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Anthony Edwards è davvero arrivato?
11 giu 2025
A che punto è lo sviluppo della star dei Minnesota Timberwolves.
(articolo)
11 min
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IMAGO / ZUMA Press Wire
(copertina) IMAGO / ZUMA Press Wire
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Tra i media generalisti che coprono la NBA negli Stati Uniti, alcuni godono di enorme autorevolezza, maggiore anche rispetto a quella di allenatori o addetti ai lavori. Stephen A. Smith, attore prestato al ruolo di opinionista per ESPN, è forse il più noto tra questi oracoli, e come tutti ha i suoi pupilli. Uno di questi è Anthony Edwards, o Ant-Man se preferite.

Dopo una gara-4 da 43 punti con il 70.5% di True Shooting contro i Los Angeles Lakers, Smith gli ha dedicato un monologo iconico in pieno stile fumetto dei supereroi: «il miglior giocatore in questa serie, con LeBron e Luka, è un 23enne con un contratto da $200 milioni che gioca come se fosse sul lastrico. È uno squalo in acque infestate di sangue». Una dichiarazione che già di per sé conferisce un effetto scenico hollywoodiano niente male, ma che impallidisce in confronto alla chiosa finale: «Si presenterà con l’intento di farli fuori a Los Angeles, vuole rovinare la loro estate a Tinseltown. Ant-Man sta arrivando. Scusate, è già arrivato».

È l’annuncio perfetto di una storia, quella di Edwards, ancora molto breve, ma che avrà molto da raccontare, sulla quale però è necessario, già da ora, porsi degli interrogativi. Dopotutto, Edwards deve ancora compiere 24 anni e per la seconda stagione consecutiva si è schiantato contro il muro delle Conference Finals, disputando serie deludenti rispetto alle enormi aspettative. Tutto quel talento, tutta quella fame alla quale accenna Stephen A. Smith si è intravista, ma non è stata sufficiente. Ant-Man, quindi, è davvero “arrivato”?

SUPERPOTERI E KRYPTONITE
Già solo menzionando qualche dato, si può capire quale sia la forza di Anthony Edwards: è il secondo giocatore più giovane di sempre a guidare la propria squadra ad apparizioni in back-to-back alle Conference Finals come scorer principale, dietro solo a Kevin Durant. Lo stesso KD e LeBron James, inoltre, sono i nomi che la giovane stella ha raggiunto nel club di giocatori con più di 1000 punti realizzati nei playoff prima di compiere 24 anni e in meno di 40 gare. Insomma, infilare la palla nel canestro gli risulta più facile rispetto a quasi chiunque.

Il modo in cui lo fa, poi, è ancora più sorprendente. Ancora prima che lo scoring in generale, cioè la varietà e la qualità nella conversione dei tiri, è lo shot making il superpotere di Ant-Man, la capacità di segnare a piacimento anche senza aver creato alcun vantaggio.

Per un giocatore del quale si è sempre criticata la selezione di tiro si tratta di un aspetto molto importante, utile a compensare scelte non ideali. L’aumento di volume al tiro da tre punti nell’ultima stagione, specialmente dal palleggio, ha valorizzato quello che sa fare meglio e allo stesso tempo ripulito alcune sue tendenze. La frequenza dal long mid-range, la conclusione più statisticamente inefficiente della pallacanestro, è regredita al dato più basso dal suo anno da sophomore, sia in regular season sia ai playoff. Le triple, invece, sono salite a oltre il 40% del suo volume di tiro, con percentuali di conversione elitarie in regular season (40%) e buone ai playoff (37%). Il 2024/25 di Edwards è la 5° annata individuale per tentativi totali da oltre l'arco, chiusa a quota 811, e solo due stagioni mostruose di Stephen Curry sono meglio della sua in termini di efficienza.

Le difese hanno così risposto raddoppiando Ant-Man più aggressivamente di chiunque altro nelle situazioni da portatore di palla, in modo da limitarne eventuali esplosioni dal palleggio. Un aspetto che sblocca svariate soluzioni soprattutto per i compagni: i Timberwolves hanno chiuso la stagione al quinto posto per qualità di tiro, i playoff addirittura al secondo.

