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Gli Indiana Pacers hanno fatto innamorare tutti
05 giu 2025
I segreti della squadra che proverà a fermare OKC alle Finals.
(articolo)
8 min
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IMAGO / UPI Photo
(copertina) IMAGO / UPI Photo
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Nello stato dell’Indiana, solo due cose sono veramente importanti: la 500 Miglia e la pallacanestro. La prima di queste non è però esattamente accessibile a tutti ed ecco spiegato il motivo per cui in ogni città, in ogni angolo dello stato si trova un canestro, anche in posti minuscoli come French Lick, il piccolissimo paese nella contea di Orange dove è cresciuto Larry Joe Bird, di cui molti credo avranno sentito parlare. Non necessariamente, però, questa passione si è sempre trasposta nel mondo NBA, anzi: i Pacers nascono come franchigia di punta proprio della rivale ABA, prima di essere assorbiti nel 1976, e il vento per loro ha iniziato a cambiare solo negli anni ‘90, con Reggie Miller come icona e l’apice dei risultati sportivi raggiunto forse in due sconfitte: quella del 1998 in Gara 7 contro i Chicago Bulls e soprattutto quella delle Finals 2000, in cui Shaquille O’Neal pasteggiò agilmente sui lunghi proprio di Larry Bird, questa volta in campo nelle vesti di allenatore.

Con la fine di quella era, gli Indiana Pacers sono sempre stati visti come l’esempio perfetto di squadra, come si direbbe sui social, “mid”, mediocre, con pochi e sporadici picchi (in entrambi i versi) ma una realtà consistente e, per questo, noiosa agli occhi dello spettatore medio.

Tutto ciò è però cambiato drasticamente negli ultimi due anni e ha trovato il proprio apice in queste settimane, con le sorprendenti (forse non per tutti) vittorie contro i Cleveland Cavaliers e i New York Knicks, che sono valse ai ragazzi di Rick Carlisle un biglietto per le Finali NBA. Nell’Anno del Signore 2025, per la prima volta nella loro storia, gli Indiana Pacers sono una delle squadre più “cool” del panorama cestistico: difendono, corrono, sono belli da vedere, divertenti, allenati benissimo e guidati da uno dei giocatori più esaltanti e unici che, anche in un’epoca florida di talenti come quella odierna, si possano trovare in giro per l’NBA.

Come se non bastasse, hanno anche completato le tre rimonte più assurde mai viste ai playoff, e tutte e tre in questa postseason.

Dopo essere stato votato dai suoi colleghi come “giocatore più sopravvalutato della Lega”, in un recente sondaggio, Tyrese Haliburton deve infatti essersi messo in testa di smentire uno ad uno tutti quelli che gli avevano affibbiato questo epiteto, disputando fino ad ora dei playoff cristallini. Spiegare il suo modo di giocare a chi non l’abbia mai visto è particolarmente complesso, il parallelo più immediato, per quanto blasfemo, sarebbe quello con Magic Johnson, una point-guard che alza i ritmi, spinge sempre in transizione, produce tiri facili per i compagni e in grado di sfruttare la taglia per ottimizzare gli angoli di passaggio. Il paragone, tuttavia, forse più attinente è quello con il Chris Paul visto ai Los Angeles Clippers, parallelo che fra l’altro torna anche in chiave numerica.

La prima cosa che salta all’occhio guardando il tabellino di una partita di Haliburton è il numero bassissimo di palle perse, solo 1.9 a partita in questi playoff, a fronte di 9.8 assist, che gli valgono tra l’altro il primato assoluto nella lega. Tyrese ha ormai reso un’arte quella specifica fattispecie tecnica odiata dagli allenatori di tutto il mondo: il passaggio in salto. Non si contano le volte in cui in una partita, dopo aver preso un vantaggio e letto la difesa, salti senza avere un bersaglio (ma sapendo che uno ce n’è), eppure incredibilmente, nove volte su dieci, la palla arriverà nelle mani di un compagno libero pronto a stracciare la retina o scuotere il ferro.

C’è un motivo se questa pratica viene sconsigliata da tutti e il prodotto di Iowa State l’ha imparato sulla sua pelle, la sua TOV% (ovvero il numero di palloni persi ogni cento possessi gestiti) da inaccettabile è andata decrescendo ogni anno dal 2020, segno di una maturità e comprensione del gioco che si è evoluta in maniera costante. Questa capacità di massimizzare le proprie opzioni è la principale cifra stilistica del suo gioco, caratteristica che si può definire della “non-pigrizia”, ovvero della ricerca in ogni situazione della soluzione migliore, senza mai accontentarsi di quella più comoda o banale a livello di spesa (fisica e mentale) richiesta.

Saper fare la scelta giusta, giocare nella maniera corretta, è molto più difficile nei finali di partita, è un assioma che osserviamo in tutte le squadre NBA. Tutte tranne i Pacers, che (anche) grazie alle doti di Haliburton, riescono sempre a produrre situazioni che vadano oltre il semplice isolamento o P&R centrale. Finali come quello di G1 contro i Knicks, con Nesmith da sei triple in 4 minuti e il tiro che rimbalza sul ferro ed entra per forzare il supplementare (con annessa, iconica esultanza/citazione a Miller) sono solo il meritato premio della fortuna.

Questi i 10 giocatori che hanno aggiunto più “possibilità di vittoria” alla propria squadra nel clutch time, Haliburton guida con ampio vantaggio.

