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Illustrazione di Federico Manasse
NBA Andrea Beltrama 24 luglio 2018 7'

Collegiali: Michael Porter Jr.

Il nuovo giocatore dei Denver Nuggets è il più grande mistero dell’ultimo Draft.

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Immaginatevi a Las Vegas con tutte le chip in mano. Davanti avete una slot machine recalcitrante, mezza rotta, ronzante come un televisore usurato. Un ferrovecchio che, prima di farvi vedere come va a finire, potrebbe addirittura spegnersi. Quella che state per fare non è una semplice puntata, ma una puntata sulla puntata: in cui non c’è solo il rischio di perdere, come in tutte le altre slot, ma pure quello di non riuscire nemmeno a giocare. Beh, quelle chip? Le giocate? Messa così, è come spararsi sui piedi. Ma quando la slot ammaccata ha il potenziale di Michael Porter Jr., il dilemma diventa spinoso. Soprattutto se arriva a metà del primo giro, dopo che in molti hanno rinunciato a giocarci. E così, oltre due settimane dopo il Draft, rimane difficilissimo farsi un’idea di cosa potrà succedere. L’unica certezza è che Porter, ala di 2.11 dal tiro purissimo e moltissimi punti di domanda, è un giocatore dei Denver Nuggets. L’ultima squadra a rimanere fuori dai playoff, rimasta ai margini della lotteria. E quella che ha deciso di scommettere su di lui più per costrizione che per convinzione.

 

Fragilità

Il film è di quelli già visti. Un giocatore dal talento folgorante che incarna con disinvoltura la versatilità richiesta dalla NBA contemporanea, ma anche un atleta fisicamente tormentato. Un prospetto la cui valutazione si basa sostanzialmente su quanto fatto vedere al liceo, su 53 minuti totali di college in tutta la carriera, e su una tormentata marcia di avvicinamento al Draft. Il calvario di Michael Porter Jr. è iniziato in autunno, poco prima dell’inizio della stagione NCAA: si presentò con una solida partita di beneficienza contro Kansas, una serata in cui, più delle cifre, colpì la facilità con cui si muoveva in campo. Seguirono elogi e fervente attesa per la stagione, alimentata anche dai complimenti di Bill Self, coach avversario.

 

Eppure, mentre la stagione si avvicinava, cresceva anche il dolore: al bacino, alla gamba, alla schiena. Porter lo ignorava, giocandoci sopra. Era abituato così sin dai tempi del liceo. Ma quando arrivò il momento dell’esordio, la situazione non fu più sostenibile. Già messo in quintetto per la partita contro Iowa State, Porter chiese a coach Cuonzo Martin di non scendere in campo. Fece due minuti, il tempo di un canestro. Poi, alla prima palla morta, uscì, senza mai tornare. Venne sottoposto a una microdiscectomia tra la terza e quarta vertebra lombare: un’operazione complessa, che avrebbe probabilmente messo fine alla sua stagione. Decise di rientrare in extremis, per le ultime due partite: una sconfitta nel torneo della Southeastern Conference e una nel primo turno del torneo NCAA, entrambe senza acuti. Sarebbero di fatto state le uniche due uscite di una carriera collegiale mai esistita.

 

Talento

E allora perché Porter, nonostante tutte queste sventure, ha continuato a ricevere così tanta attenzione? Basta andare a vedere cosa si diceva di lui l’estate scorsa, quando era reduce da una sequela impressionante di successi liceali. Le cifre innanzitutto: 36.2 punti e 13.6 rimbalzi a partita nell’anno da senior, a Nathan Hale High School. A Seattle, allenato da Brandon Roy, in una squadra che chiuse la stagione con un record di 29-0. E poi i riconoscimenti individuali, dove spicca la tripletta di McDonald’s All-American MVP, e dei premi Naismith e Gatorade High School Player of the Year: solo Alonzo Mourning, Dwight Howard, Chris Webber e LeBron James ci erano riusciti prima di lui.

 

Questi traguardi, combinati a doti realizzative ammorbanti, lo avevano proiettato in cima a tutte le classifiche di prospetti nazionali. Doveva andare a Washington, che provvidenzialmente si era già assicurata il padre nello staff. Poi, dopo l’esonero di Lorenzo Romar, decise di tornare in Missouri, dove era cresciuto, che nel frattempo aveva messo sotto contratto il padre e con lui Jontay, il fratello minore, in odore di NBA (se ne riparlerà il prossimo anno). E qui la storia, almeno quella che ha a che fare con rimbalzi e canestri, si conclude. Di fatto non lo avremmo più visto. Il resto sono scouting report, proiezioni, ipotesi. Le certezze sono il tiro da fuori, anche ad ampio raggio; l’abilità di mettere palla per terra; la qualità delle mani; i movimenti in post medio; il trattamento di palla. Qualità che lo rendono, almeno, uno stretch four di lusso, e agli occhi degli addetti ai lavori qualcosa di più. Meno convincenti le letture e l’abilità di tenere botta fisicamente ai pari ruolo più grossi, anche se la sua agilità contribuisce a compensare questo aspetto. Rimane un potenziale elevato. Forse ancora più intrigante perché completamente misterioso.

