
La carriera Cooper Flagg, selezionato con la prima scelta assoluta del Draft 2025 caduta per miracolo in mano ai Dallas Mavericks, è partita in maniera imperfetta esattamente dalla prima giocata ufficiale, una schiacciata sul lob in campo aperto dopo la palla rubata, marchio di fabbrica nonché potenziale copertina iconica del debutto. Invece, finirà a breve nel dimenticatoio.
Questo è solo il primo di una lunga serie di errori. Nonostante al momento è terzo tra i rookie per punti di media a partita (15.0), la sua è la 5° peggiore True Shooting% tra quelli della sua classe che hanno trascorso in campo almeno 15 minuti di media in campo - con un ottimo 88.9% ai liberi che non compensa il 49.0% da due punti e il 26.2% da tre. Come vedremo, sono numeri dovuti anche dalla necessità di adattarsi a un nuovo ruolo, ma bisogna dire che il contesto intorno a lui non lo sta aiutando a essere efficiente almeno quanto pensavamo sarebbe stato.
Come ha dichiarato Flagg stesso, in un mese di NBA ha già inanellato più sconfitte di quante ne avesse in carriera prima del Draft: 34 a 0 all’High School con il superteam di Montverde Academy, 35 a 4 in NCAA con i Duke Blue Devils, e ora con Dallas si ritrova con sole 3 vittorie a fronte di 8 sconfitte. Questo perché un ambiente potenzialmente competitivo si trova già vicino al collasso, dopo che una tendinopatia bilaterale all’Achille sta tenendo fuori Anthony Davis da sette partite (and counting). Tegola che si somma a quella della lunga riabilitazione di Kyrie Irving dopo la rottura del legamento crociato anteriore, processo che dovrebbe costargli la stagione. I due, in teoria le stelle della squadra, vanno rispettivamente per i 33 e i 34 anni.
Infine, come se non bastasse, il General Manager Nico Harrison, autore dell’affare del secolo che ha portato Luka Doncic ai Los Angeles Lakers in cambio dello stesso AD e spiccioli, non avrà modo di capire se “il tempo sarà dalla sua parte”, dal momento che è appena stato licenziato. Ulteriore incertezza, quella di un progetto che per adesso non sa che direzione prendere, intrappolato in un limbo tra il pensiero di un logico ricostruzione e il tentativo di trascinare un’accozzaglia quasi casuale di talento verso la zona Playoff, nonostante non ci siano possibilità di puntare al bersaglio grosso.
Ma è proprio in questi momenti che bisogna guardare alle cose positive, soprattutto se si può contare su un talento come Cooper Flagg, su cui Dallas deve solo lavorare bene per essere ricompensata in futuro.
POINT-FLAGG: HA SENSO?
Dallas e lo staff di coach Jason Kidd la stanno prendendo molto larga a riguardo. Già in estate, dopo un deludente debutto nella Summer League di Las Vegas, l’ex proprietario dei Mavericks, Mark Cuban, se ne era uscito con un’ottima analogia, concettualmente parlando, spiegando che per Flagg bisogna «pensare alla parabola di Kobe Bryant, dato che nemmeno lui è arrivato nella Lega come un prodotto fatto e finito». Nessun paragone sul tipo di giocatore, bensì sullo sviluppo a lungo termine, in questo caso parte di un discorso da mantenere puramente in relazione alla metà campo offensiva.
Bryant ha chiuso il proprio anno da rookie con 7.6 punti in 15.5 minuti di impiego a partita, partendo titolare per un totale di 7 volte in 150 partite nei primi due anni di carriera e chiudendo fuori dall’All-Rookie First Team. Stessa cosa accaduta l’anno prima a Kevin Garnett, spesso utilizzato come paragone con Flagg per questioni di versatilità difensiva. Se questi casi possono sembrare troppo lontani nel tempo, si prenda allora Giannis Antetokounmpo, che ha chiuso il suo primo anno a meno di 7 punti di media in quasi 25 minuti di impiego a partita e tirando con il 44% dentro l’arco: al momento è leader NBA con 33.4 punti di media e dominatore assoluto per punti nel pitturato da un lustro abbondante. O ancora, sempre parlando di specialisti difensivi, si prenda l’evoluzione come scorer di Kawhi Leonard.
Certo, nessuno di loro è stato selezionato come una delle prime scelte con più attesa nella storia della NBA, ma questi esempi servono a spiegare che l’evoluzione di un giocatore non è lineare e dipende anche tanto dalle richieste del contesto. Nel caso di Dallas, la direzione è stata indicata da coach Kidd in persona: «Ci sono un paio di ragioni dietro alla scelta di usarlo come point guard. La prima è la salute della squadra: abbiamo avuto molti infortuni, e lui sa portare palla. La seconda è diventare capace di gestire la pressione. Ci sono certe ambizioni in vista di aprile, perciò è una fortuna per lui poter maturare adesso questa esperienza e lo aiuterà in questa maratona. Avremo un altro portatore di palla capace di prendere decisioni giuste quando saremo al completo».
L’intenzione di sviluppare il suo gioco “palla in mano” è stata confermata già dai primi quintetti giganteschi visti a Dallas, con Anthony Davis e Dereck Lively II insieme, con due ottimi tiratori tra gli esterni come Klay Thompson e PJ Washington, ma nessun portatore puro. I pessimi risultati e l’infortunio di AD hanno costretto poi a un riassetto, affiancando sempre al rookie almeno un handler naturale come D’Angelo Russell o Brandon Williams - per l’esattezza, in 9 dei 10 quintetti più utilizzati con Flagg in campo nelle ultime 5 gare. Quindi ha senso assegnare al rookie questa etichetta?
Il concetto di “point guard” vuol dire tutto e niente. La differenza è tra playmaker, creatore per gli altri palla in mano e initiator: il primo sa gestire il vantaggio già creato o può contribuire ad esso attivamente con letture che sorprendano gli avversari; il secondo crea vantaggio, che sia battendo l’uomo dal palleggio, attirando il raddoppio o manipolando la difesa, favorendo di conseguenza i compagni; il terzo è, banalmente, quello che porta la palla dall’altra parte del campo, ma che non ha necessariamente responsabilità organizzative.
Un ottimo playmaker, magari un lungo che può fare da hub in post, non ha per forza le capacità di palleggio per dare il via al possesso, ma bisogna fargli arrivare la palla o innescarlo con collaborazioni apposite. Così come un giocatore che può palleggiare senza perderla fino all’altra metà campo non necessariamente sa anche battere l’uomo con un crossover o ribaltare il lato.
Cooper Flagg è un discreto playmaker, perché sa già leggere molto bene il vantaggio, ma rende meglio con un initiator di fianco a favorirne la ricezione, perché non ha ancora capacità di palleggio tali da gestire una pressione a tutto campo, al massimo può ricoprire questo ruolo nel gioco in transizione, quindi contro una difesa non ancora schierata. Anche per questo, non è un buon creatore palla in mano, nonostante le ottime basi di partenza in termini di motore footwork nello stretto.