
Hanno vinto i più forti. È il più classico dei cliché che si ripete in ogni finale di stagione ma mai come quest’anno è la descrizione perfetta di quello che abbiamo visto accadere. In dei playoff NBA che per larghi tratti sono sembrati una gara di sopravvivenza, alla fine a portare a casa il titolo è stata la squadra che dall’inizio, dalla pre-stagione, ha dimostrato di “meritare” (per quanto un’espressione del genere possa valere nella pallacanestro o nello sport in generale) questo anello. L’ottantaquattresima vittoria stagionale dei Thunder, prima squadra dal 1997 a mettere insieme così tante vittorie e un titolo, è arrivata però nel modo più dolceamaro possibile.
Impossibile, infatti, non passare per quello che di fatto è stato il crocevia di questa gara 7, ovvero il momento in cui, con 5 minuti e 2 secondi rimasti sul cronometro del primo quarto, Tyrese Haliburton, che fino a quel momento non aveva minimamente sentito la pressione del palcoscenico più prestigioso del mondo NBA (nove punti con 3 triple), è finito per terra in lacrime, in una scena sinistramente simile a quella che abbiamo visto con Kevin Durant nel 2019. Che il polpaccio non fosse al 100% era cosa certa ma nessuno, nemmeno il più accanito dei tifosi Thunder, si sarebbe auspicato un epilogo di questo tipo.
Inutile lanciarsi in ipotesi su come sarebbe andata con lui in campo, fatto sta che Indiana questa partita l’ha comunque giocata, eccome se l’ha giocata, anzi, ha fatto di più, l’ha condotta per due quarti, chiudendo il primo tempo addirittura sopra di un punto, subendo solo minimamente un contraccolpo psicologico che avrebbe tagliato le gambe anche alla più stoica delle squadre. Poi la stanchezza ha preso il sopravvento, per la prima volta in tutta questa meravigliosa corsa playoff i Pacers, che non avevano mai perso la loro identità, che sembravano aver decifrato l’avversario, si sono fermati. Hanno smesso di giocare, affidandosi solo a un McConnell commovente, di fatto gettandosi nelle braccia della difesa a metà campo dei Thunder, che a loro volta non si sono fatti pregare nell’aprire verso metà terzo quarto il parziale che ha deciso la partita.
Quello che è mancato a Indiana, e cioè qualcuno in grado di guidare l’attacco nella partita più difficile in cui farlo, lo ha dato ai Thunder Shai Gilgeous-Alexander, l’MVP, che, al di là di una prestazione numerica con luci e ombre (poco efficiente al tiro ma eccellente in tutti gli altri ambiti, come abbiamo già visto altre volte fare a una superstar in gara-7), non ha smesso mai di attaccare e di fare la scelta giusta, fidandosi dei compagni quando era necessario farlo, dodici assist ed una sola persa sono lì a testimoniarlo, e mettendosi in proprio nei momenti di difficoltà, anche a costo di forzare qualche tiro (8/27 per lui dal campo).
Nella partita più importante della sua carriera, il canadese ha mostrato ancora una volta di aver fatto definitivamente l’ultimo passo, quello che ti porta dall’essere un giocatore fortissimo all’essere un giocatore fortissimo e vincente, un passo prima di tutto mentale, che ha ovviamente a che fare con degli aspetti tecnici e che arriva al termine di un processo di crescita lungo anni.
Con questa vittoria, e l’inevitabile premio di MVP delle Finals ritirato dalle mani di Adam Silver, SGA si unisce a Kareem Abdul-Jabbar, Michael Jordan e Shaquille O’Neal come unico giocatore ad aver messo in bacheca titolo di miglior marcatore, MVP della stagione regolare e, appunto, MVP delle Finals nella stessa annata, e diventa il primo da LeBron James nel 2013 a mettere insieme gli ultimi due, quasi un miracolo sportivo nell’ultra equilibrata NBA contemporanea.
