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Uno, nessuno e Dennis Rodman
13 feb 2020
13 feb 2020
Alti e bassi del più grande rimbalzista di sempre.
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28 min
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“La logica vi porterà da A a B; l’immaginazione vi porterà dappertutto”

Albert Einstein

Secondo Platone si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione. Il filosofo greco però forse non aveva immaginato che l’umanità potesse produrre un personaggio camaleontico come Dennis Rodman. Specializzato nelle cortine fumogene e nell’arte della teatralità, pochi atleti di livello hanno cavalcato una serie di alti e di bassi nella vita privata come quelli del nativo di Trenton, pur garantendo durabilità e un atletismo fuori dal comune alla soglia dei 40 anni. La letteratura sportiva si è macchiata di un delitto seriale: ha cavalcato troppo il gossip e gli aspetti coloriti delle varie peripezie favorendo una grave opacità riguardo il suo contributo da Hall of Famer senza neanche stare a pensarci. Una tendenza che non si è mai arrestata e si è evoluta con il tempo generando fenomeni di evidente “acchiappaclick” costruiti per provocare reazioni agli antipodi tra gli appassionati. Un personaggio polarizzante ed estremo che ha finito per restare ostaggio della sua controversa maschera, una sorta di passaporto “Pop” per la celebrità che avrebbe affascinato Andy Wahrol.

Gli ultimi fulgori sul parquet risalgono a circa 25 anni fa e da diverse stagioni i giocatori in attività hanno solo vaghi ricordi del suo stile di gioco e dell’apporto fornito alla generazione del Dream Team. Quello di Dennis Rodman è un nome pesante che resta sullo sfondo, un paragone lusinghiero e un’etichetta appiccicata senza troppa cognizione di causa a grandi rimbalzisti, agonisti in genere e spesso a giocatori sotto la statura media. Ogni tanto una giocata di cattiveria “mercuriale” nei pressi del ferro richiama in vari telecronisti una fascinosa eco con le caratteristiche che lo hanno reso celebre. Ma con buona pace di chi ama fare i paragoni, al momento nessun giocatore è stato cronometrato agli stessi livelli di efficacia difensiva e di resa agonistica. Al tempo stesso il suo alone di interprete moderno ed efficiente stona con il pacchetto minimo di skill richiesto in campo al giorno d’oggi e rende “scivolosa” l’associazione anche con protagonisti poliedrici come Draymond Green.

A pensarci bene, Dennis Rodman resta un pezzo unico.

Un percorso difficile

Rodman incarna molti aspetti del sogno americano, ma come spesso accade il passaggio da ragazzo ai margini a star miliardaria non è stato indolore. La sua storia andrebbe riscoperta per illustrare in modo chiaro e inequivocabile la solitudine che spesso arriva puntuale come un lato oscuro del successo e della ricchezza. Come le foto iconiche di Gregory Crewdson o il famoso quadro “I nottambuli” di Edward Hooper, questo atleta rappresenta in modo esemplare l’inquietudine, l’alienazione e le varie forme di isolamento tipiche della cultura americana. Un disagio comune a molte celebrità sportive (è naturale pensare a Latrell Sprewell) che il nostro protagonista ha cavalcato e trasformato in una sorta di reality show ante-litteram senza confini e in continua evoluzione.

Cresciuto in una famiglia presto abbandonata al suo destino dal padre Philander e di stanza nel New Jersey, si trasferisce con la madre e le due sorelle maggiori a Dallas per inseguire prospettive di vita migliori. Per tutta l’adolescenza sogna il ritorno del genitore fuggitivo e matura un indole introversa e taciturna. Soffre il carattere forte delle sorelle, capaci di conquistare una reputazione di ottimo calibro nella pallacanestro, e spinto da un forte desiderio di emulazione si avvicina con naturale inerzia ai playground - anche se l’interesse non sembra ricambiato. Trascurato dalle grazie di madre natura, per lungo tempo è stato troppo basso e magro per incidere e poco agonista per convincere. Il suo oroscopo è cristallino: scartato o in panchina. Prova a virare sul football con convinzione, ma sempre con gli stessi esiti sconfortanti.

Mamma Shirley non poteva dedicargli molto tempo a causa dei numerosi impegni lavorativi necessari per mantenere la famiglia, ma ha cercato in tutti i modi di colmare i vuoti affettivi di un ragazzo che ha messo a dura prova la pazienza dei consanguinei. Risalire con precisione a quel periodo è un’impresa ragguardevole anche perchè nelle varie biografie i contorni sono stati spesso romanzati con diversi episodi smentiti direttamente dai parenti. Di certo una crescita in altezza tardiva quanto inaspettata (quasi 20 centimetri) dopo il liceo cambia il suo approccio con il mondo circostante, lo trasforma in un dominatore dei campetti locali e ne riscatta gli anni passati in chiaroscuro. Dennis diventa di colpo popolare e, per la prima volta in vita sua, oggetto di attenzioni.

A una statura vicina ai due metri abbina presto una esplosività fuori dal mondo anche per un quattrocentista e un buon feeling per il basket maturato negli anni precedenti grazie all’influenza decisiva delle sorelle. La notorietà in continua ascesa finisce per attirare l’attenzione di università con piccoli programmi cestistici ma grandi ambizioni. La prevedibile offerta accademica cambia un futuro che si prospetta poco entusiasmante e già affollato di spettri di varia natura. A circa 20 anni vegeta apaticamente senza prospettive e ha già macchiato la fedina penale con un furto durante uno dei vari lavori saltuari. Il rapporto con mamma Shirley sempre più teso lo costringe a un periodo senza fissa dimora prima di accettare l’ospitalità del fraterno amico Bryne Rich per inseguire un posto al sole alla Southeastern Oklahoma State University. Si tratta già del secondo giro a livello universitario, perché nella prima avventura aveva già messo in luce una pessima attitudine. Di fatto, è già l’ultima chance.

Rodman però sfrutta fino in fondo l’occasione e dal 1983 al 1986 domina fisicamente in lungo e in largo la NAIA (National Association of Intercollegiate Athletics) più o meno nello stesso periodo in cui si mette in luce anche la stella di Scottie Pippen. Il livello non è certamente tale da conquistare notorietà nazionale: la sua età è quantomeno avanzata per un prospetto (si dichiara eleggibile per il Draft a 25 anni), ma il suo nome è sui taccuini di molti addetti ai lavori dopo aver conquistato il riconoscimento di miglior rimbalzista per due anni di fila. Finisce per attirare le attenzioni dei luciferini Detroit Pistons che, pur dotati di un nucleo di alto livello, cercano giocatori “tosti” in grado di contribuire alle battaglie psico-fisiche con i Chicago Bulls e i Boston Celtics. La sua intensità è talmente magnetica da farlo scegliere molto più in alto del previsto alla numero 27 dopo una serie convincente di provini che fanno girare la testa a molti General Manager.

(Foto di Nathaniel S. Butler/NBAE via Getty Images)

L’uomo giusto al posto giusto

La voglia di emergere e la disponibilità che Rodman offre alla causa della franchigia del Michigan si bilanciano a meraviglia con le attenzioni e la cura che la squadra intera gli rivolge. In particolare coach Chuck Daly si trasforma in una figura paterna: per non lasciarlo da solo con i suoi demoni lo invita spesso a casa per mangiare con la famiglia, anche in occasione della festa del Ringraziamento; Isiah Thomas dosa con efficacia un trattamento sul modello “bastone e carota” e diventa dal principio un punto di riferimento imprescindibile per un ragazzo alla costante ricerca di centri di gravità permanenti; i veterani non gli concedono alcun margine di errore e gli indicano la via del sacrificio sul campo di allenamento e in sala pesi. Rodman, dal canto suo, mette a punto una routine di lavoro di ottimo livello e migliora progressivamente delle skill offensive interessanti, seppur da rifinire con cura. Da giovane è un più che discreto modello di professionalità.

Quella dei Pistons resta a tutti gli effetti la versione più affascinante di un talento fisico multiforme con una capacità quasi innaturale di predire la direzione del pallone, di leggere alla perfezione le linee di passaggio degli avversari e di sporcare situazioni di gioco in cui non avrebbe alcun diritto di cittadinanza. Presenta delle caratteristiche inusuali per un giocatore destinato a coprire entrambi gli slot in ala e impara a sfruttare ben presto una capacità di cambiare il ritmo e di imporre accelerazioni brucianti che sono sconosciute ai contemporanei. Secondo diversi analisti che hanno seguito la lega dalla notte dei tempi, le sue qualità di saltatore sono abbondantemente sottovalutate e fuori da ogni logica. Si dimostra capace di cambiare angolazione del corpo in piena elevazione con facilità mentre la maggior parte degli altri giocatori si limita a una ottima verticalità. La mobilità laterale di livello supremo completa il quadro di un atleta senza eguali.

Nella prima parte della sua avventura da professionista diventano celebri i “blitz” sul lato debole che aiutano a blindare la metà campo di Detroit e la facilità con cui riesce a marcare esterni e giocatori in post con la stessa efficacia. In una NBA compassata e preoccupata di gestire il gioco per le esigenze e il ritmo a scartamento ridotto dei lunghi tradizionali, Rodman è un’iniezione di vitalità che coinvolge pubblico e compagni in modo trascinante. Produce inerzia appena scende in campo e il suo valore aggiunto trascende dalle statistiche che non rendono giustizia al suo contributo. Come si quantifica la sua capacità di apparire all’improvviso per impedire un alley-oop dopo aver contestato il rimbalzo offensivo, per poi attaccare nuovamente il ferro avversario senza soluzione di continuità? Coach Daly lo plasma e disciplina tatticamente in modo progressivo e in allenamento lo lascia alle cure di Rick Mahorn e di Bill Laimbeer. Il corso accelerato di difesa ai limiti del regolamento con tanto di chiavi alla valigia dei trucchi di due celebrati specialisti fa lievitare esponenzialmente il suo potenziale difensivo.

Quei Pistons cambiano diversi paradigmi: sono la prima squadra della storia moderna celebrata per le qualità difensive proprio nel momento di massima popolarità dello Showtime californiano diretto da Magic Johnson e del raffinato impianto offensivo dei Celtics di Red Auerbach. La franchigia stravolge molti aspetti delle regole e introduce dei contatti fisici con un approccio che ricorda più il football che la stessa pallacanestro. Gli arbitri e i vertici della lega si adeguano e non ostacolano più di tanto il mantra di una franchigia che sembra pronta per scrivere nuovi capitoli del rinascimento della palla a spicchi anni Ottanta. Dietro il talento di Isiah Thomas e di Joe Dumars si agita una batteria di totem dal gioco spigoloso, capaci di squisite letture tecniche e di assestare alla bisogna una disinvolta serie di colpi proibiti. In breve tempo con il marchio di fabbrica “Bad Boys” fiorisce una squadra capace di vincere due titoli consecutivi (1989 e 1990), ma incapace di conquistare l’affetto del pubblico e la considerazione dei media. Un altro esempio di etichetta che ha funzionato bene al principio ma poi sbiadito il ricordo di un roster sopraffino.

Rodman è ancora una matricola semi-sconosciuta quando nei playoff del 1987 riceve l’incarico di marcare Larry Bird e, oltre a farsi apprezzare per le gesta sul campo, sale per la prima volta al centro delle cronache con una infelice dichiarazione sul leader dei Celtics. Il riassunto delle sue parole è semplice: «Bird è sopravvalutato perchè è bianco». Questa frase riceve il supporto di Thomas e lo proietta verso la notorietà, ma ha un impatto devastante sulle dinamiche interne della NBA. In piena era Ronald Reagan scoppia una bomba di profondità che contribuisce a isolare definitivamente la franchigia e rinfocola la controversia razziale che da tempo sembrava finita in naftalina. Bird finisce al centro di una ondata di “chiacchiere da barbiere” e viene messo nuovamente a paragone con il ricordo di Rocky Marciano, considerato l’impatto di grande livello con uno sport tradizionalmente appannaggio degli atleti di colore. Buona parte dei giornalisti comincia a bersagliare i “Bad Boys” e la maggioranza degli atleti afroamericani preferisce prendere le distanze con dei temi che sul finire del decennio diventeranno il propellente di molti artisti musicali. Rodman ha più o meno volontariamente marcato un punto di non ritorno della truppa di Daly: il primo inequivocabile segnale della sua totale mancanza di filtro. Raramente una matricola aveva mai osato tanto.