Considerando che la pressione esercitata al ferro in questi playoff è salita esponenzialmente rispetto alla regular season, un +9% in termini di frequenza, è difficile chiedere una selezione di tiro più “matematicamente” corretta. Così come è positivo il 53.8 di effective field goal%, statistica che valuta l’efficienza calcolando il maggior peso del tiro da tre punti, che rientra nel 74esimo percentile fra i pari ruolo ai playoff.

Questa rivoluzione è stata necessaria a causa della costruzione del roster, ricco di giocatori "battezzabili" - Gobert, McDaniels, Randle, nonostante le buone percentuali mantenute - garantendo a tutti, incluso sé stesso, spazi più ampi per operare. Ma sostituire i long-two con conclusioni che partono da qualche metro indietro non per questo elimina del tutto una soluzione come il mid-range che caratterizza tutti i grandi “Kobe-type” scorer.

Lo scorso anno ai playoff, tra primo turno e gara-1 e 2 contro i Nuggets, Edwards ha tirato con il 50% dalla media distanza, eppure rimane uno dei peggiori tiratori dal long-mid dell’intera Lega. Avere un superpotere significa sfruttarlo al bisogno, non abusarne.

La kryptonite si contrappone perfettamente a queste doti, quasi ne è conseguenza, e riguarda la costanza nella lettura dei raddoppi o delle difese piazzate per favorire i compagni. Un conto è segnare quattro triple a partita per fare in modo che gli avversari collassino, aprendo spazi per la squadra grazie alla cosiddetta “gravity”, la forza di gravità esercitata dall’attaccante sui corpi avversari. Un altro è dover far uscire la palla attivamente favorendo chi è attorno.

Su questo, Edwards deve ancora migliorare molto sia nell’esecuzione, sia nella volontà. Per quanto concerne il primo punto, serie come quella contro i Suns dello scorso anno o contro i Lakers nel recente primo turno sono state molto incoraggianti, ma si trattava di difese che, per quanto schierate, non erano dotate di personale di alto livello tanto sulla palla, quanto in aiuto.

Il numero di palle perse, con l’avanzare dei playoff, è andato aumentando anche quest’anno, in piena linea con quanto visto nella passata stagione, fino a toccare il fondo alle Conference Finals:

  • primo turno contro i Lakers: 31 assist, 6 palle perse
  • secondo turno contro gli Warriors: 28 assist, 17 palle perse
  • Conference Finals contro i Thunder: 23 assist, 16 palle perse

Sono numeri grezzi che non considerano assist potenziali e “hockey assist” (assist di un compagno a un altro nato dal proprio passaggio), ma piuttosto esplicativi delle difficoltà incontrate da Edwards contro difese pressanti e versatili.

La palla esce spesso con un paio di tempi di ritardo dai raddoppi, e male - i passaggi rasoterra di stampo calcistico sono la specialità della casa - dando il tempo alla difesa di aggiustarsi. Letture come il semplice penetra-e-scarica e anche leggermente più avanzate come lo skip pass nell’angolo opposto, il minimo sindacale richiesto contro le difese playoff, sono parte del repertorio, ma non ancora del tutto naturali, bensì molto meccaniche, eseguite quasi a memoria. Il che lo porta, al primo errore, a doverci pensare un po’ troppo, sebbene i miglioramenti siano evidenti.

E soprattutto sono incoraggianti, rispetto anche solo a un paio di mesi prima dei playoff, quando Edwards lamentava addirittura dubbia volontà e una certa pigrizia nel dover svolgere queste mansioni da playmaker.

Pigrizia che si manifesta talvolta anche nell’altra metà campo. I mezzi che madre natura gli ha donato consentirebbero a Edwards di essere un egregio difensore in aiuto, specialmente come rim protector secondario, ma l’incapacità di leggere quello che gli succede attorno a lui, e conseguentemente di non trovarsi nella posizione corretta sono il suo punto debole peggiore ad alto livello.

