in campo, o che siano la più forte. Dall'altra parte OKC deve guardare ai suoi errori, sia in campo - le percentuali di quelli che non si chiamano SGA devono essere migliori - sia in panchina, dove alcune scelte di Daigneault sono apparse quanto meno cervellotiche (come dare 4 minuti alla matricola Ajay Mitchell, o rinunciare da subito al quintetto con Hartenstein e Holmgren).
La notizia, in ogni caso, è che abbiamo delle Finali, e che saranno combattute. È una bella notizia: nessuno pensava davvero a Indiana come a una rivale credibile per OKC, ma lo sport ce l'ho ha insegnato più e più volte: chi è già morto non può morire due volte.