Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Convertitevi al culto di Bones Hyland
30 nov 2022
30 nov 2022
Un giocatore degli anni ‘90 calato nella NBA contemporanea.
(articolo)
14 min
(copertina)
Jamie Schwaberow/Getty Images
(copertina) Jamie Schwaberow/Getty Images
Dark mode
(ON)

La partita tra Denver e San Antonio ormai non ha più niente da dire. Mancano poco più di nove minuti al termine e i Nuggets sono avanti di 28 lunghezze, quando da una lotta a rimbalzo difensivo il pallone viene sputato in qualche modo nelle mani di Bones Hyland.

Gli ospiti sono alla seconda partita in due giorni, un back-to-back killer arrivando dal Texas (dove hanno perso con gli L.A. Clippers), e non hanno le forze per tornare in difesa, mentre la second unit dei padroni di casa scatta all’unisono e ha un cinque contro tre a disposizione. Hyland ha tutte le opzioni a disposizione: due compagni sono alla sua sinistra e due compagni sono alla sua destra, mentre due difensori avversari provano in qualche modo a coprire un campo troppo aperto.

All’altezza del logo di centrocampo, Hyland decide di regalare qualcosa di speciale ai 19.641 spettatori che anche quella sera hanno riempito gli spalti della Ball Arena. Cambiando mano da sinistra a destra, fa un movimento strano con il braccio di richiamo, una specie di colpo d’accetta all’aria sotto al pallone, prima di recuperarlo e passarsela di nuovo sul lato sinistro. Non contento, finta di farsi passare il pallone dietro la schiena per attirare a sé il difensore, con un movimento reso celebre da Rajon Rondo, liberando così lo spazio per lo scarico a Bruce Brown, a cui manca quel quid di esplosività per rendere davvero memorabile la giocata di Hyland ma riuscendo comunque a depositare i due punti del +30.

Non che al numero 3 importi qualcosa. Dopo la schiacciata del compagno, invece di tornare in difesa Hyland si ferma a dare il cinque a un tifoso seduto in prima fila, felice come non mai di aver portato a compimento il contropiede e di aver aggiunto un altro assist al suo bottino di serata: 24 punti, 5 rimbalzi, 7 passaggi vincenti per i compagni e 2 recuperi a fronte di una sola palla persa in meno di 25 minuti, segnando 6 delle 8 triple tentate, chiudendo come miglior realizzatore dei suoi.

La lingua inglese riesce in pochi caratteri a descrivere quello che io ho fatto nei paragrafi qui sopra: “Bones Hyland Put A Little Extra Sauce On This Pass”.

Se la finta alla Rondo è giustificabile dal punto di vista tecnico, visto che ha liberato lo spazio per l’appoggio del compagno di squadra, da un punto vista meramente razionale non c’era nessuno motivo per fare la prima finta, quella “dell’accetta”. Proprio zero. Anzi, per realizzarla è anche andato vicino a una violazione di doppio palleggio che avrebbe mandato su tutte le furie il suo allenatore Michael Malone, forse costandogli la panchina punitiva anche a partita strafinita. Ma è esattamente in quell’orpello artistico che c’è tutto il culto di Bones Hyland, un giocatore che sembra uscito dagli anni ’90 per quanto riesce unire in parti quasi uguali stile e inefficienza. Che è poi il motivo per cui me ne sono innamorato.

Tre motivi per innamorarsi di Bones Hyland

Ci sono almeno tre buone ragioni per innamorarvi di Hyland, se ancora non lo avete fatto. Il primo: non si chiama davvero Bones. Mamma Marshay lo ha battezzato con il nome di Nah’Shon Lee, ma tutti a Wilmington (quella del Delaware, non quella in North Carolina dove è cresciuto Michael Jordan) hanno imparato a conoscerlo con il soprannome che si è dato lui stesso, “Bizzy Bones” o più semplicemente “Bones”. Non ci vuole poi un volo di fantasia per capirne il motivo: basta guardare quanto è scheletrico il suo corpo per capire perché è soprannominato “ossa”, e anche l’arrivo tra i professionisti della NBA non lo ha ancora cambiato.

Quando il tuo soprannome diventa talmente famoso da sostituirsi al tuo nome di battesimo, come “Magic” Johnson o “Penny” Hardaway, ti rende automaticamente un giocatore di culto. A questo però Hyland unisce anche una street cred leggendaria: i racconti delle sue partite a livello locale e nel circuito AAU si sprecano, ma essendo cresciuto nell’era degli smartphone sempre accesi abbiamo anche le testimonianze video per poterle vedere.

