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La NBA torna in Cina
10 ott 2025
Breve storia di un rapporto forte e fragile allo stesso tempo.
(articolo)
15 min
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IMAGO / Imaginechina
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Dopo sei anni di assenza, gli NBA China Games - cioè il torneo di preseason che la NBA tiene occasionalmente in Cina, e che non si svolgeva dal 2019 - sono tornati. Nei prossimi giorni Brooklyn Nets e Phoenix Suns si sfideranno due volte alla Venetian Arena di Macao, in una mini-tournée che racchiude trame sportive (poche a dire il vero), commerciali e politiche.

È un evento di grande importanza simbolica perché sancisce la ripresa ufficiale dei rapporti tra Cina e NBA, ma non solo. Anche la location designata, che non è Pechino o Shanghai, bensì Macao, è significativa. Perché è la terra designata per il gioco d'azzardo nella Repubblica Popolare (e per questo ha delle sue regole molto particolari, come spiegavamo qualche tempo fa in questa puntata di Trame); ma anche per la sua vicinanza a Hong Kong, intorno a cui è ruotata la frattura di qualche anno fa tra basket americano e governo cinese. Vi ricordate il tweet di Daryl Morey del 2019, che sembrava aver azzerato decenni di sforzi di David Stern e Adam Silver per esportare il prodotto nel mercato più vasto del mondo?

È passato quasi mezzo secolo, quarantasei anni per la precisione, dal primo viaggio della NBA verso la Cina. Era l’estate 1979 quando i Washington Bullets - gli Wizards di oggi e gli ex campioni in carica di allora - si imbarcavano verso Pechino per due storiche gare di esibizione, contro la Nazionale domestica e i Bayi Rockets. Una declinazione cestistica della ping pong diplomacy (e che fu resa possibile proprio dalle porte aperte dal ping pong solo pochi mesi prima), ma anche un viaggio d’affari che avrebbe spianato la strada al basket statunitense nel Paese, e che avrebbe convinto il futuro commissioner David Stern a intraprenderne altri negli anni successivi. “Con pile di VHS al seguito”, per convincere le TV locali delle potenzialità dello show.

Durante l’età dell’oro, negli anni ‘90, la NBA ha cominciato così a costruirsi una solida fan base locale, con un processo di crescita inizialmente graduale, e poi esploso. Il chiaro punto di svolta è stata la sera in cui Yao Ming, con i suoi 230 centimetri e il passaporto cinese, veniva chiamato sul palco del Madison Square Garden, come prima scelta assoluta del Draft 2002. Da quel giorno l’ascesa della lega in Asia ha conosciuto un ritmo impressionante, fuori scala, come accade spesso quando il mercato cinese si sovrappone ad altre realtà. È sempre bene infatti ricordare le proporzioni demografiche di un paese con oltre quattro volte gli abitanti degli Stati Uniti e quasi il 18% della popolazione mondiale.

Non è sconvolgente quindi che i momenti decisivi delle NBA Finals del 2019, quindi, abbiano fatto registrare più telespettatori sulle emittenti di Pechino che su quelle americane. Peccato che, come detto, il castello a un certo punto sia crollato per ragioni politiche, proprio pochi mesi dopo i record di ascolti in quelle finali. Per arrivarci, e per comprendere a pieno cosa rappresentino le NBA China Games 2025, riavvolgiamo il nastro di qualche decennio, partendo dalla trasferta dei Bullets nella Cina appena uscita dal maoismo.

ESPLORAZIONE
Parliamo quindi di quel viaggio nell'estate del 1979. Stati Uniti e Cina avevano appena normalizzato le proprie relazione, e una squadra di basket partiva da Washington per un viaggio senza precedenti. In piena offseason, a metà agosto, Wes Unseld e compagni sbarcavano a Pechino per un paio di esibizioni che univano sport, diplomazia e tanta curiosità reciproca. “Loro ci guardano e parlano incuriositi quanto lo siamo noi da loro”, scriveva un inviato del Washington Post. Noi, loro: una percezione di distanza e differenza che si ripete spesso e che racconta molto di quel periodo storico, a cavallo tra due epoche. In occasione della prima sfida al Capital Stadium, del resto, sul tabellone del palazzetto c’era scritto “American Bullets”.