 

Crollo

Non a caso, le sue quotazioni sono rimaste in alto fino all’ultimo. Voci insistenti lo davano ancora in lizza per la seconda scelta, quella dei Sacramento Kings. E lui, mentre andava in scena l’estenuante rumba di colloqui, provini e interviste con i media, non si tirava indietro. Dichiarò di essere il migliore talento di questo Draft. Esprimeva ottimismo circa qualsiasi squadra con cui venisse accostato. C’erano i Kings, i Knicks, i Bulls, i Sixers. Parole di apprezzamento per le città e di entusiasmo per il contesto tecnico nel quale si sarebbe trovato. Sono state le indiscrezioni più recenti, trapelate nella settimana precedente al grande giorno, a farne precipitare le azioni. Ha contribuito soprattutto la mossa di cancellare inizialmente la sua giornata di esami medici e interviste al pro day di Chicago, adducendo come causa un risveglio in mezzo a spasmi di dolore. L’allarme è poi rientrato, grazie anche all’esito negativo della radiografia; ma il panico era stato seminato, come si è visto durante la serata del Draft.

 

A preoccupare erano soprattutto le conseguenze a lungo termine, sia dell’infortunio che dell’intervento in sé e per sé. Ad esempio, è stato fatto notare che interventi del genere, pur avendo possibilità di riuscita fino 96%, possono comunque portare a un ripresentarsi dell’ernia nel 10-12% dei caso entro 10 anni dall’operazione. Una prospettiva non certo rassicurante, considerando anche il carico di lavoro a cui è sottoposto un atleta professionista. E che si aggiunge al fatto che, al momento attuale, non è nemmeno chiaro se Porter potrà scendere in campo nella prossima stagione, figuriamoci il quando. E così a nulla sono valse le cartelle cliniche mandate in giro dal suo agente, disperato tentativo di mantenere sotto controllo la situazione. “Se mi prendono alla quindicesima, sono l’uomo più felice del mondo” ha poi detto alla vigilia, quasi a voler mettere le mani avanti. Ma il dramma che si è consumato la sera del Draft è stato comunque intenso. Prima vedere volare via scelte più alte; e poi sentirsi scartati anche da squadre che avevano mostrato interesse e che avrebbero potuto permettersi la scelta con rischi minori. Come i Clippers, ad esempio, che avevano due chiamate consecutive alla 12 e alla 13, e hanno invece preferito prendere due guardie una in fila all’altra.

 

Steal or bust?

Poi è arrivata Denver. I Nuggets non lo avevano nemmeno nella propria lista di obiettivi, tanto era remota la possibilità che scivolasse così in basso. Capita l’antifona, però, hanno deciso di parlarci, a poche ore dal Draft. La mattina della selezione, informato dal suo staff che il giocatore poteva essere disponibile, il presidente Josh Kroenke ha semplicemente risposto “Seriamente?“. “Mi hanno detto che non si aspettavano sarei stato disponibile, e che però, se lo fossi stato, ci avrebbero seriamente fatto un pensiero” avrebbe poi raccontato Porter, come riportato da un pezzo di US Today.

 

Valutare la scelta, in una situazione del genere, è molto difficile. Ci sono però due considerazioni importanti che potrebbero far pendere l’ago della bilancia dalla parte giusta. Primo, dal punto di vista dei Nuggets: un ritorno (potenzialmente) molto alto, a fronte di rischi (relativamente) bassi. In altre parole: con una scelta così bassa, rispetto a quelle come quella di Sacramento o Chicago, Denver non ha granché da perdere. È una squadra con un’ossatura precisa, che parte dalla base di una stagione da 46 vittorie, e che può permettersi di inserire il giocatore con calma senza dover abbandonare ogni velleità competitiva. Con i giocatori più forti già presi, l’alternativa sarebbe stata uno specialista, un giocatore di rotazione su cui poter lavorare come Zhaire Smith (che hanno provato a prendere anche dopo la scelta di Porter, senza però riuscire ad acquisire un’altra scelta). Tanto vale, allora, buttarsi su qualcuno che, se va bene, può portare qualcosa di immensamente importante e cambiare la traiettoria intera di una franchigia. E che, se va male, non cambierà la direzione di un progetto già solido.

 

Secondo, dal punto di vista di Porter: le aspettative verso il giocatore saranno minime, o comunque minori di quelle che avrebbe avuto con una scelta più alta. La pressione resta una nozione sfuggente, difficile da quantificare; ma è evidente che, con un destino incerto, le aspettative che arrivano con una scelta altissima non aiutano a godersi il processo. Attirano critiche, paragoni, sberleffi, persino antipatie. Come ben sanno giocatori come Andrea Bargnani, Greg Oden o, rovistando più indietro Kwame Brown. Non avere quel bagaglio aggiuntivo sicuramente sarà di aiuto, anche solo per affrontare eventuali intoppi sul percorso con maggiore serenità. Infine, c’è anche l’aspetto meramente tecnico. Pur con un gruppo rodato, Denver potrebbe avere spazio per lui già dall’inizio nel ruolo di ala. Wilson Chandler ha cambiato aria, Will Barton, dopo un’ottima stagione, sarà titolare nel ruolo di 3. Con la sua promozione i minuti nel ruolo sono coperti, ma se Porter dovesse tornare in questa stagione, potrebbe già esserci un posto in rotazione per lui negli spot di 3 e di 4, senza eccessiva pressione. E il mistero, poco a poco, potrebbe finalmente svelarsi, così come le prospettive future dei Denver Nuggets.

 

 

Tags : collegialidenver nuggetsdraft nbamichael porter jr

Andrea Beltrama nasce a Sondrio, Valtellina County, e vive a Costanza, al di là delle Alpi. Università a Bologna, poi sette anni a Chicago, dove consegue, tra una partita dei Bulls e l’altra, un dottorato di ricerca. Vorrebbe scrivere un reportage di basket su ogni college di Division I NCAA, e pure un reportage di pesca su ogni porto di Lake Michigan. Mentre pianifica, inganna l’attesa seguendo l'hockey svizzero.

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