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Dario Vismara

La squadra più lucida vince gli anelli

Golden State è tornata avanti nelle Finals sfruttando le debolezze storiche di Boston.

A cinque minuti dalla fine del terzo quarto di gara-4, in pochi probabilmente avrebbero scommesso non solo sulla vittoria di quella partita dei Golden State Warriors, ma sul 3-2 nella serie. Dopo aver vinto gara-3 in maniera convincente, i Boston Celtics sembravano aver trovato il modo di soverchiare gli Warriors dal punto di vista atletico prima ancora che tecnico o tattico, soffocando tutte le loro opzioni offensive e mandando completamente fuori giri Draymond Green fino a renderlo una presenza ectoplasmatica in campo. Anche se il vantaggio era solamente di sei lunghezze dopo una tripla dall’angolo di Derrick White, l’inerzia della serie sembrava ormai indirizzata nelle mani dei Celtics, ai quali bastava non commettere errori in attacco per continuare a poter schierare la propria difesa a metà campo e spegnere sul nascere qualsiasi velleità degli avversari.

 

Quello che è successo dopo è storia nota: Steph Curry ha segnato 19 punti negli ultimi 17 minuti di partita battendo praticamente da solo tutti i Celtics (che ne hanno accumulati 26), segnando una tripla più incredibile dell’altra per rispondere colpo su colpo a ogni tentativo di affondo dei padroni di casa, tirando fuori una prestazione che occupa già uno dei posti più alti della sua incredibile carriera. Ma la sua prestazione mostruosa per riprendersi il fattore campo non sarebbe servita a niente se gli Warriors non avessero trovato un paio di canestri fondamentali di Klay Thompson nel quarto periodo e, soprattutto, se Andrew Wiggins non avesse tirato fuori le due migliori prestazioni della sua carriera nel momento più importante della sua vita.

 

Il Wiggins che abbiamo sempre aspettato

Non sono passati neanche tre anni da quando su queste stesse pagine eravamo pronti a bollare la carriera di Wiggins come finita tanto quella di Jabari Parker, il suo contraltare alla numero 2 di quel Draft del 2014 in cui il canadese venne chiamato con la prima scelta assoluta. Pensare che adesso è un membro fondamentale di una squadra arrivata a una sola vittoria dal titolo NBA è follia, eppure è realtà. È da tutti i playoff che Wiggins gioca con una costanza di rendimento impronosticabile: solamente due volte ha segnato meno di 10 punti (di cui una la gara-5 contro Memphis che Golden State ha “dato su” praticamente subito) e in ben sei occasioni ha superato la doppia cifra a rimbalzo, l’aspetto del gioco in cui più sta facendo la differenza per gli Warriors.

 

A 27 anni di età Wiggins si è scoperto rimbalzista offensivo d’élite: in questi playoff ha più che raddoppiato le sue medie in carriera a rimbalzo d’attacco e ha procurato una quantità cruciale di secondi possessi agli Warriors sin dalla serie contro Memphis, sfruttando i suoi mezzi atletici per punire le attenzioni che le difese devono riservare a Curry, Thompson e Jordan Poole, sembrando costantemente il giocatore più fresco in campo, come se la stanchezza che invece sta appannando la vista degli altri giocatori in campo non possa appartenergli.

 

 

 

Proprio quando pensi di esserti salvato e di avere tolto un possesso vincente all’attacco di Golden State, Wiggins spunta fuori dal nulla e anche con un po’ di malizia prende il pallone per depositare due punti facili. Questi due rimbalzi offensivi nel quarto periodo di gara-4 sono stati fondamentali per riprendersi il fattore campo.

 

Tutti i canestri di Wiggins portano con sé un certo fattore demoralizzante per le squadre avversarie. Come se non fosse abbastanza dover cercare di inseguire Curry, Thompson e Poole dietro tutto il vortice di finte, blocchi, passaggi consegnati e tiri dal palleggio di cui sono capaci, arriva anche questo atleta che contro una difesa schierata non è mai stato davvero in grado di creare un tiro efficiente, ma che contro una difesa già mossa o contro il peggior difensore perimetrale in campo è in grado di segnare con percentuali sopra la media, arrivando come e quando vuole nei suoi posti preferiti in campo. Ed è facile bollare quei canestri come “Vabbè, ha segnato, bravo lui, ma almeno non hanno tirato gli Splash Brothers, pensiamo ad attaccare”, ma sommati a fine partita scavano quel solco che fa la differenza tra la vittoria e la sconfitta e ti fanno dire: “E adesso come fermiamo anche questo?”.

