Se Danilo Gallinari potesse decidere da che punto ripartire in vista della sua 14^ stagione in NBA, è plausibile ipotizzare che sceglierebbe di riavvolgere il nastro fino ai momenti conclusivi di gara-7 delle semifinali di conference contro i Philadelphia 76ers.
In quell’azione, determinante per la clamorosa vittoria in trasferta che ha regalato agli Hawks il passaggio del turno, è racchiuso ciò che Gallinari è diventato e, con ogni probabilità, ciò che aspira a essere nella fase finale della sua carriera. Sul possesso chiave della partita, i cambi sistematici lo lasciano accoppiato contro Joel Embiid in una zona del campo - poco prima della linea del tiro libero - dove fronte a canestro e con spazio a disposizione il centro dei Sixers ha brutalizzato con metodica crudeltà ogni avversario incontrato sulla sua strada nella sua stagione da vice-MVP della regular season.
Gallinari però muove bene i piedi, tiene sia sulla prima finta che sul primo contatto per poi sporcare il palleggio basso del camerunense. Palla rubata e corsa solitaria in contropiede che si chiude con la schiacciata del +6 a 41.5 secondi dalla fine. In quei frammenti Gallinari mette in mostra tutte le qualità per cui il General Manager Travis Schlenk l’aveva portato in Georgia sette mesi prima: freddezza, esperienza, coraggio, capacità di lettura del gioco e utilizzo efficace della stazza fisica, al netto dei limiti di un atletismo sempre più deteriorato.
In quel microcosmo di 13 secondi scarsi c’è l’essenza di ciò che Danilo Gallinari è oggi e ciò che potrebbe essere domani, e forse anche un po' di quello che sarebbe potuto essere ieri.
Giocare meno, giocare meglio
Tra le pecche attribuite, a torto o a ragione, a Gallinari nel corso della sua carriera c’è quella di non aver mai ottenuto grandi successi a livello di squadra. Ironia della sorte, il miglior risultato della carriera è arrivato proprio nell’annata in cui, dati alla mano, il suo contributo si è rivelato più ridotto. Con l’eccezione dell’annata 2014-15, seguita al lungo stop di oltre 18 mesi per la rottura del legamento crociato, la prima esperienza in maglia Hawks ha fatto registrare una produzione individuale mai così limitata dai tempi in cui era un rookie dalla schiena fragile e dalle grandi speranze che calcava il parquet del Madison Square Garden.
Le condizioni in cui era maturato il suo sbarco ad Atlanta, d’altronde, erano note: la franchigia godeva di ampio spazio salariale, era in cerca di veterani che potessero aiutare i tanti giovani pescati negli ultimi Draft e necessitava di una polizza assicurativa a copertura dell’incertezza attorno al rinnovo contrattuale del titolare John Collins. La combinazione di questi fattori aveva quindi finito per produrre un risultato bizzarro: pur essendo destinato a partire dalla panchina e quindi a recitare un ruolo minore rispetto alle abitudini maturate fin lì, il Gallo risultava il più giocatore pagato a roster. Una bizzarria protrattasi per tutta la prima parte di regular season, caratterizzata da problemi fisici, questi sì in linea con le abitudini maturate. Il cambio di marcia degli Hawks, conseguenza dell’avvicendamento in panchina a inizio marzo da Lloyd Pierce a Nate McMillan, è però coinciso con la graduale e costante crescita di Gallinari e della sua utilità nei meccanismi di squadra.
Con sole quattro partenze in quintetto a fronte di 69 gare giocate, l’ex Thunder ha agito da equilibratore in un contesto tattico molto fluido, operando principalmente come cambio dalla panchina per John Collins ma ritagliandosi anche scampoli da 5 in quintetti piccoli (10.6% la percentuale complessiva di minuti giocati nominalmente da centro), ruolo poi replicato con maggior continuità durante l’avventura olimpica a Tokyo con la Nazionale azzurra.
Resoconto dell’ultima tappa nel processo che ha portato Gallinari a trasformarsi in un’arma tattica.
Ad eccezione della sua stagione d’esordio, Gallinari ha chiuso la prima esperienza in maglia Hawks mandando a referto i minimi in carriera per minuti giocati (24 in regular season, 24.6 ai playoff) e per tiri presi (9.3). Al contempo, le metriche riconducibili all’efficienza, e in particolare quelle relative all’incisività in attacco (54.2% di percentuale effettiva, 61.3% reale, 1.77 di rapporto tra assist e palle perse) sono risultate tra le migliori dell’ormai ultra-decennale esperienza in NBA. In sostanza Gallinari ha prodotto meno ma l’ha fatto in modo molto efficace e, vedasi l’azione di cui sopra, nei momenti più importanti. Il Gallo, insomma, sembrerebbe aver soddisfatto le aspettative del front office e del coaching staff degli Hawks, ragion per cui la sua permanenza ad Atlanta, avvalorata dai due anni di contratto rimanenti (l’ultimo dei quali non completamente garantito), non dovrebbe essere in dubbio.
Tuttavia, esistono questioni aperte che spiegano il coinvolgimento in diverse voci di mercato. L’estensione contrattuale concessa a Collins, da un lato, fa decadere la necessità di un piano B nel ruolo di ala forte – anche se rimane da verificare la tenuta del prodotto di Wake Forest dopo la firma del quinquennale da 125 milioni di dollari - e, dall’altro, la timeline del nucleo giovane degli Hawks non si allinea molto con le prospettive anagrafiche di Gallinari. Inoltre, per Schlenk sarà fondamentale valutare quanto di fortuito ci sia nelle performance di squadra e individuali, e quanto sia invece replicabile nel medio-lungo periodo. Da questa analisi potrebbe anche scaturire la tentazione di cambiare qualcosa nel roster che ha raggiunto le finali di conference e provare a capire se là fuori ci sia qualcuno interessato a Gallinari. Un giocatore, tra l’altro, parecchio diverso da quello che eravamo abituati a vedere.
Il Gallo 4.0
Un po' per costrizione - ovvero a causa degli innumerevoli infortuni che ne hanno limitato reattività, verticalità e mobilità laterale - e un po' per adattarsi all’evoluzione del gioco, Gallinari nel corso degli ultimi anni ha modificato in maniera sostanziale il suo modo di stare in campo. La trasformazione che ha portato alla versione 4.0 del Gallo è frutto di condizioni oggettive e ha i propri cardini in quelle che sono eccellenze incontestabili nel repertorio dell’ex Olimpia.
Tra i giocatori in attività Gallinari è il 7° miglior tiratore di liberi e gli altri nomi della lista – Curry, Lillard, Redick, Durant, Irving e Middleton – rendono piuttosto bene la portata dell’impresa. L’87.6% di media tenuto in carriera lo piazza poi al 22° posto tra i migliori tiratori di liberi nella storia della NBA. Per quanto riguarda il 2020-21, tra i giocatori con un numero significativo di tentativi dalla lunetta solo Chris Paul (93.4%) e Damian Lillard (92.8%) hanno fatto meglio del suo 92.5%. Può sembrare un dato marginale, quello della precisione ai liberi, ma per comprenderne l’importanza è sufficiente osservare i recenti sviluppi, diametralmente opposti, delle parabole di Giannis Antetokounmpo e Ben Simmons.
A proposito dell’importanza del tiro da tre nella NBA attuale, invece, non c’è bisogno di ricorrere ad argomentazioni persuasive. Le conclusioni dalla lunga distanza hanno fatto parte dell’arsenale offensivo di Gallinari fin dagli esordi, ma negli ultimi anni l’accuratezza dall’arco ha assunto una rilevanza sempre maggiore. Il picco più alto, in questo senso, è stato raggiunto durante la regular season 2018-19 ai Clippers, chiusa con un eccellente 43.3%, 5° miglior dato della lega, anche se molti, soprattutto sull’altra sponda dell’oceano, tendono a ricordarsi più che altro il brusco calo (30.2%) al primo turno di playoff contro i Golden State Warriors (a proposito del quale andrebbe specificato che essere marcati alternativamente da Kevin Durant, Draymond Green e Andre Iguodala non aiuta).
Agli Hawks, durante la prima parte di stagione, Gallinari ha tirato con il 38.8%, percentuale salita al 42.1% dall’avvento in panchina di McMillan. E proprio quest’ultimo scostamento, frutto della maggior fluidità di manovra sotto la nuova guida tecnica, evidenzia quanto per Gallinari, come per la stragrande maggior parte dei giocatori che non appartengono all’esclusivo club delle superstar, un assetto tattico funzionale influisca sulla qualità delle prestazioni individuali. Escludendo il passaggio a vuoto della prima tormentata esperienza in maglia Clippers, le ultime quattro stagioni sono le migliori in carriera quanto a rating offensivo, dato che peraltro trova il suo perfetto contraltare in quello relativo al difensivo dove le stesse stagioni rappresentano i picchi più bassi dell’ormai lunga esperienza in NBA.
Gallinari, in definitiva, non è mai stato - e di certo non è adesso - un giocatore in grado di modificare da solo i destini di una squadra, ma è sempre stato e rimane un elemento che nel giusto contesto può portare alla causa doti ben precise, oltre a tanto mestiere e a un’intelligenza cestistica non comune. Il suo futuro passa quindi da queste caratteristiche, affinate durante le ultime stagioni, ma è anche legato alla percezione che di Gallinari si ha in giro per la NBA.
Il Gallo per loro
Nel valutare la carriera e le prestazioni di Danilo Gallinari in NBA è impossibile ignorare l’elefante nella stanza rappresentato dal fattore economico. Considerando i due anni di contratto ancora in essere, a luglio 2023 alla soglia dei 35 anni il ragazzo da Sant’Angelo Lodigiano avrà guadagnato una cifra complessiva molto vicina ai 200 milioni di dollari.
Premesso che quando si tratta degli stipendi NBA è vano considerarne l’ammontare in senso assoluto, perché le regole del mercato e il momento attraversato dalla franchigia che decide di firmare un giocatore sono variabili che contribuiscono in modo decisivo a determinare importi e durate degli accordi (oltre alle diverse tassazioni stato per stato), si tratta di cifre senza dubbio impressionanti. Nel corso degli ultimi 15 anni, poi, è vero che la costante crescita del giro d’affari generato dalla NBA ha portato all’aumento esponenziale del salario medio percepito, ma per i giocatori il rovescio della medaglia sta nel fatto che, soprattutto negli Stati Uniti, la valutazione del rapporto tra corresponsione economica e prestazioni garantite in campo si è fatta sempre più stringente e severa.
Per quanto riguarda Gallinari, al centro di queste valutazioni c’è sempre stato un particolare non di poco conto: l’integrità fisica. E su questo versante, purtroppo, i numeri parlano chiaro. Nelle sue 13 stagioni in NBA, Gallinari ha giocato 50.9 partite di media in regular season, arrivando solo quattro volte a superare quota 60 in singola stagione e due volte quota 70. Insomma, per quanto il valore tecnico sia palese, e anche in questo caso i numeri parlano chiaro, sull’affidabilità di un corpo segnato da infortuni di vario tipo, dalla schiena alle ginocchia, dalle caviglie alle mani, è legittimo avanzare dubbi e perplessità, a maggior ragione perché a Gallinari sono sempre stati concessi contratti pesanti in relazione al salary cap delle squadre in cui ha militato.
D’altro canto è pur vero che nonostante i tanti stop e le innumerevoli assenze, il Gallo non ha mai varcato quella soglia - attraversata da colleghi ben più celebrati - in cui un giocatore diventa il suo contratto o, per meglio dire, la sproporzione tra lo stipendio percepito e il contributo sul parquet si fa così ampia da diventare quasi una lettera scarlatta in versione NBA, o l’etichetta di “albatross”. E, come se non bastasse, se si va a ripercorrere la lista di nomi scelti al Draft del 2008, quello in cui Gallinari veniva chiamato dai New York Knicks alla posizione numero 6, non può non balzare all’occhio come solo Russell Westbrook e il fresco campione NBA Brook Lopez, oltre all’attuale Derrick Rose in versione sesto uomo, ricoprano ruoli di primo piano in squadre con ambizioni. È dura resistere per tanti anni in NBA e Gallinari ci è riuscito, magari non sempre soddisfacendo a pieno le aspettative di chi di volta in volta l’ha messo sotto contratto, ma riuscendo comunque a guadagnarsi la stima di compagni, avversari e addetti ai lavori.
Quanto alle altre aspettative, quelle che ci riguardano più da vicino in quanto appassionati e tifosi italiani, si tratta di una faccenda più complicata.
Il Gallo per noi
Modesto inciso privato per dovere di onestà intellettuale: chi scrive si è innamorato, cestisticamente parlando, di Danilo Gallinari il pomeriggio del 13 maggio 2007, sugli spalti del Forum di Assago, esattamente dal posto numero 2 della fila numero 17 della tribuna laterale. Ultima giornata di stagione regolare: in palio c’è il secondo posto e sul parquet scendono versioni non irresistibili ma tutto sommato ambiziose dell’Olimpia Milano targata Armani Jeans e della Virtus Roma con Lottomatica sponsor principale. La partita non è un granché, si gioca sul filo dell’equilibrio, un equilibrio che può essere spezzato dal confronto diretto tra Dejan Bodiroga, autentica leggenda del basket europeo ormai prossima al ritiro, e il giovane 18enne che indossa la maglia biancorossa numero 8.
Il duello va avanti per i primi tre quarti, con il veterano che regala lampi di maestria spalle a canestro e l’esordiente che risponde colpo su colpo. Nell’ultima frazione, quando la gara entra nella fase decisiva, Bodiroga riceve palla in post e, utilizzando la sua classica finta di testa, cambia mano per avvicinarsi al ferro. Una finta a cui hanno abboccato tutti, ma proprio tutti i diretti marcatori affrontati nel corso degli anni, invece il ragazzino intuisce le intenzioni dell’avversario e gli ruba palla. Sul contropiede successivo Bodiroga, non certo noto per la sua proattività in difesa ma evidentemente ferito nell’orgoglio, rientra per marcare il ragazzino e vendicare lo sgarro appena subito. Danilo Gallinari, che in meno all'ala serba ha 15 anni e qualcosa come 500 partite a referto, punta Bodiroga e, incurante dell’aiuto di Erazem Lorbek, gli schiaccia in testa.
Purtroppo manca la prima parte dell’azione, dove Gallinari non abbocca alla finta di Bodiroga
Il pubblico del Forum, fin lì sonnacchioso, esplode in un boato. La sensazione comune agli spettatori è quella di trovarsi di fronte a un talento generazionale abbinato a uno specimen fisico che sembra perfetto per il percorso evolutivo che il basket ha appena intrapreso. Se nell’azione di gara-7 con i Sixers c’è tutto il meglio del Gallinari di oggi, quell’oltraggio a Bodiroga è un concentrato dell’enorme potenziale del Gallinari teenager. Un potenziale impossibile da non vedere, un potenziale su cui si sono misurate aspettative da subito altissime, con poco o nulla da invidiare a quelle riservate a una prima scelta assoluta come Andrea Bargnani.
Potrebbe quindi essere utile partire da qui, da ciò che Gallinari ha rappresentato e rappresenta per la pallacanestro italiana, nel tentativo di mettere nella giusta prospettiva quanto il nostro ha combinato e quanto ancora può combinare. Perché forse il modo in cui percepiamo Gallinari e la sua carriera dice più di noi, del movimento cestistico italiano, che non di Gallinari stesso.
Un fatto è certo: con la lodevole eccezione di Marco Belinelli, sbarcato con premesse ben più esigue e bravissimo ad arrivare dov’è arrivato, il resto degli italiani in NBA ha sostanzialmente fallito. Una volta eclissatasi la stella di Bargnani, Gallinari è rimasto l’unico azzurro con aspirazioni di alto profilo nella lega. Questo, se da una parte ci ha costretto in qualche modo ad aggrapparci alle spalle del Gallo, dall’altra ha spesso coadiuvato una certa miopia nel valutarne, sia in difetto che in eccesso, la strada fatta fin qui e quella ancora da affrontare. Sul giudizio complessivo, poi, ha pesato la mancanza di soddisfazioni in Nazionale, con cui Danilo ha sempre avuto un rapporto complicato al netto delle ultime soddisfazioni a Tokyo.
Oppure, molto più semplicemente, le aspettative per quello che può essere considerato il talento più limpido prodotto dalla nostra pallacanestro negli ultimi 40 anni erano eccessive. Nel consueto giochino dei se e dei ma si può congetturare sull’incidenza degli infortuni o sulle scelte professionali compiute da Gallinari e immaginare un universo parallelo in cui il suo percorso prende binari diversi da quelli seguiti nella realtà. In questo senso i crocevia sono rappresentati dalla rottura del legamento del ginocchio sinistro a Denver nel 2013, momento di grande ascesa personale e di squadra, e dalle decisioni di accettare le offerte dei Clippers nel 2017 e degli Hawks lo scorso novembre, destinazioni preferite ad alternative - peraltro aleatorie - meno redditizie da parte di ipotetiche contender, al netto del viaggio fino alle finali di conference con Atlanta. Difficile, però, ricavare altro che amarezze e recriminazioni futili da questo esercizio distopico in salsa NBA.
E allora il modo più sano di approcciare l’ultima fase della carriera del Gallo potrebbe consistere nel mettere da parte quelle aspettative e provare a goderci quanto a Danilo rimane ancora da far vedere. Come ovvio, da qui in poi molto dipenderà dalla salute, vera spada di Damocle sempre in agguato, ma non è detto che dietro l’angolo non ci sia finalmente quella soddisfazione a livello di squadra a lungo sfuggita. Con la maglia degli Hawks, forse con quella di un’altra squadra NBA, o magari proprio con la canotta azzurra negli Europei da disputare (anche) in casa il prossimo anno.