Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Cooper Flagg sta imparando
12 nov 2025
Il rookie ha avuto un inizio difficile in un contesto caotico, ma c'è molto di positivo.
(articolo)
11 min
(copertina)
IMAGO / aal.photo
(copertina) IMAGO / aal.photo
Dark mode
(ON)

La carriera Cooper Flagg, selezionato con la prima scelta assoluta del Draft 2025 caduta per miracolo in mano ai Dallas Mavericks, è partita in maniera imperfetta esattamente dalla prima giocata ufficiale, una schiacciata sul lob in campo aperto dopo la palla rubata, marchio di fabbrica nonché potenziale copertina iconica del debutto. Invece, finirà a breve nel dimenticatoio.

Questo è solo il primo di una lunga serie di errori. Nonostante al momento è terzo tra i rookie per punti di media a partita (15.0), la sua è la 5° peggiore True Shooting% tra quelli della sua classe che hanno trascorso in campo almeno 15 minuti di media in campo - con un ottimo 88.9% ai liberi che non compensa il 49.0% da due punti e il 26.2% da tre. Come vedremo, sono numeri dovuti anche dalla necessità di adattarsi a un nuovo ruolo, ma bisogna dire che il contesto intorno a lui non lo sta aiutando a essere efficiente almeno quanto pensavamo sarebbe stato.

Come ha dichiarato Flagg stesso, in un mese di NBA ha già inanellato più sconfitte di quante ne avesse in carriera prima del Draft: 34 a 0 all’High School con il superteam di Montverde Academy, 35 a 4 in NCAA con i Duke Blue Devils, e ora con Dallas si ritrova con sole 3 vittorie a fronte di 8 sconfitte. Questo perché un ambiente potenzialmente competitivo si trova già vicino al collasso, dopo che una tendinopatia bilaterale all’Achille sta tenendo fuori Anthony Davis da sette partite (and counting). Tegola che si somma a quella della lunga riabilitazione di Kyrie Irving dopo la rottura del legamento crociato anteriore, processo che dovrebbe costargli la stagione. I due, in teoria le stelle della squadra, vanno rispettivamente per i 33 e i 34 anni.

Infine, come se non bastasse, il General Manager Nico Harrison, autore dell’affare del secolo che ha portato Luka Doncic ai Los Angeles Lakers in cambio dello stesso AD e spiccioli, non avrà modo di capire se “il tempo sarà dalla sua parte”, dal momento che è appena stato licenziato. Ulteriore incertezza, quella di un progetto che per adesso non sa che direzione prendere, intrappolato in un limbo tra il pensiero di un logico ricostruzione e il tentativo di trascinare un’accozzaglia quasi casuale di talento verso la zona Playoff, nonostante non ci siano possibilità di puntare al bersaglio grosso.

Ma è proprio in questi momenti che bisogna guardare alle cose positive, soprattutto se si può contare su un talento come Cooper Flagg, su cui Dallas deve solo lavorare bene per essere ricompensata in futuro.

POINT-FLAGG: HA SENSO?
Dallas e lo staff di coach Jason Kidd la stanno prendendo molto larga a riguardo. Già in estate, dopo un deludente debutto nella Summer League di Las Vegas, l’ex proprietario dei Mavericks, Mark Cuban, se ne era uscito con un’ottima analogia, concettualmente parlando, spiegando che per Flagg bisogna «pensare alla parabola di Kobe Bryant, dato che nemmeno lui è arrivato nella Lega come un prodotto fatto e finito». Nessun paragone sul tipo di giocatore, bensì sullo sviluppo a lungo termine, in questo caso parte di un discorso da mantenere puramente in relazione alla metà campo offensiva.