 

I suoi canestri di gara-5 arrivano tutti sfruttando le praterie messe a disposizione dalla presenza in primis di Steph Curry, che ha firmato la sua miglior partita nella serie in termini di assist chiudendo con 8 (di cui tre proprio per Wiggins). La fiducia con cui attacca Derrick White dal palleggio, poi, è frutto della carta bianca che coach Kerr gli ha lasciato, raccogliendo i frutti del lavoro mentale fatto per metterlo il più a suo agio possibile.

 

Al lavoro in attacco e a rimbalzo Wiggins ha ovviamente aggiunto anche la difesa. Pure in una serata in cui Jayson Tatum ha fatto più canestro del solito chiudendo con 10/20, di gran lunga la sua miglior gara della serie, il canadese non si è demoralizzato e ha finito per costringerlo a tiri sempre più articolati per superare le sue braccia protese. In questa serie la stella di Boston ha segnato solo 12 dei 48 tiri da due punti tentati fuori dalla restricted area e il merito è in gran parte di Wiggins.

 

 

 

Nel momento di massimo sforzo dei Celtics, che erano riusciti a tornare davanti nel punteggio, Wiggins sfrutta il vantaggio di energie che ha nei confronti di Tatum per forzare dei tiri molto complicati che arriva anche a sporcare. Da notare sull’ultimo possesso, in cui lascia Tatum in consegna a Draymond Green dopo averlo accompagnato in area, la lucidità e lo sforzo fisico che effettua per tagliare fuori Robert Williams III.

 

Wiggins sta riuscendo ad avere un impatto gigantesco sui due lati del campo anche in una serie in cui non sta tirando bene da tre punti (7/28 finora di cui 0/6 questa notte), riuscendo a compensare con ben 26 canestri realizzati nel pitturato, dove riesce a fornire una verticalità che i due lunghi “veri” Green e Looney non riescono a fornire. All’interno di una serie in cui comunque Golden State sta segnando solo 93.4 punti su 100 possessi a metà campo, il suo atletismo, la sua fisicità e la sua freschezza atletica hanno scavato un solco dal quale i Celtics non sono ancora riusciti a riemergere, soprattutto per i loro problemi offensivi.

 

L’attacco di Boston non può permettersi certi errori

Come già sottolineato dopo gara-3, l’intera cavalcata ai playoff dei Celtics è spiegabile attraverso il dato delle loro palle perse: quando ne hanno commesse 16 o più, hanno sempre perso (0-7); quando sono rimasti sotto la soglia delle 15, hanno quasi sempre vinto (14-2). Gara-5 non ha fatto eccezione: Tatum ha perso un pallone banale al primissimo possesso della partita e già lì si poteva capire che non sarebbe stata una serata efficiente dal punto di vista offensivo, chiudendo alla fine con 18 palloni persi che sono valsi 22 punti agli Warriors (contro le 6 di Golden State che sono valse 9 punti ai biancoverdi). È un ragionamento semplicistico, ma spiega bene la realtà delle cose: quando i Celtics non giocano con lucidità nella metà campo offensiva, sono ampiamente capaci di battersi da soli, sprecando anche un’opportunità irripetibile come uno 0/9 da tre punti di Steph Curry in casa sua ai playoff (non era mai successo) all’interno di un 9/40 di squadra o i tre falli di Kevon Looney nel primo tempo che hanno lasciato spazio a Robert Williams per fare quello che voleva.

 

 

 

Ma al di là del numero, è anche il modo in cui arrivano le palle perse dei Celtics a essere demoralizzante. Un conto è perdere palloni cercando di essere aggressivi in avvicinamento a canestro, e un conto è perderli prima ancora di aver anche solo superato la linea dei tre punti, quando ancora si stanno eseguendo semplici “passaggi di trasmissione” per entrare in uno schema. Arrivati a gara-5 delle finali NBA ci si aspetterebbe che certi errori vengano ridotti al minimo, invece continuano a essere sanguinosamente presenti nell’attacco di Boston.