Un tempo queste due partitelle in uno contro uno con dei non meglio specificati “Philly Trash Talkers” sarebbero state tramandate ai posteri in forma orale aggiungendoci numerosi dettagli probabilmente mai accaduti. Eppure è già incredibile così: ci sono fin troppe persone ai lati a bighellonare; una ragazza che non la smette mai di ballare la “Tressi Bop”, un ballo inventato dallo stesso Hyland che è poi diventata una canzone; un tizio in stampelle dietro; e soprattutto c’è lui che gioca esattamente come fa adesso in NBA, tirando da qualsiasi posizione senza nemmeno aver bisogno di palleggiare. Punti bonus per la pallonata finale e per il messaggio distensivo francamente leggendario. Ah, per i freddi numeri: 3.5 milioni di visualizzazioni and counting.

Il secondo motivo per innamorarvi di Bones Hyland è la sua storia personale. Se Bones fosse il protagonista di una serie tv (cosa che non escluderei possa accadere in futuro), quanto successo il 25 marzo 2018 rappresenterebbe il suo ghost. Mentre stava guardando una partita NCAA sdraiato sul letto della sua stanza, la sua casa di Wilmington ha preso fuoco per motivi che non sono mai stati chiariti, e mancando qualsiasi sistema anti-incendio le fiamme hanno raggiunto presto il secondo piano dove si trovava. Impossibilitato a raggiungere le altre persone che si trovavano in casa in quel momento — nonna Fay e i due cugini Maurice e Isaac, rispettivamente di 11 mesi e di 3 settimane —, Bones ha dovuto provare ad aprire tre finestre diverse arroventate dal fuoco prima di riuscire con una per poi sporgersi fuori dal secondo piano della casa.

All’ultimo secondo, prima che le fiamme lo raggiungessero, ha trovato il coraggio per lanciarsi dal secondo piano della casa (lui che quando viaggia in aereo tira giù il finestrino per non dover guardare di sotto) verso due vicini che erano accorsi per soccorrere gli Hyland, riuscendo a finire tra le loro braccia dopo un volo da sei metri di altezza ma prendendo una scala in mattoni con il ginocchio destro, procurandosi un grave infortunio alla gamba. Bones è riuscito in qualche modo a cavarsela solo con qualche bruciatura, ma il cugino più grande Maurice e nonna Fay non ce l’hanno fatta, con la seconda che ha fatto da scudo ai due nipoti con il corpo riuscendo a salvare la vita del neonato Isaac dall’incendio.

I dottori che lo hanno visitato all’ospedale erano inizialmente scettici che Hyland sarebbe mai riuscito a tornare a giocare a pallacanestro, ma gli esami sul suo ginocchio destro hanno rivelato “solo” la rottura del tendine rotuleo, prospettandogli una riabilitazione di almeno sei mesi. Un periodo comunque infinito per un ragazzo di 17 anni e mezzo che non faceva nient’altro che giocare a basket e stare coi suoi amici. Ecco, a proposito degli amici: le cronache narrano che all’ospedale siano accorse così tante persone — dai compagni di squadra a quelli di scuola fino ai suoi allenatori e perfino qualche avversario — da costringere l’ospedale a spostarlo in una stanza privata a cui si poteva accedere solo con un codice, e che gli addetti alla sicurezza si erano convinti che fosse una persona famosa. E in effetti Hyland era famoso: anche i bambini quando lo incontravano al bar si giravano verso le mamme dicendo «Quello è Bizzy Bones!» come se avessero visto il Messia, e questo prima ancora di aver finito il terzo anno di liceo.

Al di là dell’affetto e dell’attenzione che lo ha circondato fin dal primo momento, Hyland ha dovuto fare i conti con i demoni di quella notte di fine marzo, che hanno continuato a tormentarlo per lungo tempo. Lui stesso ha raccontato di non essere riuscito a prendere parte ai funerali dei suoi familiari («Non volevo vedere la mia ‘Mom Mom’ e il mio cuginetto in una bara» ha detto a The Athletic), e che durante una partita dell’anno successivo dopo un tiro libero sbagliato ha guardato verso una delle persone che lo ha aiutato maggiormente, il co-direttore della sua squadra di AAU Ron Martin, scuotendo la testa. «Mi è tornato un flashback dell’incendio prima di tirare, per quello non ho segnato» ha rivelato successivamente.

A poco meno di 4 anni dall’incendio e alla sua prima partita da professionista a Philadelphia, che dista da Wilmington una trentina di minuti d’auto, c’era mezza città a vederlo, tra cui anche i vigili del fuoco che erano accorsi per sedare l’incendio. Con 21 punti in uscita dalla panchina è stato fondamentale per la rimonta dei Nuggets da -19, sciogliendosi poi in lacrime nella conferenza stampa post gara ricordando la nonna e il cugino, che lui chiama ancora “my baby brother” e che è immortalato sulla sua spalla sinistra insieme a “Mom Mom”.