Tra i racconti reperibili negli archivi si trovano tanti aneddoti curiosi di quei giorni, dalle gite all’alba per vedere le lezioni di tai chi allo stupore per gli sciami di biciclette, oppure al contrario per i look e i corpi che gli atleti NBA portavano a spasso. La coincidenza più curiosa, col senno di poi, arriva però dal campo, dove i Bullets si trovarono di fronte un centro di 2.21 metri (secondo alcuni di più) e oltre 150 chili. Mu Tieju, “una montagna che la Cina chiama pivot”, scrisse il Washington Post, «la pagoda più grossa che abbiamo visto in Cina» dirà Bob Ferry. Bob Dandridge nel frattempo in quella serata protestò per un fischio arbitrale chiedendo a Stephen Markscheid, l’interprete, «come si dice in cinese che ci sta fregando?». «Meglio non iniziare un’altra rivoluzione», la risposta, «qui sono di più loro».

Quel tour di tredici giorni tra Pechino, Shanghai e Canton, come detto, ricalca le orme della ping pong diplomacy che negli anni prima aveva aperto il paese di Deng Xiaoping all’Occidente. I Bullets portarono in Cina una fotografia degli Stati Uniti, e l’attenzione che ricevettero in cambio andò oltre ogni aspettativa: mezzo miliardo di spettatori televisivi, secondo stime dei tempi (poco attendibili) fornite dai media pechinesi. Prima di fare ritorno si firmò un contratto da un dollaro, sottoscritto dall’avvocato David Osnos, per la prima cessione dei diritti tv alla CCTV. Un gesto simbolico da cui sarebbe iniziato un lungo capitolo.

ESPANSIONE
Quando negli anni successivi David Stern ha assunto la guida delle operazioni, l’esplorazione del ‘79 è diventata un progetto molto più articolato, all’interno della sua visione di rendere la NBA un prodotto globale. L’ex commissioner è volato più volte a Pechino in quel periodo, con cassette VHS nella valigia da mostrare ai dirigenti della televisione di Stato.

Dal 1986 al 1989 la lega fornì gratuitamente i diritti per le partite, accettando di ricevere solo una parte degli introiti pubblicitari: un investimento pensato per costruire domanda. Si partì dall’All-Star Game 1987, quando ancora la partita delle stelle era un ottimo biglietto da visita per la lega, e dall’apertura dell’ambasciata NBA a Hong Kong, nel 1992; due anni più tardi le prime finali trasmesse in diretta, e dal ‘98 l’avvio di un remunerativo contratto con la CCTV per i diritti.

Per la Cina, nel pieno di una transizione sociale e politica, lo sport era anche un linguaggio utile per modernizzazione e diplomazia. David Stern, più pragmatico che idealista, spiegò anni dopo di non essere insensibile a temi (tuttora attuali) come la violazione dei diritti umani e gli standard democratici, ma di avere altre priorità. «La situazione in Cina mi preoccupa, credetemi», raccontava in un’intervista che oggi sarebbe impossibile nella forma, ma non nella sostanza «Ho una responsabilità verso i proprietari: fare soldi».

Grazie alla gentile offerta di Stern alle TV cinesi, negli anni Novanta il fenomeno era cresciuto con velocità sorprendente. Michael Jordan e i Chicago Bulls erano ovviamente il marchio più riconoscibile, anche se Stern ha raccontato più di una volta di averne sentito parlare con il termine “hongniú duì”, ovvero “la squadra dei buoi rossi”. Parallelamente arrivarono i primi sponsor locali, le riviste specializzate in lingua e le visite di alcune stelle della lega, tra cui un giovanissimo Kobe Bryant già nel ‘98 (prima di tante altre volte), e poi negli anni 2000 i tour di Iverson, McGrady e tanti altri. Stava iniziando l’epoca in cui la globalizzazione avrebbe scalato nuove marce, e la NBA viaggiava con largo anticipo sul resto dello sport americano.