Questa peculiare superstar ha fatto perfettamente scopa con il ritorno nel 2021 di Rick Carlisle sulla panchina dei Pacers, dopo essere già stato assistente fra il 1997 e il 2000. Il coach campione NBA con i Mavericks nel 2011 è indiscutibilmente una delle più fini menti cestistiche in circolazione (e da anni anche fin troppo sottovalutata, nda) e ha modellato la squadra, anche contro alcuni suoi convincimenti, a immagine e somiglianza dei suoi componenti principali, nascondendo sotto un ritmo martellante molte delle lacune tecniche che, analizzando il roster dei Pacers a livello individuale, risultano abbastanza vistose. “Ritmo” è indubbiamente la parola d’ordine, ma non “ritmo” in senso forsennato, al contrario un ritmo alto ma quasi “scientifico”.

Nelle idee di Carlisle la transizione, specie la transizione primaria, si può e deve utilizzare quando c’è possibilità di trarne un concreto vantaggio, il che si traduce nell’usarla anche da canestro subito, se questo per esempio è arrivato da una guardia nei pressi del ferro (che inevitabilmente lascia i suoi in sottonumero) ma non utilizzarla ciecamente ad esempio quando è invece un lungo ad aver preso una conclusione da vicino, o ancora di più se il tiro è arrivato da uno degli angoli. È una tendenza ben riscontrabile nei numeri: Indiana non è stata in top-5 per pace (il numero di possessi giocati in una partita) in stagione regolare (era 7°), e se nei playoff è terza, le sue cifre, 98.44, sono più vicine ai Detroit Pistons quarti che non a quelle dei loro prossimi avversari, gli Oklahoma City Thunder primi. 

Quindi: ritmo sì, ma con criterio, e soprattutto ritmo anche nell’esecuzione a metà campo, I Pacers entrano nel loro attacco prestissimo, senza buttare secondi di cronometro, e lo fanno con convinzione, prendendo il primo tiro disponibile se buono, ma dandosi lo spazio di poter avere una seconda e anche terza opzione in caso di difficoltà, tutto quello che, per citare i loro ultimi avversari, ai Knicks è mancato totalmente. 

Normalmente un modo di giocare di questo tipo porta con sé anche degli svantaggi, se Indiana riesce infatti a contenere il numero di palle perse grazie alle doti di Haliburton, le ultime due serie con Knicks e Cavaliers hanno messo comunque in mostra le mancanze difensive, e ancor di più la sostanziale rinuncia ad andare a rimbalzo offensivo, situazione di gioco dove invece concedono tantissimo agli avversari (per dare un numero, in gara-1 e gara-4 Mitchell Robinson ha raccolto il 25% degli errori dei compagni), compensata però dall’enorme fisicità messa in campo da tutti, che ha permesso loro di sopravvivere anche alle multiple possibilità concesse agli avversari.

Gli Indiana Pacers sono “cool” non solo per i principali attori in campo ma anche per un cast di supporto in grado di soddisfare il palato cestistico più raffinato. Cosa c’è di più bello per una persona che vive a pane e NBA di vedere la pressione a tutto campo di Nesmith? O vederlo passare sui blocchi come fosse etereo rimanendo incollato a Brunson? Cosa può ammaliare più di un giocatore poetico e cerebrale come Nembhard? O di vedere un Toppin trasformato da schiacciatore di professione a protettore del ferro secondario con ottimi istinti?

E poi c’è la storia di Myles Turner, 10 anni in NBA, 10 anni sui blocchi di partenza, il primo nome ad apparire in tutti gli ipotetici scambi di ogni finestra di mercato di qualsiasi squadra, adesso probabilmente destinato a una carriera tutta con la stessa maglia e giocatore fondamentale per la prima apparizione alle Finals della franchigia dopo 25 anni.

Sembra impossibile ma in tutto questo cast degno di un film di Robert Altman, ancora non abbiamo citato colui che ha sollevato il premio di MVP di queste finali di conference (non a caso intitolato a Larry Bird): Pascal Siakam. Poco più di un anno fa, dopo l’eliminazione per mano dei Celtics, era stato sicuramente (e discutibilmente) il giocatore più criticato, complice anche il pacchetto necessario per portarlo in Indiana (Bruce Brown Jr, Jordan Nwora e tre future prime scelte al draft NBA). Tacciato come limitato tecnicamente e inadatto (“capper” si direbbe in gergo) a una pallacanestro vincente, perlomeno come secondo violino. Ora, Siakam è l’arma tattica più importante in mano a Carlisle, quella in grado di sparigliare le carte a quasi tutti i matchup: offensivamente troppo grosso e lungo per essere accoppiato con gente come Hart o Strus, troppo rapido per giocatori come Towns e ormai affidabile anche nel tiro dalla media distanza; difensivamente in grado di cambiare agilmente su tutti i ruoli e ancor più pericoloso come battitore libero in aiuto. Sulla legittimità del premio si potrebbe discutere all’infinito, per chi vi scrive lo avrebbe meritato Haliburton, ma nella sostanza poco cambia.

I Pacers sono finalmente assurti al ruolo di Cenerentola del mondo NBA - che ha definitivamente voltato le spalle ai Thunder, rei di essere ormai troppo forti per stare simpatici -, hanno fatto innamorare tutti e si sono guadagnati un invito al ballo più prestigioso. Ora sta a loro capire se questa è la loro mezzanotte, è stato tutto bello ma finisce qui, oppure se, per la terza volta consecutiva, saranno in grado di ribaltare tutti i pronostici e regalarci uno dei titoli più inattesi della storia NBA.

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