Se avete un cuore di pietra e ancora non vi siete convinti a fare il tifo per lui, allora possiamo passare al terzo motivo per cui innamorarvi, cioè il suo stile di gioco. Sin dai suoi anni al college con VCU Hyland si è fatto notare per le sue assolute doti realizzative da qualsiasi posizione del campo, le stesse che hanno fatto fare una figuraccia mondiale ai due malcapitati “Philly Trash Talkers”. Più è lontano dal canestro e più Bones diventa efficace: il suo range di tiro è pressoché illimitato, rinverdendo i fasti di quello che si diceva per Raymond Lewis, e cioè che “tirava da 4 metri come gli altri da 2 e pare fosse lecito proseguire la proporzione con le cifre 10 e 5” secondo le immortali parole dell’Avvocato in Black Jesus.

I numeri confermano questa sua irreale e irrazionale capacità di segnare da lontanissimo: in stagione sta tirando con il 46.7% tra i 25 e i 29 piedi, cioè tra i 7.62 e gli 8.8 metri dal canestro, ed è 3/6 in quelli oltre i 9 metri. La mappa di tiro conferma questa predilezione per tirare con svariati metri di distanza dalla linea da tre.

Che sia dal palleggio o ricevendo piedi per terra non fa alcuna differenza: entrambe le percentuali sono del 44% su un numero quasi uguale di tiri, rendendolo un mal di testa assoluto da difendere. Hyland dà l’impressione che per lui sia più importante avere spazio per eseguire la sua meccanica di tiro più che la mera distanza dal canestro: se ha la possibilità di mettere tutte le sue cose a posto, dai piedi al follow through non convenzionale, i suoi tiri tendono ad andare dentro anche quando si trova più vicino al logo di metà campo che alla linea del tiro da tre. Il che è controintuitivo considerando il mucchietto di ossa che si ritrova addosso: come fa quel corpo così esile a sprigionare così tanta forza cinetica per arrivare al canestro da così lontano?

Già in una delle prime partite dello scorso anno se ne sono accorti in fretta i Miami Heat, commettendo l’errore di lasciarlo solo svariati passi dietro la linea del tiro da tre. Un po’ come Steph Curry anche Hyland tira “dal basso”, andando a cercare in ogni centimetro del suo corpo un modo per aggirare i limiti dei quattro chili bagnato che pesa.

Ma Hyland non è solo un tiratore, anzi. È in grado di mettere assieme più di un palleggio avanzato con esitazioni, crossover e cambi di ritmo tutti suoi per liberarsi del suo difensore e crearsi spazio, che sia mettendo piede in area (con 9 penetrazioni a partita è secondo solo a Jamal Murray nei Nuggets) o per tirare in step back, specialità nella quale è a 10/16 in questa stagione da tre punti. Hyland possiede quel tipo di bag che fa impazzire i creatori di mixtape su Internet, cercando sempre un modo diverso per lasciare nella polvere il suo avversario e trovando la via del canestro, aggiungendoci anche un po’ di trash talking quando è il caso.

Herky-jerky, clever and can scoresecondo la definizione sintetica e precisa del telecronista.

Tutto quello che Bones Hyland fa male

Fino a questo momento vi ho raccontato di tutti i motivi per cui ci si deve innamorare di Hyland, ma ovviamente non mancano gli aspetti oscuri del suo gioco. Dopo la stagione da rookie i Nuggets hanno creduto talmente tanto in lui da togliergli di fatto la concorrenza nel ruolo, cedendo Monte Morris — che aveva svolto un ruolo egregio prima come riserva di Murray e poi come suo sostituto lo scorso anno, stabilizzando la squadra — e Facundo Campazzo per affidargli le chiavi della second unit come portatore di palla principale. Le responsabilità di cui è stato investito, però, al momento si sono rivelate un po’ troppo pesanti da sopportare, e il suo gioco ha finito per deragliare.

Hyland in questo è primo tra i Nuggets per Usage, cioè per percentuale di possessi “finiti” da lui con tiro, fallo subito, assist o palla persa. Un dato del 32.5% che è superiore a quello di Murray (!) e perfino a quello di Nikola Jokic (!!), che a scanso di equivoci sarebbe pur sempre il due volte MVP in carica. Il problema è anche che Hyland non è assolutamente efficiente con tutti questi palloni tra le mani: la sua percentuale effettiva è appena del 50% ed è tenuta su solamente dal 44% con cui sta tirando da fuori, perché non appena supera le colonne d’Ercole della linea del tiro da tre affonda a un misero 34.7% da due punti. Sono dati semplicemente insostenibili se vuole avere un futuro da realizzatore nella lega e nei quali si nota la sua inevitabile mancanza di chili, che era riuscito a mascherare lo scorso anno chiudendo con un rispettabile 60% al ferro.