Per i Thunder però è anche la vittoria del collettivo, lo ha ribadito fino alla noia Sam Presti (il vero grande architetto di questo successo) nel post-partita e lo hanno dimostrato in campo i protagonisti. Jalen Williams e Chet Holmgren, gli “altri” due, in primis, hanno dato il loro enorme contributo. Il primo offrendo la solita dose di playmaking secondario e aggressività al ferro, il secondo mettendo a tacere una parte delle critiche che lo avevano preso di mira nei giorni della vigilia, sfoderando la miglior prestazione offensiva della serie e mettendo un tappo sul canestro nel momento in cui è stato scavato il solco.
Anche gli aggiustamenti tattici proposti da Daigneault hanno avuto ovviamente un ruolo fondamentale. Offensivamente è quasi totalmente sparito il tradizionale pick&roll centrale in favore di un utilizzo massiccio del cosiddetto “spain” (situazione in cui il rollante a sua volta riceve un blocco cieco sul taglio), sono aumentate esponenzialmente le ricezioni di Shai al gomito o in post-medio e con queste anche il finto gioco a due con J-Dub, giocato con il chiaro obiettivo di togliere Nembhard dalle piste di SGA.
Difensivamente invece la parola chiave è stata “pressione”, pressione costante sulla palla e blitz sul palleggiatore per togliergliela dalle mani, anche a costo di rischiare cambi in emergenza o rotazioni impossibili sotto al canestro, meglio due punti facili e una rubata l’azione successiva, piuttosto che due tiri costruiti dall’attacco. Avendo a disposizione giocatori come Caruso, Dort (che ha comunque messo anche triple pesanti) e Wallace, questo tipo di difesa per i Thunder vale sempre la candela: è stato così per tutta la stagione, ed è stato così anche in gara-7 (21 palle perse alla fine da Indiana, anche se sarebbe forse più giusto dire riconquistate dai Thunder). Sparita inoltre totalmente ogni parvenza di doppio lungo, presente in buona sostanza solo nei primi minuti e poi sostituito giustamente da quintetti più fluidi, mobili e in grado di cambiare in ogni situazione.
Dall’altra parte i Pacers hanno provato a buttare il cuore oltre l’ostacolo per l’ennesima volta. Se Oklahoma City è un grande collettivo con dei picchi, Indiana è il più plastico esempio di cosa voglia dire giocare a pallacanestro “the right way” per dirla alla Larry Brown, nel modo giusto. Con un terzo del talento grezzo degli avversari, si può tenere in piedi una serie come questa solo sfruttando al massimo tutte le caratteristiche dei singoli, il che per i Pacers è significato correre in ogni situazione possibile, continui tagli a 45 gradi per agevolare il penetratore e sfruttare entrambi gli estremi di tutti i mismatch, non dando mai un singolo punto di riferimento.
Se c’è una situazione paradossalmente perfetta per ritrarre questa squadra è l’isolamento in punta di McConnell verso fine terzo quarto, con tutti gli altri che si fidano a lasciare un pallone di quella pesantezza nelle sue mani. A questi livelli ci arrivi con i giocatori, con la tattica ma anche con la cultura e questa è cultura, nel senso più puro del termine (è finita con una stoppata subita ma cosa lo diciamo a fare).
Difficile fare le pulci a Carlisle dopo una serie allenata in maniera esemplare, però è giusto dire che tenere in panchina Siakam e Nembhard in quel frangente, nel momento in cui gli altri hanno iniziato a tracimare, in cui la squadra non sa da che parte girarsi, ha pesato non poco, mentre la scelta di allungare la panchina, dando fiducia a Bradley e Bryant di contro non ha pagato affatto.
Nove anni dopo abbiamo potuto finalmente riassaporare una gara-7 di Finale NBA, questa volta non c’era LeBron James, non c’erano 73 vittorie e non c’erano i cosiddetti “big market”, eppure Thunder e Pacers, nonostante tutto, hanno messo in mostra il più alto livello di pallacanestro che si possa vedere nell’NBA del 2025, una pallacanestro fatta di sfumature e precisione, dove a farla da padrone non sono più le singole superstar, ma il come e in che contesto vengono inserite. Vincere un titolo è sempre una questione di mille fattori e la fortuna è inevitabilmente uno di questi, aggrapparsi all’infortunio di tizio o caio è un esercizio divertente ma ci dice molto poco a livello di analisi, anche della singola partita, gli asterischi non sono contemplati.
Gli Oklahoma City Thunder sono campioni NBA, punto. Punto, non asterisco.