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E allora perché non i Dallas Mavericks?
17 lug 2020
17 lug 2020
Con due giovani stelle, un coach con esperienza da titolo e il miglior attacco della storia NBA, a Disney World i Mavericks potrebbero dare fastidio a molti.
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Per quanto in questi mesi ci si sia arrovellati per capire come si comporteranno le squadre sui campi di Disney World, la realtà è che — come in molte cose di questo 2020 — ci rimangono solo delle supposizioni. Nessuno può realmente capire quanto le condizioni così particolari con cui si svolgerà la conclusione della stagione 2019-20 cambieranno i valori in campo, come la mancanza di pubblico influenzerà le prestazioni dei giocatori, quali effetti avrà sui loro corpi ricominciare a giocare dopo oltre quattro mesi di stop forzato.

Il fatto che poi dopo appena due settimane di “seeding games” le squadre saranno già catapultate nel vortice dei playoff apre la porta a molte possibili sorprese, specialmente con l’assenza del fattore campo a svolgere un ruolo cruciale per predire i risultati delle partite. E se comunque la regular season ci ha detto che le due squadre di Los Angeles e i Milwaukee Bucks sembrano di un livello superiore rispetto alle altre, non è detto che tali rapporti di forza si confermino anche a Disney World — anche perché la regular season non necessariamente è predittiva in termini di vittorie e sconfitte.

Prendete il caso dei Dallas Mavericks. Con un record di 40 vittorie e 27 sconfitte, i texani hanno solo il settimo miglior record nella Western Conference e, considerando la percentuale di vittorie, il 13° della NBA. Eppure se si va a osservare il loro differenziale tra punti segnati e subiti su 100 possessi si scopre che i Mavs hanno il sesto miglior dato della lega (+5.8) e che hanno ben cinque vittorie in meno rispetto a quelle che avrebbero dovuto avere con il loro Net Rating (solo i Detroit Pistons con -5.2 fanno peggio di loro, secondo Cleaning The Glass). Con le loro 45 “Expected Wins”, i Mavs si piazzerebbero alle spalle solamente delle irraggiungibili 52.7 dei Milwaukee Bucks in tutta la NBA.

Il miglior attacco di sempre

Insomma, stando alle statistiche neanche troppo avanzate i Dallas Mavericks dovrebbero essere considerati quantomeno un gradino sopra a quello che dice la classifica, inserendosi in quel lotto di squadre che possono dare fastidio alle grandi. Questo è dovuto soprattutto al loro incredibile rendimento offensivo: con 115.8 punti segnati su 100 possessi (116.7 secondo Cleaning The Glass, che taglia fuori il garbage time) la squadra guidata da coach Rick Carlisle era in ritmo per chiudere con il rating offensivo più alto delle ultime 24 stagioni, cioè da quando vengono calcolati precisamente i possessi dai database della NBA. Al momento della sospensione della stagione i Mavs erano in top-5 per percentuale di realizzazione in area (57.4%, quarti in NBA), percentuale effettiva nei tiri fuori dal pitturato (52.7%, secondi) e minor percentuale di palle perse (12.7% secondi) — gli unici nell’intera lega in top-10 in tutte e tre le categorie, normalmente indice di grande salute e prolificità offensiva.

L’attacco di Dallas è tanto semplice quanto difficile da fermare e si basa quasi interamente sul genio di Luka Doncic. Non c’è nessun altro giocatore in NBA che tenga il pallone e venga sfruttato dalla sua squadra quanto lo sloveno: con 94.3 tocchi a partita e 8.7 minuti di possesso, Doncic ha il pallone in mano per il 26.2% del suo tempo passato in campo — più del suo amico/rivale Trae Young, alfa e omega dell’attacco degli Atlanta Hawks. Con un sistema basato sull’uso estensivo del pick and roll, Carlisle è riuscito a creare il contesto ideale per sfruttare a pieno gli istinti dello sloveno, che dal canto suo nel secondo anno in NBA ha fatto un ulteriore salto di qualità rispetto a una stagione da rookie che era già storica.

Il merito è delle eccellenti spaziature che i Mavericks riescono a mettere in campo praticamente per 48 minuti. Innanzitutto perché attorno a Doncic sono stati messi due tiratori sopra il 40% da tre punti come Seth Curry e Tim Hardaway Jr., capaci di far pagare le rotazioni anticipate dal lato debole; i quattro lunghi che si sono alternati nel portare i blocchi sulla palla (Kristaps Porzinigs, Maxi Kleber, Boban Marjanovic e soprattutto Dwight Powell) hanno poi fornito varianti tattiche che Doncic ha sfruttato con eccellenti risultati, per quanto il grave infortunio al tendine d’Achille di Powell lo abbia privato del suo “rim runner” di riferimento.

Prima di infortunarsi, Powell tirava con il 72.7% al ferro — quinto miglior dato di tutta la NBA tra i giocatori con almeno 3 tentativi a partita. Ma era soprattutto la sua capacità di risucchiare i difensori avversari a tornare particolarmente comoda durante la lunghissima regular season. Ad apparecchiare la tavola, ovviamente, ci pensava Doncic.