Anche le sue doti di playmaking, per quanto in netto miglioramento, lasciano molto a desiderare. Hyland è un passatore sfolgorante, con lampi di assoluta genialità quando deve servire i compagni, ma nel suo cuore rimane un realizzatore in tutto e per tutto, che non ha in testa il pensiero di dover mettere in ritmo i compagni, specialmente quelli che sono incapaci di creare in proprio come quelli che escono dalla panchina per coach Malone. Il risultato è che la panchina dei Nuggets è una delle peggiori per rendimento di tutta la NBA e il suo rapporto tra assist e usage è tra i più bassi della lega tra i pari ruolo (solo nell’11° percentile delle point guard), con la squadra che finisce per andare molto peggio quando lui è in campo, con un -18.0 di differenziale su 100 possessi tra quando c’è e quando non c’è.

Su questo dato pesa come un macigno il problema storico dei Nuggets, cioè come riuscire a sopravvivere nei minuti in cui Jokic deve sedersi in panchina, specie quando il suo cambio è la versione bolsa di Deandre Jordan. Ma Hyland in questa stagione era chiamato a essere la soluzione a quei problemi e finora non lo è stato: quando in campo c’è lui i Nuggets segnano di meno, tirano peggio, perdono più palloni, vanno meno a rimbalzo offensivo, si procurano meno liberi, difendono male, concedono tiri a più alta percentuale, forzano meno palle perse e soffrono maggiormente a rimbalzo. Non c’è neanche uno dei cosiddetti “Four Factors” (percentuale effettiva, palle perse, rimbalzi e liberi) che migliora quando gioca Hyland, anche se a sua discolpa bisogna sottolineare come attorno a lui spesso non ci sia neanche un compagno capace di mettere palla per terra e creare qualcosa, e come il suo differenziale nei pochi minuti in cui gioca con Jokic sia nettamente positivo (+13.1).

A questo poi va aggiunta la metà campo difensiva, nella quale Hyland paga a caro prezzo i 77 chili (ufficiali, e onestamente più di un paio sembrano regalati) che si porta appresso, che sono poi il motivo per cui i Nuggets sono riusciti a selezionarlo alla numero 26 del Draft 2021. Con tutta la buona volontà che sicuramente lo staff atletico di Denver avrà predisposto per lui per costruirgli un’armatura in grado di farlo sopravvivere, Hyland non ha proprio quel tipo di fisico in grado di mettere su muscoli o peso, e considerando anche lo scarso livello di applicazione mentale nella metà campo difensiva, continuerà ad avere un bersaglio addosso ogni volta che scenderà in campo.

Eppure c’è una parte di me che non può fare altro che perdonargli ogni errore difensivo, ogni scelta di tiro nefasta, ogni palla persa incomprensibile. Perché è anche giusto che non tutti i giocatori NBA siano delle macchine di efficienza senza emozioni: Hyland riesce a essere così divertente proprio perché sbaglia, perché affronta ogni partita nella maniera che renderebbe orgoglioso il suo idolo Allen Iverson (non indossa il numero 3 né gioca con le treccine per caso), perché anche in una lega in cui girano squali grossi quasi letteralmente il doppio di lui riesce a sopravvivere solo grazie al suo talento e alle sue invenzioni, circumnavigando tanto gli avversari quanto i limiti del suo fisico.

Se ne sono accorti anche i Dallas Mavericks, contro i quali Hyland ha realizzato il suo massimo stagionale da 29 punti in una serata senza Murray, Gordon e Jokic, portando Denver a una improbabile vittoria in trasferta dopo che due giorni prima ne avevano presi 28 dagli stessi Mavs.

Perché nel giorno in cui è on fire, cercare di marcarlo è come provare a pescare un pesce a mani nude: da qualche parte ti scappa sempre. E se cerchi di impedirgli la via verso il canestro, può fermarsi in una frazione di secondo e sparare da qualsiasi parte del campo, con una fiducia incrollabile nei suoi mezzi che spesso sfocia nell’irrazionalità.

Ma non è forse per questo che seguiamo lo sport professionistico, per vedere qualcosa succedere davanti ai nostri occhi? Bones Hyland è uno di quei giocatori che prova a far succedere qualcosa ogni volta che ha il pallone in mano, ed è per questo che non riesco a staccargli gli occhi di dosso.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura