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La dura vita del beat writer
25 ott 2018
Cosa significa seguire una squadra NBA ogni singolo giorno ovunque negli Stati Uniti?
(articolo)
16 min
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“Mi puoi passare una clip di Brandon Ingram che gioca il pick and roll?”.

Insospettito, guardo l’orologio. Sono le 11:42 del mattino in Italia, quindi le 5:42 a Boston. Dopo aver inviato la clip, conoscendo il soggetto, gli chiedo se sia ancora sveglio oppure se sia già sveglio. Dopo qualche secondo, mi arriva la seguente risposta: “Sto lavorando ad un pezzo… 3.300 parole su Boston e i Lakers”. Senza che io gli chieda altro, arriva la seconda parte del messaggio, che recita: “Lo so, lo so. Son troppo eccitato per il pezzo che sto scrivendo, non sarei comunque riuscito a dormire. E non so nemmeno se il pezzo sia buono. Potrebbe essere delirante lol”.

Il giornalista in questione è Fred Katz, allora beat writer per MassLive, testata con sede a Boston e segue i Celtics, oggi a The Athletic - sezione di Washington DC. È il 15 agosto, per tutti dovrebbe essere piena off-season NBA, ma non per chi vive on the beat.

3 contro 3

La NBA è lo sport americano che genera più interazioni sui social, specialmente su Twitter e Instagram. Tifosi, addetti ai lavori e persone che hanno sviluppato una dipendenza psicologica (come il sottoscritto), passano svariate ore della propria giornata a controllare ogni singola notizia riguardante la NBA in generale o sulla propria squadra del cuore, aggiornando compulsivamente le app dello smartphone.

La “colpa” di questo mastodontico flusso di notizie è principalmente di quei giornalisti — i beat writers, appunto — che seguono in modo quasi simbiotico una franchigia NBA: solitamente viaggiano seguendo la squadra ovunque negli Stati Uniti; partecipano a tutte le attività extra basket; sono presenti alla fine di ogni sessione di allenamento; hanno accesso agli spogliatoi prima e dopo la gara e posti riservati per guardare le partite a pochi metri dal campo. Questo rapporto privilegiato spesso porta ad avere accesso a informazioni riservate, punti di vista privilegiati e a una comprensione unica di come funziona una squadra NBA.

Ma è davvero oro tutto ciò che luccica? Per scoprirlo ho chiesto a tre di loro — oltre a Fred Katz, anche Royce Young di ESPN ed Erik Horne di NewsOk — di raccontarci i dettagli del loro lavoro, dagli orari folli alle mense dei palazzetti, da Twitter a quei momenti in cui si è faccia a faccia con Russell Westbrook e dove una parola sbagliata può fare la differenza tra una risposta monosillabica e una da “prima pagina”.

Giorno della partita, in trasferta, alla vigilia di un back-to-back. Qual è la tua routine?

Horne: Mi sveglio qualche ora prima della sessione di tiro e mi assicuro di avere pronte le domande che devo fare. Leggo un po’ di notizie sulla NBA in generale e magari scambio qualche messaggio con il responsabile media dei Thunder per organizzare le interviste.

Partecipo alla sessione di tiro, faccio la classica conferenza con gli allenatori e annoto mentalmente ciò che vedo. Nel caso ci sia qualcosa di interessante, dopo aver trascritto le parole dei protagonisti, posto qualche news. Poi pranzo, piccolo sonnellino pomeridiano e, a seconda della città, magari mi prendo qualche ora per visitarla.

Arrivo all’arena in tempo per le conferenze pre-partita degli allenatori e intanto preparo i files da inviare post-partita. Dopo le parole con Billy Donovan, vado a curiosare negli spogliatoi e parlo con qualche giocatore off the record. Mangio un boccone e poi vado al mio posto per seguire la partita. Invio il mio articolo al suono della sirena e poi corro alle interviste post-gara, il tutto tentando di scrivere in piedi o seduto su quel che trovo. Ancora interviste negli spogliatoi - io e Russell Westbrook ci facciamo una piacevole chiacchierata - e poi mi dedico al podcast post-partita. Quando torno in hotel magari cerco di guardare nuovamente qualche azione, ma più spesso cerco solo di andare a mangiare un boccone veloce e dormire per poi alzarmi presto e volare verso la prossima città.