A questa combinazione si aggiungono poi i grandi miglioramenti nel tiro dall’arco di Dorian Finney-Smith (37.4% da tre su oltre 4 tentativi di media, ma soprattutto 59/136 dagli angoli — pari al 43.3%), il 38.5% di Delon Wright (seppur su meno di due tiri a partita) e le percentuali solide sia di Kleber che di Porzingis, che si candidano a finire le partite in campo come coppia di lunghi grazie alla loro capacità di aprire il campo a Doncic. In generale solamente gli Houston Rockets tentano più tiri dalla lunga distanza dei Mavericks (42.5 contro 41.3 su 100 possessi), ma la squadra di Carlisle ha anche l’ottava miglior percentuale della lega (36.9%) nonostante il 31.8% di Doncic su oltre 9 tentativi a partita, dovuti soprattutto all’enorme difficoltà delle sue conclusioni in step back. Togliendo lo sloveno e Porzingis dal computo totale, il “supporting cast” dei Mavericks sfiora il 40% da tre punti.

Dopo che lo scorso anno Doncic aveva cominciato la sua carriera con un quintetto che è stato velocemente smantellato (c’erano Dennis Smith Jr., Wesley Matthews, Harrison Barnes e DeAndre Jordan), ora i Mavericks hanno capito come costruire la squadra perfetta per farlo rendere al meglio, circondandolo di tiratori e aprendo il maggior spazio possibile per farlo lavorare in proprio o per gli altri.

In queste due azioni ha l’area completamente sgombra per attaccare un difensore come Royce O’Neale e uno stoppatore come Hassan Whiteside facendoli sembrare completamente inermi. Il resto dei difensori sono talmente preoccupati di “rimanere a casa” sui tiratori da non provare nemmeno a portare un aiuto.

Il 2020 in ascesa di Kristaps Porzingis

Se il grave infortunio di Powell a fine gennaio poteva sembrare un brutto colpo per le ambizioni dei Mavericks, la contemporanea ascesa di Kristaps Porzingis nel nuovo anno ha fornito le rassicurazioni che in Texas cercavano dopo aver scambiato per lui nel febbraio del 2019. Porzingis ci ha comprensibilmente messo un po’ a rientrare in ritmo dopo 20 mesi di assenza dai campi di gioco: nei primi mesi erano soprattutto Powell e Kleber a portare i blocchi sulla palla a Doncic, con il lèttone limitato a un ruolo principalmente di supporto. Gli infortuni di Doncic e il miglioramento della sua condizione fisica sono andati di pari passo con il suo spostamento in pianta stabile nel ruolo di centro, dove Porzingis è semplicemente sembrato un giocatore migliore.

Nei quasi 500 minuti passati in campo assieme da Porzingis e Powell, i Maverick avevano comunque un rating offensivo di 117 punti su 100 possessi; dopo l’infortunio di Powell, però, con Porzingis in campo sono saliti a 119 su 100 possessi, che diventano quasi 120.8 quando insieme all’ex Knicks non c’è un altro lungo di ruolo come Kleber ma un 4 mobile come Finney-Smith. L’area completamente aperta non aiuta solo le volate di Doncic verso il ferro, ma anche la capacità di Porzingis di scegliersi la zona in cui può fare più male agli avversari. Dopo aver portato il blocco sulla palla, l’All-Star del 2018 ha tutta l’area a disposizione per poter rollare a canestro se vede un corridoio per arrivare fino in fondo, ma mantiene l’opzione di potersi allargare sul perimetro (di gran lunga quella che predilige) oppure quella di mezzo, fermandosi a metà strada dove comunque un suo tiro risulterebbe ingestibile per chiunque, vista l’altezza da cui parte.

Nella sua serata da 34 punti contro i New Orleans Pelicans ha mostrato tutto il suo repertorio, ma è nella vittoria dei Mavs senza Doncic a Milwaukee dello scorso dicembre quella in cui ha fatto vedere di essere sulla strada giusta per tornare al suo meglio.

La squadra da non incrociare a Orlando

Considerando che Porzingis a New York era solito cominciare le stagioni in grande forma per poi spegnersi sulla lunga distanza e Doncic dovrebbe aver recuperato al 100% dal problema al polso che lo aveva rallentato nelle ultime settimane prima della sospensione, i Mavericks si propongono come la vera mina vagante della Western Conference. Ovviamente servirà che entrambe le stelle siano al massimo delle loro possibilità, altrimenti non si può neanche cominciare a discuterne, ma se anche il supporting cast dovesse trovare in quelle settimane la mira da fuori, i Mavericks potrebbero ritrovarsi in condizioni simili rispetto a quelle che nel 2011 gli permise di sorprendere gli osservatori meno attenti della NBA.

In quella occasione Dallas aveva uno dei migliori differenziali su 100 possessi della lega e uno dei primi cinque giocatori della NBA a guidarli in Dirk Nowitzki, e pur non avendo una seconda stella del calibro di Porzingis poteva comunque contare su una squadra di grande esperienza ed a prova di bomba in difesa, dalla protezione del ferro fornita da Tyson Chandler alla saggezza di Jason Kidd e Shawn Marion. I Mavs di oggi non hanno neanche lontanamente quel potenziale difensivo, quell’esperienza condivisa e quella urgenza di dover vincere subito perché il treno potrebbe non tornare più: i playoff che affronteranno assieme saranno i primi di — infortuni permettendo — una lunga serie attorno alla coppia Doncic-Porzingis, e le indicazioni che arriveranno serviranno alla dirigenza per costruire ulteriormente la squadra attorno ai due, sfruttando il contratto da rookie dello sloveno.

In particolare, i Mavericks dovranno mostrare grossi passi in avanti nella gestione dei finali di partita, il vero motivo per cui ripartono dalla settima posizione nella Western Conference e non da una a ridosso delle prime tre. L’attacco dei Mavs infatti crolla a soli 94.3 punti segnati su 100 possessi nei finali punto a punto (penultimo della lega, solo i Pistons fanno peggio) e le percentuali da tre punti della squadra crollano al 22.6%. I tre principali realizzatori — Doncic, Porzingis e Tim Hardaway Jr., che da quando è stato spostato in quintetto ha percentuali solidissime — tirano sotto il 38% ciascuno, piazzandosi rispettivamente al 67°, 70° e 64° posto tra i 71 giocatori che hanno tentato almeno 25 tiri “in the clutch”. A testimoniare i problemi soprattutto mentali dei texani nei finali di gara c’è anche il 70.5% ai liberi, terzo peggior dato della lega, quando su base stagionale tengono il 77.3%, perfettamente a metà della classifica NBA. In generale, il record di Dallas nei finali di gara è di 14-21 — il peggiore tra le 16 squadre attualmente qualificate per i playoff —, mentre nelle altre non tirate è un eccellente 26-6: solo Lakers e Celtics con cinque ko a testa hanno fatto meglio.

Nel 22.6% da tre punti dei Mavs nei finali di gara incide tanto il 6/35 di Doncic, il cui tiro in step back rimane comunque la miglior opzione per tirare fuori una conclusione quando la circolazione di palla non funziona. E non tante squadre possono contare su un’arma del genere.

Riportando quantomeno nella normalità i dati orrendi nei finali di gara e con due stelle del calibro di Doncic e Porzingis in salute e riposati, se i Mavericks trovassero anche un paio di settimane buone al tiro da parte del proprio supporting cast — come hanno dimostrato di poter fare in regular season su volumi notevoli — potrebbero diventare quasi di default nella squadra da evitare nella parte bassa della Western Conference. Molto probabilmente non hanno la profondità per arrivare fino in fondo, visto che non è nemmeno chiaro chi sia il terzo miglior giocatore di questa squadra, e le assenze per infortunio di Powell, di Courtney Lee e di Jalen Brunson oltre alla scelta di Willie Cauley-Stein di non andare a Disney World accorciano ulteriormente le opzioni a disposizione di coach Carlisle. E il ritorno di un buon giocatore di pick and roll come Trey Burke per dividersi i minuti con J.J. Barea come point guard di riserva tappa solamente un pochino il deficit di ball-handling che questa squadra ha quando il pallone esce dalle mani di Doncic — situazione tattica che le difese avversarie cercheranno di forzare il più possibile.

Ma la bolla di Orlando potrebbe trasformarsi anche nell’occasione per mettersi in vetrina in ottica free agency. I Mavericks neanche troppo segretamente puntano a rendersi appetibili per Giannis Antetokounmpo quando e se diventerà free agent nel 2021, quando — conseguenze del COVID-19 permettendo — dovrebbero avere lo spazio salariale necessario per aggiungere una terza stella a Doncic e Porzingis. Avendo pochi asset a disposizione per poter imbastire una trade per una stella, quella della free agency è l’unica strada per la dirigenza dei Mavs per far fare il salto di qualità al roster, anche se le restrizioni del salary cap rendono sempre più difficile costruire attorno a tre stelle sul lungo periodo, con molte franchigie che si stanno stabilizzando su due superstar (LeBron James e Anthony Davis, Kawhi Leonard e Paul George, Kevin Durant e Kyrie Irving, Russell Westbrook e Harden) e un gruppo di buoni/ottimi giocatori in grado di supportarli e sostenerli in modo da non compromettere la propria flessibilità.

Con due stelle che sommano 45 anni in due e sono appena al loro primo (mezzo) anno insieme, i Mavericks possono permettersi di aspettare che raggiungano il picco della loro forma sia individuale che di coppia. La bolla di Orlando sarà però il primo banco di prova per capire se a Dallas hanno tra le mani una squadra che può puntare a vincere almeno un titolo nel decennio che abbiamo appena cominciato.

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