Bryant ha chiuso il proprio anno da rookie con 7.6 punti in 15.5 minuti di impiego a partita, partendo titolare per un totale di 7 volte in 150 partite nei primi due anni di carriera e chiudendo fuori dall’All-Rookie First Team. Stessa cosa accaduta l’anno prima a Kevin Garnett, spesso utilizzato come paragone con Flagg per questioni di versatilità difensiva. Se questi casi possono sembrare troppo lontani nel tempo, si prenda allora Giannis Antetokounmpo, che ha chiuso il suo primo anno a meno di 7 punti di media in quasi 25 minuti di impiego a partita e tirando con il 44% dentro l’arco: al momento è leader NBA con 33.4 punti di media e dominatore assoluto per punti nel pitturato da un lustro abbondante. O ancora, sempre parlando di specialisti difensivi, si prenda l’evoluzione come scorer di Kawhi Leonard.

Certo, nessuno di loro è stato selezionato come una delle prime scelte con più attesa nella storia della NBA, ma questi esempi servono a spiegare che l’evoluzione di un giocatore non è lineare e dipende anche tanto dalle richieste del contesto. Nel caso di Dallas, la direzione è stata indicata da coach Kidd in persona: «Ci sono un paio di ragioni dietro alla scelta di usarlo come point guard. La prima è la salute della squadra: abbiamo avuto molti infortuni, e lui sa portare palla. La seconda è diventare capace di gestire la pressione. Ci sono certe ambizioni in vista di aprile, perciò è una fortuna per lui poter maturare adesso questa esperienza e lo aiuterà in questa maratona. Avremo un altro portatore di palla capace di prendere decisioni giuste quando saremo al completo».

L’intenzione di sviluppare il suo gioco “palla in mano” è stata confermata già dai primi quintetti giganteschi visti a Dallas, con Anthony Davis e Dereck Lively II insieme, con due ottimi tiratori tra gli esterni come Klay Thompson e PJ Washington, ma nessun portatore puro. I pessimi risultati e l’infortunio di AD hanno costretto poi a un riassetto, affiancando sempre al rookie almeno un handler naturale come D’Angelo Russell o Brandon Williams - per l’esattezza, in 9 dei 10 quintetti più utilizzati con Flagg in campo nelle ultime 5 gare. Quindi ha senso assegnare al rookie questa etichetta?

Il concetto di “point guard” vuol dire tutto e niente. La differenza è tra playmaker, creatore per gli altri palla in mano e initiator: il primo sa gestire il vantaggio già creato o può contribuire ad esso attivamente con letture che sorprendano gli avversari; il secondo crea vantaggio, che sia battendo l’uomo dal palleggio, attirando il raddoppio o manipolando la difesa, favorendo di conseguenza i compagni; il terzo è, banalmente, quello che porta la palla dall’altra parte del campo, ma che non ha necessariamente responsabilità organizzative.

Un ottimo playmaker, magari un lungo che può fare da hub in post, non ha per forza le capacità di palleggio per dare il via al possesso, ma bisogna fargli arrivare la palla o innescarlo con collaborazioni apposite. Così come un giocatore che può palleggiare senza perderla fino all’altra metà campo non necessariamente sa anche battere l’uomo con un crossover o ribaltare il lato.

Cooper Flagg è un discreto playmaker, perché sa già leggere molto bene il vantaggio, ma rende meglio con un initiator di fianco a favorirne la ricezione, perché non ha ancora capacità di palleggio tali da gestire una pressione a tutto campo, al massimo può ricoprire questo ruolo nel gioco in transizione, quindi contro una difesa non ancora schierata. Anche per questo, non è un buon creatore palla in mano, nonostante le ottime basi di partenza in termini di motore footwork nello stretto.

La spin move con tanto di lob ormai sono un marchio registrato.

IMPARARE PROVANDO
Quindi, quello che vuole davvero fare Dallas con Flagg è insistere su un’area di sviluppo come quella del ball-handling, cioè di palleggio e gestione della palla, non tanto per avere un playmaker aggiunto, ma per ricavarne un creatore di livello su cui costruire un attacco. Dal momento che le letture sopra la media si vedono dal college, confermate anche e soprattutto dalla sua eccellenza nei movimenti lontano dalla palla, questo approccio può avere senso per renderlo in un futuro prossimo la pietra angolare su cui costruire l’attacco di Dallas, potenziando ulteriormente uno skillset già di per sé abbastanza completo a tutto tondo.

Il solo interrogativo nasce dalle modalità con le quali si mettono alla prova queste aree ancora in via di sviluppo. Per quanto la pallacanestro moderna sia priva di ruoli, non bisogna dimenticare che Cooper Flagg è un quasi diciannovenne di circa 206 centimetri, pertanto dotato di un baricentro molto alto che lo forza a mantenere una lunga distanza tra il pavimento e il palmo della mano al momento del palleggio e lo spinge a trovarsi spesso in equilibrio precario nello svolgere determinati movimenti, tanto che spesso ha la tendenza a proteggere la palla dando le spalle alla difesa, usando spesso una basilare “spin move” per girarsi un po’ alla cieca, o quella più deleteria a chiudere anticipatamente il palleggio.

Due esempi esplicativi dall’ultima gara contro i Bucks.

Se la volontà è porre le basi ricalcando un archetipo come quello LeBron James o Giannis Antetokounmpo, allora come direzione può anche rivelarsi giusta, perché da questi errori passa la maturazione verso una maggiore consapevolezza su come districarsi fronteggiando il canestro. Questo ambizioso progetto, però, non si sposa con un contesto che, per adesso, non è costruito su di lui.

Sia chiaro, in fase di creazione, per i motivi sopraelencati, Flagg è ancora mediocre. La percentuale di tiri segnati dai compagni che assiste direttamente è da 26esimo percentile tra i pari ruolo, solo il 15.6%, mentre perde palla nel 12.8% dei possessi, cifra quest’ultima abbastanza negativa in relazione al dato precedente. Ma ciò che rende tutto più grave è che la usage%, cioè il carico offensivo misurato in percentuale dei possessi conclusi dal giocatore, si trova sotto la media, a quota 22.2%.

Il fatto è che, se Dallas davvero vuole investire nella crescita di Flagg come creatore primari, questo numero dovrà salire esponenzialmente nel corso della stagione, per quanto voglia dire esporsi a una manovra offensiva legnosa, a tanti errori al tiro e a numerose palle perse. Relegarlo a role player con il ritorno di Davis, sacrificando il suo sviluppo per maggiori risultati nell’immediato, vanificherebbe anche quel poco di buono che si è cominciato a intravedere soltanto di recente.

Ma soprattutto, senza che prima si crei un campo gravitazionale da scorer di alto livello attorno, Flagg non potrà mai nemmeno pensare di diventare un creatore elitario. Per farlo, ha bisogno di più tiri, di più chiamate ad hoc per entrare in fiducia e trovare ritmo anche da tre punti, insomma di un maggiore volume - come nell’ultima gara contro i Bucks.

Sin qui si sono avuti solo degli assaggi del suo potenziale da finalizzatore, perlopiù in transizione, con un paio di poster contro Toronto e New Orleans, ma la prestazione contro Milwaukee è la più incoraggiante. Ha chiuso con 26 punti, diventando il solo in compagnia di LeBron James a segnare 25+ punti prima di compiere 19 anni, e un potenziale game winner assorbendo l’aiuto di Giannis Antetokounmpo - “potenziale” solo perché poi si è addormentato inaspettatamente dall’altra parte, in una sequenza dolceamara.

Attaccare dalle ricezioni dinamiche, che sia da bloccante o su semplici consegnati, quindi convertire un vantaggio creato “di squadra”, si è rivelato già dal debutto una pacchia per uno con la sua intelligenza. Pertanto, come si è visto contro Milwaukee, la sua crescita passa da una maggiore capacità di crearsi le proprie conclusioni dal palleggio, costruite spesso sui cambi contro guardie più piccole come Cole Anthony e AJ Green.

Un aspetto davvero importante è che Flagg sembra interiorizzare velocemente tutti questi nuovi concetti. Ad esempio è già migliorato molto nel gestire la presenza degli aiuti dal lato debole, costituiti molto spesso da corpaccioni impegnativi da sovrastare. Già sul finire di terzo quarto era riuscito a chiudere un notevole floater sopra le braccia estese di Myles Turner dopo una spin move speculare a quella che ha preceduto la grande conclusione contro l’aiuto di Antetokounmpo. Tutto ciò non sarebbe stato possibile se non fosse andato a sbattere contro decine di aiuti da parte dei migliori difensori NBA nelle prime gare, a partire da Victor Wembanyama.

Sembra una compilation di Shaqtin-a-Fool, ma è tutto materiale che Cooper Flagg sta già processando.

Il suo vero sviluppo passa esattamente da qui. Se la parola d’ordine per descriverlo, nonché la vera caratteristica che lo ha portato a possedere questo appeal, è “versatilità”, non bisogna incorrere nell’errore di voler strafare su mille parti del suo gioco, rischiando che non diventi né carne, né pesce.

Prima di tutto, se Dallas vuole portare avanti questo esperimento, serve intraprendere una direzione chiara al ritorno di Anthony Davis, che sia drastica come uno scambio per avviare il rebuilding, o contestuale, adeguando il suo carico alle necessità dello sviluppo di Cooper Flagg.

Da qui, serve continuare a sperimentare. A proposito di sviluppo di prospetti generazionali, bisogna parlare di Victor Wembanyama per comprendere quanto una singola stagione da 8.8 triple tentate di media e convertite con un discreto 35.2% possa aiutare a forzare gli aiuti delle difese sul perimetro, spalancando il pitturato per un mostro di (minimo) 225 centimetri.

Se i problemi nel tirare da fuori o nel finire al ferro contro la difesa schierata rimarranno tali anche quando l’ex Blue Devils avrà messo su maggiore massa muscolare e si sarà confrontato con un campione quantitativamente adeguato di difese e coverage diverse, non permettendo di intravedere uno sviluppo da creatore primario, allora bisognerà correre ai ripari. Che non vuol alzare bandiera bianca, ma sfruttare a pieno la grande versatilità sulle due metà campo per farne un secondo violino più tradizionale.

Anche perché, nella paziente attesa di capire se questo suo sviluppo on-ball darà buoni risultati, l’abilità nello sfruttare il vantaggio già creato elogiata in precedenza lo proietta seriamente nell’élite dei potenziali “Robin” da affiancare a un ottimo primo con capacità di gestire l'attacco. Gli basta un consegnato, un pick&roll da bloccante, un’uscita da un blocco di contenimento o un ricciolo non banale per uno di quella stazza per punire marcature di livello NBA.

Una naturalezza così disarmante per uno della sua età nel leggere e processare la difesa già mossa rappresenta di per sé un tratto distintivo e una base sulla quale poter costruire un’intera carriera da role player di lusso. Pertanto, va coltivata e alimentata di pari passo con qualunque altro mattoncino si voglia aggiungere al suo skillset. Perché solo una volta stabilito il “floor”, cioè il livello reale del giocatore, si può pensare al suo “ceiling”, al tetto massimo, potenziale.

Per non perdersi di fronte a infiniti universi da esplorare, serve mantenere il contatto quantomeno con il proprio. Anche perché, per quanto lo faccia in fretta, Cooper Flagg sta ancora imparando a orientarsi in un mondo totalmente nuovo come la NBA, e a dir poco caotico come quello dei Dallas Mavericks.

Basket
Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura
Basket

Mattia Tiezzi è responsabile per la sezione analisi di Around the Game, di notte sogna (ad occhi aperti) di cambiare fuso orario.

→ Scopri tutti gli articoli dello stesso autore