 

Le ultime due in particolare sono arrivate per giocate furbe di Jordan Poole che è riuscito ad andare sotto pelle ai Celtics, che a un certo punto della ripresa hanno cominciato a giocare più contro gli arbitri che contro gli Warriors. Al di là della bontà o meno di certe chiamate, che interessa il giusto, il modo in cui Boston ha perso compostezza e lucidità nel secondo tempo dopo aver prodotto lo sforzo per tornare avanti (vincendo finalmente un terzo quarto in questa serie) è sia comprensibile che ingiustificabile. I Celtics sono reduci da due serie combattutissime arrivate fino a gara-7 contro Milwaukee e Miami e per questo è comprensibile che arrivino senza energie mentali nei quarti periodi come successo nelle ultime due gare, per di più senza poter contare sulla panchina visto che Derrick White (orribile sui due lati del campo), Grant Williams (mai entrato davvero in questa serie) e Payton Pritchard (in panchina per tutta la ripresa) hanno realizzato appena 4 punti. 

 

Allo stesso tempo però stiamo parlando delle NBA Finals e certi errori, se vuoi vincere il titolo, non sono più ammissibili – non solo in termini di palle perse, ma anche di lucidità nello scegliere quale difensore attaccare e come attaccarlo, spesso sprecando tanti secondi sul cronometro per andare a cercare l’accoppiamento favorevole. In particolare, la ricerca di Steph Curry su ogni possesso – che aveva pagato grandi dividendi soprattutto in gara-3 – sembra far perdere fluidità all’attacco di Boston ogni partita che passa, anche per il grande lavoro che il due volte MVP sta facendo nella propria metà campo.

 

Nonostante siano sotto per 3-2 nella serie, i Celtics hanno ancora tutte le possibilità di ribaltare la situazione: hanno una gara-6 da giocare davanti al proprio pubblico tra tre giorni per forzare una gara-7 in trasferta che loro hanno già vinto al turno precedente superando Miami. Quello che è certo però è che non possono riuscire a vincere le prossime due partite continuando a commettere errori di superficialità come quelli visti nelle ultime due gare, sprecando il vantaggio tattico che avevano creato nelle prime tre partite e mezza.

 

 

 

 

Per molti versi Marcus Smart è il giocatore barometro dei Celtics ancora più di Tatum e Brown, oscillando costantemente tra l’essere il giocatore più lucido e meno lucido in campo. In questi due possessi è bravissimo a far pagare la presenza in campo di Nemanja Bjelica, costringendo Steve Kerr al timeout per toglierlo il prima possibile. Poi però ha contribuito anche lui al festival delle palle perse con 4.

 

A 48 minuti dal titolo

Boston è riuscita a non affondare dopo uno 0/12 da tre punti per cominciare la partita (record negativo della storia delle Finals, anche se poi è arrivato uno 0/14 di Golden State) ma ha avuto il demerito di non capitalizzare sull’8/8 della parte centrale della ripresa, lasciando abbastanza vita agli Warriors che sono rimasti in piedi grazie soprattutto a Klay Thompson e Jordan Poole. Le altre due opzioni offensive di Golden State sono riuscite a sopperire alla serata no di Curry piazzando un paio di canestri a testa — tra cui l’incredibile buzzer beater di Poole sulla sirena del terzo quarto — all’interno del parziale di 21-6 a cavallo dei due quarti. Canestri che hanno riacceso il Chase Center e stabilizzato l’attacco di Golden State, permettendo alla loro difesa di schierarsi a metà campo e tenere su un lato l’attacco di Boston, grazie anche al lavoro di un Gary Payton II sempre più imprescindibile per gli equilibri della serie.

 

Per usare un paragone tennistico, gli Warriors ora hanno il primo match point a disposizione per vincere il quarto titolo in otto anni, anche se devono rispondere al servizio sulla racchetta dei Celtics che in casa avranno tutta la spinta del loro pubblico per riportare la serie a San Francisco. Dopo il cambio di quintetto operato da Steve Kerr in gara-4 inserendo Otto Porter in quintetto — mossa che ha permesso più che altro di gestire con più facilità il minutaggio di Kevon Looney e distribuire meglio i minuti in campo con Draymond Green —, le opzioni tattiche a disposizione delle due squadre sono ormai finite: si tratta di eseguire con lucidità, interpretare i momenti delle partite, gestire le energie e commettere il minor numero di errori possibili. Tutti aspetti sotto i quali gli Warriors sono stati la squadra migliore in campo nelle ultime due gare, dandosi due chance per ritornare in vetta alla NBA.

 

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).