Alla soglia del nuovo millennio la NBA era già tra le leghe sportive più popolari in Cina, con una platea di decine di milioni di persone. La lega iniziava a incassare cifre significative, ad allargarsi tra i giovani anche lontano dalle metropoli: mancava solo un volto in cui si potesse identificare questo nuovo pubblico, per farne esplodere i numeri. Un ambasciatore in grado di trasformare un interesse ancora grezzo. E si arriva così New York, giugno 2002, quando Stern nella presentazione della prima scelta al Draft pronunciò uno storico «from Shanghai, China».

EFFETTO YAO
Yao Ming ha formalizzato in quel Draft 2002 l’inizio di una carriera da otto stagioni e altrettante selezioni All-Star (un plebiscito dopo l’altro del pubblico asiatico), e con essa un cambio drastico della geografia NBA. Si trattava della prima volta per un giocatore cinese, certo (prima di Yao, negli anni precedenti, i soli Wang Zhizhi e Mengke Bateer, giocatori con uno status non comparabile). I telegiornali di Pechino mostravano la scena in diretta, con Stern che avrebbe parlato di «scelta storica non solo per Houston, ma per la NBA intera e per la Cina». In patria, i media titolavano: “Great Wall enters the NBA”.

Yao Ming è stato un ponte, una delle prime icone condivise da due mondi che a lungo si erano osservati da lontano. La sua prima sfida contro Shaquille O’Neal, nel 2003, fu seguita in Cina da circa 200 milioni di spettatori, e da lì la parabola della NBA ha avuto un’accelerazione senza precedenti. Tra il 2003 e il 2008 l’audience settimanale ha superato i 30 milioni di spettatori, mentre CCTV trasmetteva partite ogni giorno e il basket diventava lo sport più popolare tra i giovani cinesi.

La tavola è stata presto apparecchiata, dunque, per il ritorno della NBA, di persona. Nel 2004, venticinque anni dopo la prima gita dei Bullets, e ovviamente con i Rockets di Yao Ming protagonisti, nascevano le NBA China Games. Negli anni successivi sarebbero diventate un appuntamento fisso, con ventotto partite e diciassette squadre coinvolte tra il 2004 e il 2019, e con diverse fermate: Shanghai, Pechino, Macao, Guangzhou, Taiwan, Shenzhen. NBA China, fondata nel 2008, è la società che gestisce tutte le operazioni locali e oggi ha un valore stimato da Sports Business Journal intorno ai 5 miliardi di dollari. In campo, nel frattempo, si giocava il primo derby tra Yao Ming e Yi Jianlian, un’altra partita da duecento milioni di telespettatori.

Ci sono arrivate diverse immagini iconiche da quelle offseason. Kobe Bryant accolto come una rockstar nei suoi tour del 2006 e 2008, LeBron James che a margine dei Giochi olimpici di Pechino raccontava: «Pensavo di essere famoso, poi sono stato con Kobe in Cina»; e poi l’ascesa di Allen Iverson e quella di Tracy McGrady, diventato un’icona prima e un giocatore CBA poi, al pari di Stephon Marbury. Dall’altra parte dell’oceano intanto si avvicinava la “Linsanity”.

La NBA era diventata così, un traino dopo l’altro, la lega sportiva più seguita nel Paese, più del calcio europeo e dei tornei nazionali (questo ovviamente senza contare gli sport più tradizionalmente seguiti in Cina, come il ping pong). E c’era ancora ampio margine di crescita. CCTV pagava decine di milioni l’anno per i diritti, ma dal 2015 è subentrata Tencent con un accordo quinquennale da 1.5 miliardi, un record per le TV di Pechino. E quando nel 2016 Kobe Bryant - eterno leader nelle preferenze dei consumatori cinesi (merchandising, social, visibilità) - giocava la sua ultima partita con i Lakers, 110 milioni di persone erano sintonizzate su Tencent. Secondo i dati rilasciati dalla stessa emittente, nella stagione 2018/19 la piattaforma ha raggiunto quota 490 milioni di utenti che hanno guardato contenuti NBA. In un sondaggio di quel periodo l’83% dei maschi intervistati di età 15-24 si dichiarava interessato alla NBA.

I brand cinesi si sono inseriti presto. Ad esempio Li-Ning con Dwyane Wade, Anta con Klay Thompson (amatissimo dal pubblico cinese), Peak con Andrew Wiggins, 361° con Aaron Gordon. Tanti giocatori - tra cui Stephen Curry, LeBron James, Kyrie Irving, James Harden - hanno organizzato tour ed eventi che sono diventati adunate oceaniche.