Per affermarsi deve conquistare minuti all’interno di uno dei roster più profondi della storia e passa dai 15 minuti di impiego iniziali alla definitiva celebrità nel 1988-89 con la vittoria del primo titolo e un generoso contributo che va ben oltre la sua metà campo. L’anno precedente aveva già fatto innamorare molti tifosi con sua difesa su Magic Johnson nelle finali poi vinte dai gialloviola. In principio è un giocatore dal rendimento offensivo quantomeno nella media (in doppia cifra al secondo anno) con con una discreta abilità nel convertire a canestro buona parte delle situazioni dinamiche più complicate grazie a un primo passo che diventa sempre più devastante. In una stagione guida persino la classifica della percentuale dal campo, confermando una innegabile efficacia. Nondimeno finisce spesso al centro di risse e di episodi di violenza gratuita ed è ovviamente una delle armi principali delle “Jordan Rules” elaborate da Daly per limitare lo strapotere della stella dei Chicago Bulls. Si prende anche la briga di scaraventare a terra Scottie Pippen nel 1991 firmando uno dei falli più gratuiti e famigerati commessi nella storia dei playoff. L’intimidazione in quel caso non paga e nemmeno la sua feroce intensità è in grado di arginare i talenti di Phil Jackson ormai pronti per spiccare nel volo. Resta comunque il barometro di una delle squadre più significative della sua epoca e il fulcro effettivo della trasformazione da contender di lusso a team di effettivo successo in piena era Magic/Bird/Jordan. In pochi però si accorgono del suo clamoroso peso specifico.

Nel 1990, reduce dal primo titolo NBA, scrive il suo nome nel libro dei record e si aggiudica il premio di Difensore dell’Anno grazie ai 93.8 punti a partita concessi dalla sua squadra e una produzione che sfiora la doppia doppia complessiva. Riesce nell’impresa registrando poco meno di una stoppata e un pallone rubato di media (caso unico nella storia) ma dimostrando lampi di dominio che non lasciano margini di dubbio ai giurati. Si dimostra in grado di vincere quasi ogni confronto diretto con i migliori attaccanti con una durezza mentale e un istinto primordiale che diventano il suo marchio di fabbrica. Porta a un livello superiore il concetto di “giocatore instancabile” e quando gli altri cominciano a rallentare per tirare il fiato lui innesta un’altra marcia con facilità irrisoria. Il riconoscimento è strappato sul filo di lana a un certo Hakeem Olajuwon, capace di vincere allo stesso tempo la classifica degli stoppatori e quella dedicata ai rimbalzisti. Una vittoria ancora più impressionante considerando il ruolo da sesto uomo ricoperto per buona parte della stagione prima di entrare di pura prepotenza in quintetto nelle ultime 42 partite. Durante la conferenza stampa indetta per l’occasione, scoppia in lacrime e lancia pillole del “Rodman pensiero” che cominceranno a fare rumore nell’arco di breve tempo. Replicherà il premio di Defensive Player of the Year anche nell’anno successivo, legittimando le sue qualità anche alla prova della storia.

L’evoluzione di un animo inquieto

Siamo di fronte al picco di universalità di uno dei giocatori “di squadra” più impressionanti che la pallacanestro abbia mai osservato, ma ancora lontani dalla superstar legata a doppio filo al suo personaggio. Sotto molti aspetti quello sembra il suo apice, ma in realtà è solo il principio di un nuovo inizio. Il suo status cresce di pari passo con l’inaridimento di un roster che comincia ad accusare il peso degli anni e di un generoso chilometraggio NBA. Il progressivo sfaldamento dell’organizzazione e il feroce ostracismo verso i Bad Boys in generale e di Isiah Thomas in particolare (che paga a caro il boicottaggio organizzato contro Jordan ai tempi dell’All-Star Game del 1985) accelera un processo irreversibile. Le partenze di Dantley e Mahorn nel corso degli anni gli hanno concesso prezioso minutaggio, ma ha indebolito la grande chimica del roster.

La conquista di un ruolo prominente e la nuova condizione di veterano influente accende spesso delle dispute con la dirigenza che sembra poco interessata al benessere del nucleo storico. Il declino del gruppo e quindi della sua famiglia surrogata ha effetti devastanti su una stabilità precaria e finisce per modificare il suo atteggiamento tanto in campo quanto fuori. Quando Chuck Daly formalizza le sue dimissioni dopo l’uscita al primo turno con i New York Knicks nel 1992, Dennis diventa praticamente impossibile da gestire e piomba in una profonda crisi. Si presenta in grave ritardo al training camp della stagione successiva e ricompare ancora più inquieto del solito dietro la motivazione di un divorzio difficile. Detroit perde completamente il controllo del giocatore.

Rodman ha ormai scollinato le 30 primavere e ha vinto due titoli NBA, ma non avverte la giusta considerazione: il suo mondo è andato in frantumi e non c’è nessuno pronto a raccogliere i cocci. La guerra aperta con i Pistons non lo frena sul campo da gioco e nell’ultima stagione del suo allenatore di riferimento cattura 18.7 rimbalzi a partita conquistando il primo scettro (diventeranno sette consecutivi) della classifica di categoria. Deciso a rinforzare la sua popolarità e monetizzare la seconda parte della carriera, focalizza la sua attenzione sui numeri difensivi come strumento di affermazione personale. Anche nella difficoltosa campagna del 1992-93 colleziona statistiche sotto le plance che scomodano paragoni con il dominio di Wilt Chamberlain, annulla regolarmente gli attaccanti che finiscono nel suo radar ma il suo approccio offensivo diventa erratico e in qualche caso rifiuta persino dei buoni tiri per enfatizzare la sua immagine di specialista. Poco male, perchè senza di lui il gruppo è fermo a un record di 4-15 e sale a un bilancio di 36-26 in sua presenza, con il differenziale dei punti subiti a partita che passa da 112 a 98 punti. In una lega che comincia a flirtare con le statistiche è un valore clamoroso, ma visto il bagaglio di problemi personali attira pochi amatori.

Una giornata in ufficio.

Nel mezzo della stagione la polizia riceve una chiamata a tarda notte da parte di un amico del “Verme” (soprannome che lo accompagna fin dall’adolescenza e dovuto alle sue movenze flessuose mentre gioca a flipper) che denuncia un possibile tentativo di suicidio. Dennis ha lasciato casa in stato confusionale e ha deciso di raggiungere il parcheggio del palazzetto della squadra in compagnia di un fucile sotto il sedile. Il reato non sussiste, ma ormai ha superato il punto di non ritorno nel Michigan. L’episodio secondo le varie biografie rappresenta la sua ideale rinascita e il picco della sua alienazione verso il mondo esterno che lo costringe a comportarsi secondo dei binari prestabiliti che lo rendono infelice. A prescindere dalle motivazioni, la sua fama di principe dei problemi comincia a oscurare la considerazione sul giocatore. Le squadre interessate ai suoi servigi giocano al ribasso, quelle disposte ad accoglierlo a braccia aperte e pronte a proporre contropartite interessanti come Miami gli richiedono una pesante decurtazione del salario. Si parla anche di uno scambio per Richard Dumas, ma il giocatore dei Phoenix Suns viene squalificato per uso di sostanze stupefacenti. Si arriva a un impasse.

Il responsabile del personale di Detroit ha come principale occupazione l’ingrato compito di rintracciare la sua stella che si rifugia nei locali più improbabili. Quando la stampa gli chiede informazioni usa spesso la stessa battuta «La mia prossima mossa sarà quella di stampare la sua foto sui cartoni del latte come per le persone scomparse» e per evitare di rilasciare dichiarazioni persino il suo agente si rende spesso irreperibile. I giornali hanno cominciato a parlare con clamore dei suoi tatuaggi (novità assoluta per la lega, tanto per cambiare) e i professionisti più quotati si scambiano battute e informazioni riguardo il numero effettivo e il loro significato. I giovani che cominciano a scoprire la tortuosa evoluzione della sua personalità, invece, lo eleggono ben presto a beniamino, anche perché Rodman abbandona lo stile dimesso degli esordi e comincia ad adottare un abbigliamento stravagante che miscela elementi androgini e l’uso spregiudicato di colori con degli accessori degni di una regina del nostro avanspettacolo. Funziona a meraviglia. Le riviste di moda maschili lo scrutano con diffidenza ma con il tempo gli riconoscono una genialità e una sensibilità fuori dal comune. Nel 2019 GQ gli ha dedicato una retrospettiva cult.

Alla vigilia della stagione 1993-94 Rodman è disperso tra i tavoli di Las Vegas e diventa irraggiungibile anche per i dipendenti della società di scavi di cui è diventato socio e ha prestato il nome. A salvare una situazione che si è arenata in un pericoloso stallo intervengono i San Antonio Spurs che approfittando della sua familiarità con il Texas e, abituati a gestire personaggi dal passato difficile come John Lucas, lo contattano per sondare le acque. La delegazione nero-argento propone un accordo tra gentiluomini: un deciso cambio di rotta dal punto disciplinare in cambio di aiuto per voltare pagina. Il giocatore accetta con apparente entusiasmo e il primo di ottobre raggiunge la squadra grazie a uno scambio che sorprende gli uomini mercato della lega. Per metterlo sotto contratto si sacrifica il senatore Sean Elliott (di sei anni più giovane), a tutti gli effetti il secondo elemento più importante del roster dopo David Robinson. Gli Spurs si apprestano a mettere in campo una “linea maginot” con due dei difensori più significativi della storia della pallacanestro.

La deriva texana

Robinson è il padrone di casa della franchigia e lo accoglie con tutti gli onori e le attenzioni del caso: lo invita a pranzo, gli suggerisce un radicale cambio di vita e come prevedibile gli parla della fede religiosa e della possibilità di diventare cristiano grazie al suo supporto. La reazione del suo interlocutore non è positiva, come prevedibile. Appare subito chiaro che l’“Ammiraglio” e il “Verme” parlano una lingua diversa, a dispetto della discreta capacità di completarsi dal punto di vista tecnico (fioccano discrete soddisfazioni già al primo anno e l’inserimento nel miglior quintetto difensivo per entrambi). Per mesi un giovane General Manager appena arrivato di nome Gregg Popovich prova invano la ricerca di una sintesi e di un compromesso accettabile, ma Rodman resta una sfinge e anche se il suo contributo sul parquet si attesta su livelli notevoli, resta un corpo estraneo per un gruppo che non riesce ad assecondare il suo stile di vita e gli eccessi sistematici. La squadra attira tifosi neutrali e diventa rapidamente di culto con una regular season di alto livello, ma è troppo fragile.

(Foto di Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images)

Quella di San Antonio è la sua versione più oscura e autodistruttiva, e per combattere la noia di una comunità molto tranquilla inaugura la tendenza dei capelli variopinti. Anche in questo caso i media e il pubblico reagiscono con un gradimento che si fa sempre più marcato, mentre la dirigenza si ritrova sconsolata a osservare lo scompiglio che porta in città la sua relazione con la celebre cantante Madonna. Rodman si allena ancora con scrupolo, ma il suo stile di vita è ormai slegato dalle normali routine e convenzioni della lega mentre la sua immagine di icona pop è diventata internazionale. Quando si presenta alle riunioni di tattica alla vigilia di gare decisive indossando una specie di pigiama di flanella e i classici occhiali da sole specchiati siamo nella piena normalità. Popovich alterna paterna tolleranza a punizioni e multe, ma senza risultato.

Rodman veste la canotta dei texani per apportare idealmente la stessa abnegazione ammirata ai Pistons. Gioca sempre con fierezza, ma ormai ha abbandonato il tagliafuori e gli strumenti da uomo squadra con una mancanza di disciplina tattica evidente. I suoi numeri sotto canestro continuano a essere notevoli (17 carambole di media anche in nero-argento) ma spesso finisce per distrarre i compagni più che valorizzarli. Resta invischiato in una sorta di “guerra fredda culturale” con l’organizzazione che uccide lentamente la chimica del roster e spacca lo spogliatoio definitivamente già nella sua seconda stagione con gli Spurs. Fuori dal contesto della regular season (al termine della quale Robinson conquista il premio MVP), nei playoff la coperta si dimostra corta. Nella finale di conference dello stesso anno persa contro gli Houston Rockets è l’Ammiraglio a finire giustamente sul banco degli imputati, ma è l’atteggiamento di Rodman a far imbestialire molti tifosi.

Un episodio di questa serie in particolare fa scorrere i titoli di coda di un legame mai sbocciato. Nella delicata gara-1 casalinga del derby texano con il punteggio sul 93-92 per gli Spurs e 24 secondi da giocare, Rodman si disinteressa del timeout in corso innervosendo tutta la squadra. Viene ripreso da Doc Rivers e poi da David Robinson che lo scorta in campo e lo incoraggia alla ripresa del gioco. Rodman è ormai fuori controllo e perde malamente la marcatura di Robert Horry durante il possesso garantendo un canestro facile al suo avversario. Quando il cronometro si ferma ancora si toglie le scarpe per manifestare il suo dissenso contro coach Bob Hill “reo” di averlo richiamato in panchina durante una delle azioni precedenti. Capolinea, gente.

La rinascita e la rincorsa verso l’immortalità sportiva

La situazione a dire il vero era già compromessa da mesi, con una separazione virtuale ormai in conclamato svolgimento. Un incidente in moto che per fortuna non ha conseguenze nefaste (spalla ammaccata con assenza di qualche settimana e annata limitata a 49 gare anche per sospensioni varie) e le sue famigerate sortite notturne in aereo in compagnia di celebrità, spogliarelliste e drag queen drenano la pazienza della franchigia. Il numero 10 accusa i compagni di non avere attributi e la città di avergli voltato le spalle per puro pregiudizio religioso.

Dopo un giro di trattative infruttuose e un mercato che non decolla si fanno avanti solo i Chicago Bulls che lo acquistano in cambio di Will Perdue. Trattasi di furto con scasso, uno peggiori scambi della storia per differenziale di talento ma che va inquadrato nell’effettiva mancanza di acquirenti per il “Verme”. Phil Jackson cerca dei rinforzi sotto canestro e nel suo taccuino e il suo nome è l’ultimo della lista di cinque candidati. Dopo un paio di colloqui conoscitivi incoraggianti, le ottime condizioni di mercato e il benestare di Michael Jordan concedono il via libera. Jerry Krause chiude lo scambio in breve tempo e si preoccupa di gestire l’evidente malumore di Scottie Pippen che, memore del famoso fallo subito nel 1991, non è felice del suo approdo. La stampa non nasconde varie perplessità.

La personalità carismatica di coach Zen e le “cure” di Jordan riescono a disciplinare quanto basta le numerose inquietudini di Dennis, che tra i vari incentivi chiede e ottiene delle garanzie verbali riguardo un nuovo contratto. Si presenta al training camp con un atteggiamento più sobrio del solito e un’attitudine completamente differente. Assimila in breve tempo buona parte dei complessi meccanismi dell’attacco triangolo di Tex Winter tra lo stupore generale. Deve riuscire a far dimenticare una istituzione come Horace Grant che ha scelto la via di Orlando con l’emergente Shaquille O’Neal. Sin dal principio le buone premesse ricordano il suo approccio da matricola e rimettono al centro dell’attenzione le sue ottime qualità di cestista.

Chicago deve gestire la sete offensiva di MJ, i malumori di Scottie Pippen che chiede più spazio e gestire il talento di Toni Kukoc che vuole allontanarsi da sotto canestro il più possibile. Occorre un difensore di primo livello con grande impatto a rimbalzo, la capacità di leggere il flusso dei complessi schemi e la disponibilità a un ruolo marginale nella distribuzione dei tiri: è il suo pane e burro. Durante la sua avventura nella città del vento si attesta a 5 punti di media per partita e si dedica quasi esclusivamente alla difesa del pitturato, restando dominante in ogni caso. La modernità dello stile dei Chicago Bulls e la meticolosa distribuzione dei compiti che Jackson suddivide ai suoi giocatori dona una meravigliosa seconda giovinezza al nativo di Trenton.

(Foto di Steve DiPaola/NBAE via Getty Images)

La sua evoluzione di giocatore segue idealmente gli ultimi fulgori mostrati ai Pistons dopo la tremenda esperienza con gli Spurs e gli permette di compiere lo stesso incantesimo operato ai tempi della collaborazione con Chuck Daly. Anche se con proporzioni differenti, è di nuovo la chiave che permette il salto di qualità a una squadra che con il rientro a pieno regime di Michael Jordan chiude una stagione su un portentoso record di 72-10 e un titolo conquistato di pura prepotenza. Rodman svetta come al solito sotto le plance, rinfresca pazientemente il suo stile di gioco guidato dallo staff tecnico e torna a incidere sul piano mentale dominando i pari ruolo con una diabolica capacità di entrare sotto pelle a qualsiasi tipologia di attaccante. Lo staff gestisce bene gli eccessi dentro e fuori dal parquet e lo restituisce felicemente all’Olimpo del gioco.

È il principio di uno dei cicli più iconici della pallacanestro moderna. I tre titoli consecutivi di Chicago lo traghettano nella Hall of Fame, cristallizzando con grande efficacia la sua immagine di vincente e lo consegnano alla posterità sportiva. Il suo “X Factor” lo trasforma in un’attrazione di grande richiamo nonostante la presenza in squadra del numero 23 e di un gruppo di compagni destinati a entrare nella storia. Per molti tifosi resta il giocatore di riferimento da un punto di vista emozionale e una sorta di eminenza grigia pronto a dominare gli aspetti più trascurati dalle statistiche, nonostante la solita scorpacciata di rimbalzi. Quando nel televisore compaiono Bulls diventa un rito osservare i nuovi colori della sua chioma e i prodigiosi balzi sia in verticale che in orizzontale.

Rodman lavora egregiamente nel trittico di finali consecutive e in particolare nel 1996 contro Shawn Kemp dà vita a una prestazione maiuscola che secondo diversi giornalisti avrebbe dovuto godere di maggiore considerazione per il premio di MVP. Nella stagione della sua rinascita colleziona anche una prestazione di grande livello contro Shaq durante le finali di conference. Parliamo dello stesso giocatore in grado annichilire Magic nelle finali del 1988: diabolico. Compie un lavoro magistrale anche su Karl Malone nel 1997 e 1998 e spesso lo sovrasta dal punto di vista psicologico. Una rinnovata etica lo spinge verso una longevità fisica insospettabile e questo periodo di grazia rende giustizia sia alle sue strabordanti doti fisiche che alle evidenti skill di puro intelletto cestistico. Gli anni ‘90 segnati dal grunge nello scenario musicale e percorsi da una evidente inquietudine generalizzata sono il suo terreno di caccia ideale.

Chiude la sua carriera ad alti livelli con un altra diaspora: il secondo ritiro di Jordan alla fine della stagione 1998 e la partenza di altri grandi protagonisti lo priva ancora una volta di un contesto capace di gestire i suoi alti e bassi. Gioca ancora per i Los Angeles Lakers e per i Dallas Mavericks, ma alla soglia dei fatidici 40 anni fatica a mantenere lo stesso stile di gioco e a rapportarsi con il resto della NBA. Lontano da santoni come Daly e Jackson, Rodman si abbandona agli stessi comportamenti autodistruttivi mostrati con gli Spurs e gioca la sua ultima partita in regular season nella stagione 1999-00. Nella sua avventura colleziona cinque anelli, due premi di difensore dell’anno, sette corone di miglior rimbalzista assoluto e una presenza praticamente continua nei vari quintetti di specialità. Numeri titanici e da fuoriclasse assoluto.

L’effetto Dennis Rodman

All’inizio del nuovo millennio - e anche oggi, seppur in maniera minore - questo atleta resta una delle figure più riconoscibili a livello mondiale e un volto noto anche per chi non segue il mondo dello sport. Ha stravolto le regole del gioco della comunicazione tra giocatori professionisti e mass media, anticipato idealmente l’era dei social con almeno dieci anni di vantaggio e usato ogni mezzo a sua disposizione per vendere (con successo) un alter ego a tutti gli effetti. Una tendenza sviluppata solo nella seconda parte della sua carriera dopo un approccio turbolento ma relativamente ordinario. La differenza che passa tra il giocatore che scoppia in lacrime durante una conferenza stampa per il primo riconoscimento individuale e lo showman che posa senza veli per la copertina del suo libro è abissale: una metamorfosi semplicemente incredibile.

A prescindere dalla considerazione sul personaggio, nessuno dopo di lui è stato in grado di cambiare le regole del villaggio globale così in profondità e di plasmare a suo piacimento stili e tendenze che vengono recuperate ancora oggi. Durante l’ultima parte della sua attività professionale nel basket e una volta ritirato si è dedicato alla pubblicazione di libri, a programmi televisivi di vario genere, alla recitazione in film d’azione che non hanno lasciato particolari ricordi e partecipato a una pellicola “scult” come “The Minis”. Ha tentato la strada del wrestling professionale ed è poi tornato in campo per sporadiche apparizioni nella lega messicana e in quella finlandese dopo aver valutato di tornare in NBA tra il 2003 e il 2004. Ha spesso offerto la sua immagine per campagne pubblicitarie di vario genere per bevande alcoliche, agenzie di scommesse e brand emergenti di abbigliamento. Dopo l’inserimento nella Hall of Fame nel 2011 è tornato agli onori delle cronache per le sue visite nella Corea del Nord e la sua presunta attività di mediazione diplomatica tra il leader Kim Jong e il presidente USA Donald Trump.

A prescindere da tutto questo, non bisogna dimenticare che al massimo delle sue possibilità Rodman poteva vincere una partita senza segnare un singolo canestro. Ha raccolto quasi 12.000 rimbalzi con una media complessiva di 13.1 per gara in poco più di di 30 minuti di utilizzo, un numero semplicemente incredibile data la sua altezza. Per questo e per molti altri motivi, Dennis Rodman è stato e sarà per sempre un giocatore irripetibile - e pazienza per la quantità di episodi di cronaca di vario genere accumulati in un trentennio di onorata celebrità. Quello che ha fatto in campo non dovrebbe mai essere dimenticato.

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