Katz: Mi sveglio alle 9:30, giusto in tempo per la sessione di tiro, dove io e gli altri beat writers ci scambiamo le registrazioni e spartiamo il compito trascrivere tutto, così riusciamo a spartirci la parte peggiore del giornalismo sportivo. Twitto qualcosa e poi scrivo per il mio giornale. Rientro in hotel e mi preparo per la partita, cercando di essere lì almeno due ore prima della palla a due. Dopo le parole degli allenatori e le interviste in spogliatoio, faccio ancora trascrizioni prima di cena. Poi, game time. Alla fine della partita mi dirigo a parlare con gli allenatori, ancora nello spogliatoio per catturare qualche frase dai giocatori e… ALTRE TRASCRIZIONI. Tra l’altro, quando la partita è particolarmente combattuta, scrivo due articoli diversi, uno in caso di vittoria ed uno di sconfitta: nessuno leggerà mai quello che non viene usato.

Quella notte, se c’è una partita il giorno dopo, mi tocca una delle innumerevoli notti in bianco. Cerco di viaggiare sempre molto presto per evitare che eventuali ritardi mi impediscano di essere alla partita e fino a oggi mi è capitato una volta sola: appena atterrato ad Atlanta, c’erano due tornado. Tutti i voli cancellati. Non riuscii ad arrivare a Memphis in tempo.

Young: Mi sveglio intorno alle 8 e prendo un caffè — il caffè è sempre la prima cosa— e poi un muffin o simili allo Starbucks più vicino. Poi sessione di tiro che, a seconda del fatto che abbia o meno delle interviste in TV, può essere molto rilassato o più intenso. Se nella sessione non capita granché, me ne torno all’hotel fissando Yelp per trenta minuti buoni cercando di capire cosa mangiare per pranzo. Mi alleno un po’ e poi mi porto avanti sugli articoli che sto preparando. Poi partita, post-partita, scrivo qualcosa e ritorno immediatamente all’hotel. Viaggio sempre molto presto, quindi ho sempre tutti i bagagli pronti per essere imbarcati il giorno dopo.

Qual è la cosa peggiore nell’organizzare i propri viaggi? E, domanda bonus: quante miglia hai volato la scorsa stagione?

Horne: Il rimborso spese. Nulla ci va minimamente vicino. Per le miglia dovrei controllare, ho perso il conto tempo fa.

Katz: Il rimborso spese. Mi piace organizzare un viaggio e scegliere l’hotel, ma il rimborso spese il peggio. Non so dirti quante volte abbia detto scherzando (in realtà in maniera serissima) al mio editor di assumere uno stagista e fargli fare i rimborsi.

Young: La cosa peggiore è che Oklahoma City ha un numero limitato di voli diretti. Dover prendere più di un volo per giungere a destinazione è stressante ed estremamente inefficiente. Miglia della scorsa stagione? Tiro a caso: 30.000.

Uno dei momenti cardine della scorsa stagione degli Oklahoma City Thunder.

Quanto di ciò che sai e senti è on record? Violeresti mai il rapporto di confidenza per una news?

Horne: Non un granché. Occhi e orecchie, memoria e creatività sono strumenti più efficaci del tuo registratore e la maggior parte delle cose che vedi e senti sono confidenziali. Raccontare molte di queste cose sarebbe crudele e controproducente per il rapporto con la franchigia e i giocatori. Ma alcune cose hanno valore. Per esempio: quando sono entrato nel tunnel degli spogliatoi a Detroit per vedere meglio cosa si fosse fatto Andre Roberson, i Thunder non erano contenti. Ma il mio giornale non mi paga per stare con le mani in mano, quindi sono andato lì a vedere, pur senza intralciare il lavoro dello staff, ovviamente. Cerco di fare in modo che il lettore si figuri la scena: essere stato lì ha aiutato.

Katz: La maggior parte delle conversazioni sono confidenziali oppure in quella zona grigia dove non è ben chiaro cosa si possa divulgare e cosa no, perciò è sempre meglio chiedere prima. In molti credono che essere un reporter voglia dire rigurgitare informazioni, ma non è questo: occorre costruire relazioni, rapporti di fiducia, in modo da avere accesso ad informazioni che altri non hanno e poi decidere tra queste cosa riportare e cosa no. E spesso lo capisci parlando con le tue fonti trattandole come persone vere, e non come mezzi per arrivare ad una notizia. La maggioranza delle conversazioni fatte nello spogliatoio non riguarda il basket. Riguardano il modo in cui firma Kyle Singler, che per qualche motivo non lo fa in corsivo, oppure Josh Huestis e Carmelo Anthony che tentano di convincermi che Joe DiMaggio fosse ebreo (ovviamente non lo era). Le partite NBA sono meravigliose, ma questa è la parte del mio lavoro che preferisco. Violare la fiducia, per me, è un grosso no, in primis da un punto di vista etico.

Young: Direi 50 e 50. E non c’è nulla che io divulgherei se detto in confidenza. Lo scorso anno, per svariati motivi, ci sono state molte cose, anche grosse, di cui non ho scritto né parlato, ma hanno influito molto sul modo e sulle cose che ho scritto. Quando dico in TV che qualcosa potrebbe succedere, non è mai casuale. Per esempio: ho detto che la firma di Paul George era al 75% a fine stagione. Pochi giorni prima della free agency, ho detto 90%: non deve essere stato troppo difficile leggere tra le righe.

Che tipo di rapporto hai con giocatori, allenatori e dirigenti? È solo professionale oppure va oltre i ruoli?

Horne: Con i giocatori a volte va oltre, ma anche quando succede, è raro che si esca spesso insieme. Personalmente, cerco di evitare di essere troppo invadente, ma dipende molto dalla persona. Si riesce spesso a percepire chi abbia voglia di parlare e chi no già al primo sguardo.

Katz: Deve essere innanzitutto e soprattutto professionale, perché questa è la natura del rapporto: non puoi permettere che il tuo giudizio sia offuscato dal tipo di relazione che hai con una certa persona. Detto ciò, si incontrano persone che ti vanno a genio e con cui vai d’accordo. E spesso, queste persone capiscono che quando scrivi e parli di loro, è parte del tuo lavoro discutere dei loro errori così come dei loro successi. Trovare un vero amico può essere assai raro: da una parte, da giornalista, tendi a essere conservativo. Dall’altra, c’è un senso di scarsa fiducia che capisco perfettamente. Quindi può volerci molto tempo ma rimane possibile, e posso dire che personalmente io sono riuscito a creare amicizie vere.

Young: È per lo più professionale, perché c’è un po’ di scetticismo da ambo le parti. Potrebbero pensare che io stia tentando di approfittare della situazione per ottenere qualcosa e io potrei pensare che loro stiano cercando di mandarmi fuori strada su una notizia. Detto ciò, io ho sviluppato alcune amicizie nella lega, cercando di rimuovere le barriere convenzionali e trattare giocatori, allenatori e dirigenti prima come persone, poi come oggetto del mio lavoro. Con loro ho avuto spesso conversazioni senza obiettivi particolari, giusto per il piacere di farle. Tendo di essere autentico e sincero perché credo che le persone si accorgono quando non lo sei.

Entrare nello spogliatoio è stato strano o mi ha messo a disagio? Qual è il momento che più ti ha messo a disagio nella tua carriera?

Horne: Tutte le volte che faccio una domanda a Russell Westbrook e mi accorgo a metà che sto già dando la risposta. E lui, inevitabilmente, risponde: “Ti sei risposto da te, capo/campione!”, oppure mi indica e stop.

Katz: Dopo poche settimane dal mio arrivo a Oklahoma City, ho chiamato Kevin Durant “Fred” durante una conferenza post partita in diretta tv nazionale. In mia difesa, avevo appena cambiato lavoro e, durante le occasioni ufficiali, dobbiamo sempre ricordare la nostra affiliazione. Tutto ciò che riuscivo a pensare era “Non dire Fred Katz, FOX Sports, che figura ci farei?” Quindi ho cominciato a ripetere nella mia testa “Fred Katz, Norman Transcript, Fred Katz, Norman Transcript, Fred Katz, Norman Transcript…”

E quando ho fatto la domanda, ho iniziato dicendo:

“Fred Katz, Norman Transcript.

Fred — ehm, Kevin. [pausa] Non so perché parlo a me stesso.”

Un mio amico quest’estate mi ha mandato una bottiglia con una frase nell’etichetta: “‘Good job, Fred’ - Kevin Durant”, che ovviamente è quello che ha risposto KD alla mia domanda. Beh, pazienza! Ho avuto un sacco di followers dopo quella gaffe: nessuna vergogna.

Young: Ci sono stati molti momenti imbarazzanti nella mia carriera e nell’intervistare Russell Westbrook: è uno che ti fa stare sulle spine. Una volta venne espulso dopo un alterco con Goran Dragic e, conoscendo Russ, sapevo che avrebbe lasciato lo spogliatoio presto per evitare di parlare con i giornalisti. Ero praticamente il solo lì dentro e gli ho chiesto di parlare dell’accaduto. Non andò particolarmente bene, specialmente perché decisi di non indorare la pillola e andare direttamente al sodo, chiedendogli di parlare dell’espulsione. Non ha apprezzato.

Le brutte risposte di Westbrook ai giornalisti oramai fanno parte del suo brand.

Poiché lo fate spesso con ristoranti, hotel, compagnie aeree ed altro, mi fai una top-3 dei giocatori più difficili da intervistare e quella dei giocatori con le risposte migliori?

Horne: Farsi rispondere ad una domanda (anche valida) da Russell Westbrook è difficilissimo. Poi Eric Bledsoe, che non è affatto facile da intervistare. Infine LeBron James perché, come per Kobe Bryant prima di lui, ci sono talmente tanti giornalisti che vogliono intervistarlo che è quasi impossibile avvicinarsi abbastanza per fare una domanda.

Citazioni:

Who me?” – di Carmelo Anthony quando gli ho chiesto se fosse disponibile a partire dalla panchina;

That’s cute.” – di Russell Westbrook, quando commentò la frase di Durant sul giocare con gli Warriors dove i compagni sono “altruisti e amano il basket nella sua forma più pura”;

Ogni volta che Steven Adams dice “swinging at the knees”. (Siamo tuttora dubbiosi sulla traduzione: Adams lo usa per descrivere prestazioni incredibili).

Katz: Westbrook è la risposta ovvia, quindi te ne do una diversa: Billy Donovan.

Billy è molto disponibile, rimane spesso dopo le interviste per parlare con i giornalisti ed è sempre pronto a dare interviste personali. Riesce sempre a rispondere anche alle domande più banali e fidati ho sentito (e probabilmente fatto) domande estremamente stupide. Donovan dà sempre risposte eloquenti e… lunghe. Lunghe è la parola chiave, Donovan non da risposte utilizzabili così come sono. Ascoltandole poi in dettaglio scopri che o non ti ha risposto per davvero, oppure che si è ripetuto spesso. Quindi, occorre sempre chiedere cose estremamente specifiche ed essere pronti ad incalzare con domande successive. Lui rappresenta un tipo diverso di “difficoltà”. I migliori? Steven Adams, Evan Turner, Enes Kanter, LeBron James, Draymond Green.

Young: Ovviamente Westbrook, perché le domande devono essere dirette e precise, altrimenti è inutile chiedere. James Harden è strano. Anche Serge Ibaka è nella lista, soprattutto per la comprensione della lingua, che a volte può essere un problema serio. Fare domande complesse, con più argomenti, è impossibile. Ironia della sorte: Westbrook è anche nella top 3 dei migliori, perché è uno dei giocatori più acuti tra quelli con cui ho avuto a che fare. Kendrick Perkins e probabilmente ìMelo chiudono il mio terzetto

Le statistiche avanzate hanno cambiato il modo di guardare la pallacanestro. Quanto è cambiato il tuo modo di lavorare rispetto a quando hai iniziato?

Horne: Ha cambiato il mio modo di scrivere in meglio, credo. Le analytics ci hanno permesso di guardare il basket da una prospettiva differente e aggiungere contesto al nostro lavoro. Non basta dire “questo giocatore fa pena” o “tira troppo da 3” senza comprendere l’obiettivo del team e l’influenza che hanno le statistiche sul modo di interpretare la pallacanestro di quella squadra. Ha avuto però anche un effetto drastico sui social: spesso ora si valuta un giocatore unicamente rispetto alle statistiche e - quando usate in questo modo, senza considerare altri fattori - credo condizionino troppo le valutazioni.

Young: Mi sono avvicinato alle analytics nel corso della mia carriera, ma ho immediatamente riconosciuto la loro importanza nel dare sostanza alle cose che scrivo. Devo dire che le usavo molto più spesso qualche tempo fa, ma trovo abbastanza noioso scrivere di statistiche avanzate come tema principale, quindi ora le uso come accessorio al tema principale. Credo anche che siano molto più utili per capire quali domande fare che per scrivere articoli veri e propri. Pensate a quando dobbiamo scrivere di un certo quintetto: descrivere la chimica di un quintetto con il Net Rating come nota quantitativa per misurare l’efficacia di quella combinazione di cinque uomini è sicuramente molto meglio e molto più completo rispetto a non farlo.

Katz: Non posso dire che abbia cambiato il mio modo di scrivere, dato che ho sempre apprezzato le statistiche. Leggere Bill James ha avuto una profonda influenza su di me, però anche oggi le analytics influiscono su ciò che scrivo. Le squadre NBA producono statistiche internamente e, spesso, ci forniscono dati estremamente interessanti, soprattutto se riesci a conoscere qualcuno all’interno. Spesso le persone pensano le statistiche avanzate siano concetti complessi quando molte volte non lo sono: tutto dipende da come vengono loro proposte, e su questo noi dobbiamo lavorare molto.

Ultima domanda: viviamo nel mondo di Twitter, la NBA è lo sport più social nel panorama americano. Tu personalmente quanto lo usi e quanto è importante per il tuo lavoro? È difficile avere a che fare con i tifosi?

Horne: All’inizio avere a che fare con i tifosi era assai complicato…poi ho deciso di usare Twitter molto meno. Starci troppo spesso, personalmente, fa più male che bene durante la stagione. È inevitabile che, ogni tanto, si abbiano discussioni accese che diventano immediatamente perdite di tempo ed energie, oppure che si leggano storie assolutamente prive di fondamento che riguardano la squadra che segui e questo può influire sulla tua capacità di giudizio.

Credo che il mio lavoro sia migliorato molto da quando uso meno Twitter. Ovvio che rimanga importante per condividere il tuo lavoro e comunicare gli aggiornamenti della squadra ai tifosi. Può anche essere utile per avere accesso ad articoli, podcast e altri contenuti scritti da altre persone dai quali si può imparare molto. Rimango dell’idea che, in questo caso, less is more.

Young: Twitter è cruciale per il mio lavoro. È il mio quotidiano. Mi informo, creo relazioni, ottengo suggerimenti e inoltre i giocatori usano Twitter e seguono i giornalisti, imparando a conoscerli meglio. Non credo che avrei avuto una buona relazione con Kevin Durant se lui non mi avesse seguito su Twitter. Ha iniziato a “conoscermi” e poi abbiamo costruito una rapporto di persona. Poi non è che passi la mia giornata su Twitter, ma controllo regolarmente per evitare di perdermi qualcosa. Non rispondo spesso e mi interessa poco che i tifosi si arrabbino per ciò che twitto, ad esempio durante le partite. Comunque periodicamente controllo le mie interazioni, perché può essere un buon modo per capire in che direzione si sposta la discussione.

Katz: Se mi seguite su Twitter, sapete che assorbe una parte spropositata della mia giornata. Ma Twitter è estremamente importante e crea dipendenza. Non mi riesco ad allontanare e, anche se sta aiutando la mia carriera, non fa granché bene al resto. Onestamente, non è difficile avere a che fare con i tifosi, anzi direi che è l’opposto: la maggioranza delle interazioni è positiva. Quando prendo in giro i miei followers - ogni tanto capita - di solito mi faccio una risata. Lo so, sono una pessima persona (stronzo non si può dire, vero?).

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