L’apice è stato toccato nella primavera 2019, con le Finals tra Warriors e Raptors che segnano 21 milioni di spettatori digitali durante Gara 6, per un totale di quasi 500 milioni di utenti unici nell’arco della stagione. Pochi mesi più tardi, però, sono bastati pochi caratteri su Twitter perché tutto cambiasse: “Fight for Freedom, Stand with Hong Kong”. Il mittente era Daryl Morey, allora general manager degli Houston Rockets, la squadra di Yao Ming.

ROTTURA
Il tweet di Daryl Morey del 4 ottobre 2019 ha acceso la crisi diplomatica più grave della storia moderna dello sport americano. Morey si riferiva alle proteste di Hong Kong, scoppiate pochi mesi prima contro la legge che avrebbe consentito l’estradizione verso la Cina continentale, con milioni di persone in piazza a protestare contro le politiche di Pechino.

Il tweet di Morey ha avuto vita breve prima di essere cancellato, ma abbastanza lunga da fare danni. Poco dopo, infatti, è arrivata l'ira del governo cinese, che ha una lunga tradizione di reazioni drastiche alle critiche.

Nel giro di pochi giorni gli sponsor cinesi hanno interrotto i contratti con i Rockets e la tv di Stato CCTV ha annullato la programmazione NBA fino a data da destinarsi. Senza margine di dialogo, anche perché Adam Silver non poteva certo scaricare Morey: avrebbe tradito i principi di libertà d’espressione che la NBA rappresenta da sempre (almeno ufficialmente).

«Non ci dobbiamo scusare per l’esercizio della libertà d’espressione», diceva allora Silver, «ma capisco che ci saranno conseguenze, e dobbiamo conviverci». Ribadendo comunque in ogni occasione di augurarsi un imminente ripristino del dialogo, e non perdendo occasione durante l’emergenza sanitaria per una simbolica donazione alle strutture ospedaliere dell’Hebei. «Abbiamo grande rispetto per la storia e la cultura della Cina, speriamo che lo sport e la NBA possano essere una forza unificante, capace di colmare le divisioni culturali e avvicinare le persone».

Dentro al mondo NBA la solidarietà verso Morey era diffusa - lo dimostravano tra gli altri Gregg Popovich, Shaquille O’Neal ed Enes Kanter - ma non unanime, né particolarmente esplicita. Alla lettera aperta di Joseph Tsai si univano le parole di LeBron James, il volto globale della lega, che definiva il GM di Houston «male informato», difendendo la libertà di parola ma aggiungendo che «può avere conseguenze negative non si fa attenzione a ciò che si dice». Gran parte della lega sceglieva il silenzio. È stato un momento un po' triste, in cui la NBA non è sembrata proprio aderente a quell'amore per la libertà d'espressione di cui si vanta di portare la bandiera.

Con trasmissioni interrotte, interlocutori spariti e ban sulle piattaforme cinesi, il primo mercato internazionale si era chiuso di colpo. Adam Silver avrebbe stimato le ricadute economiche in 400 milioni di dollari nel solo primo anno, e non era solo un problema della lega e delle sue finanze. In un report comparso su ESPN nel 2022 si trova una lunga lista di proprietari NBA con interessi diretti in Cina. Dal co-fondatore di Alibaba, Joseph Tsai (Brooklyn Nets), alla famiglia Adelson-Dumont (Dallas Mavericks e Las Vegas Sands China; oltre ad alcuni casinò proprio a Macao), da Micky Arison (Carnival Corp. e Miami Heat) ai fondi di investimento di Joshua Harris (Philadelphia 76ers), e altri ancora. Nel complesso oltre 10 miliardi di dollari legati all’economia cinese. Era evidente perché, al di là delle dichiarazioni, in molti sperassero in un riavvicinamento.

UN NUOVO INIZIO
La frattura ha messo a nudo la contraddizione di una lega - la NBA di ieri, di oggi e di domani - che promuove libertà, inclusione e diritti, ma dentro un sistema economico foraggiato da yuan o petrodollari. Il campionato più “politico” d’America, quello dei messaggi sul parquet, delle proteste per i diritti civili e delle campagne per il voto, ma anche molto selettivo nel suo attivismo. Che per esempio sui temi che toccano Pechino, Abu Dhabi o Tel Aviv fa molta fatica a trovare delle voci. Nel caso cinese, le pressioni ricevute da Enes Kanter e Dwight Howard in seguito ad alcuni commenti pubblici hanno rafforzato il monito del caso-Morey.

Sono due anime che convivono per necessità, ma che non sempre possono essere conciliabili, e infatti si è dovuto attendere fino al 2022 per il ritorno delle partite sui broadcaster cinesi (Tencent fino al 2027), il primo grande segnale di apertura. I passi successivi sono stati il ritorno degli sponsor, un po’ alla volta, e quindi la partnership tra NBA e Alibaba Cloud, il ripristino dei programmi giovanili in Cina - finché un anno fa Joseph Tsai, mediatore ufficioso della riappacificazione, diceva di «considerare le tensioni, ormai, acqua passata». E così arriviamo all'annuncio dello scorso inverno: il ritorno delle NBA China Games.

La doppia sfida Nets-Suns di oggi e domenica pomeriggio alla Venetian Arena è la prima delle cinque trasferte in programma fino al 2030. In futuro probabilmente si tornerà a Pechino e Shanghai, stavolta però si gioca a Macao, un “soft landing” individuato principalmente per il suo tessuto economico e come detto per gli interessi finanziari lì di alcuni presidenti NBA.

Si tratta infatti di una Regione Amministrativa Speciale e dell’unico luogo della Cina in cui il gioco d’azzardo è legale, e gettonato a tal punto da garantire l’80% delle sue entrate fiscali. Tra i più importanti operatori presenti a Macao c’è Las Vegas Sands Corporation, fondata da Sheldon Adelson e oggi gestita dalla moglie Miriam Adelson e dal genero Patrick Dumont, che dal 2024 controllano anche i Dallas Mavericks. Tra gli asset di Las Vegas Sands Corporation c’è proprio la Venetian Arena, un’arena da quindicimila posti costruita tra un resort e un casinò.

Negli anni di buio, comunque, la connessione è rimasta viva. Secondo i dati distribuiti in questi giorni, attualmente in Cina c’è una community di 125 milioni di giocatori di basket, e più del doppio di appassionati. Stando ai numeri visibili sui social, 425 milioni circa di utenti Weibo seguono i profili della lega, delle squadre o dei giocatori, a cui si aggiunge la fanbase sul “TikTok cinese” Douyin, non molto più ristretta. C’è un giovane zoccolo duro, insomma, rimasto ai propri posti grazie anche alla visione delle partite in streaming illegale - una storia che i media occidentali, con una certa soddisfazione, amano raccontare (la pirateria, è evidente, fa molto comodo in certi casi).

Ci sono state anche tante iniziative della NBA per parlare col pubblico di Pechino, come ad esempio le maglie dedicate al capodanno cinese. E poi l'intramontabile popolarità di alcuni punti di riferimento, che hanno contribuito a colmare questa distanza. Oltre ai già citati, si sono segnalati negli ultimi due anni anche Jimmy Butler (tour ed eventi) e soprattutto Kyle Anderson, al secolo Li Kaier, dopo la naturalizzazione del 2023 e il debutto con la Nazionale cinese nei Campionati Mondiali.

A Macao, come sempre quando si muovono le global games, si è raggiunto il sold out nel giro di poche ore e si attende un show di più giorni, con poco agonismo, attivazioni commerciali di ogni tipo e tanti ospiti di lusso, tra cui Shaquille O’Neal. E ovviamente Yao Ming, che da diversi anni è presidente della Chinese Basketball Association.

Alla vigilia della partita, Michael Porter Jr. dei Nets ha provato a dire la cosa più semplice: «I tifosi cinesi sono tra i nostri più grandi sostenitori: è bellissimo giocare qui, per noi e per loro». Al di là dei sorrisi in primo piano nelle istantanee dei prossimi giorni, però, i protagonisti di tutto ciò restano la NBA e il governo cinese, che da vent’anni condividono un interesse economico enorme poggiato su fragili fondamenta.

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La NBA torna in Cina