Lo scorso anno, la serie contro i Dallas Mavericks ha esposto questa sua kryptonite e i Thunder sono riusciti a sfruttarla quasi involontariamente per strappare una gara-4 che avrebbe riportato la serie in parità. In un finale punto a punto, Edwards è rimasto spaesato su un taglio di Chet Holmgren da rimbalzo in attacco, perdendo traccia sia del proprio uomo che della palla, e poco dopo ha concesso a Caruso due facili punti non rimpiazzando DiVincenzo in aiuto al ferro.

Due errori che trasmettono non solo mancanza di senso della posizione, ma di percezione dell’importanza del momento. Nessuno chiede ad Ant-Man di pressare i migliori attaccanti avversari a tutto campo o di lottare con veemenza su ogni blocco mantenendo anche quel carico offensivo, ma queste sono semplicemente letture basilari che tengono in piedi la difesa di squadra.

In questo caso, il problema non è l’abuso di un superpotere, ma farne a meno deliberatamente. Il che è ancora più grave, visti i risultati raggiunti quando ha deciso di applicarsi.

EROE O ANTIEROE?
Rispondendo alla prima domanda, Edwards è tutto fuorché “arrivato”, è lontano dall’essere un prodotto finito. Anche il narratore Stephen A. Smith se ne è accorto, rimangiandosi tutto il monologo dopo l’eliminazione subita malamente da Minnesota per mano dei Thunder.

La sua vera kryptonite è stata l’assenza di assertività in entrambe le apparizioni alle Conference Finals, mettendone in mostra tutti i limiti nell’interpretazione di difese che lo costringono a pensare più del dovuto, innescando quasi uno stato catatonico, inusualmente passivo. Le esplosioni sporadiche, lo strapotere messo in mostra a fasi alterne non servono che a dimostrare l’incostanza di un processo di maturazione ancora in corso, che mira a trasformarlo da un semplice scorer a un creator a tutto tondo. Il che pone un altro interrogativo: Ant-Man vorrà mai fare davvero il supereroe?

Da un lato si è visto l’uomo franchigia, quello che in gara-3 contro i Thunder, nel momento di massima disperazione, se ne esce con un primo quarto da 16 punti e una pressione difensiva fuori da ogni logica, innescando il blowout dei suoi in una serie sin lì a senso unico. Dall’altro, c’è una gara-5, partita da dentro o fuori, dove ha solo timbrato il cartellino mentre i suoi venivano fatti a pezzi in appena 12 minuti da Shai Gilgeous-Alexander.

Da un lato si è intravisto nella recente gara-4 sempre contro OKC un giocatore che accetta con maturità di innescare i compagni sacrificando il proprio scoring, portando a un eccellente 18 su 41 di squadra al tiro pesante. Dall’altro, lo stesso giocatore ha deciso di prendersi quei due tagli in faccia con passività e di sparire nel finale, dimostrando mancanza totale di senso di urgenza.

Da un lato, c’è il giovanissimo shot maker che pareggia una gara-5 a tre secondi dalla fine nella prima apparizione ai playoff. Dall’altro, lo stesso giovanissimo difensore incauto che cerca di anticipare senza coscienza Morant, costando la partita ai suoi. Prime avvisaglie di un giocatore che si è evoluto tantissimo, ma che convive con lo stesso conflitto nella sua testa.

Edwards sta provando a fare la cosa giusta, quella che è meglio per i compagni, per il bene comune, un aspetto che anche coach Finch ha elogiato. A volte, però, tutto questo sembra risultare innaturale per lui, quasi pesargli, come se dovesse trattenersi dal tirare tutto quello che gli passa fra le mani, come se accettasse di essere telecomandato sacrificando il proprio libero arbitrio.

E proprio perché da grandi poteri derivano grandi responsabilità, è necessario che scelga se essere un supereroe, dunque una superstar, oppure un antieroe, uno che non vuoi mai affrontare ma che si presenta solo scorgendo il segnale indicato dagli altri. E soprattutto che lo fa con i suoi metodi, aspirando all’anarchia.

Quante volte lo si è visto più a suo agio flirtando con le vesti del villain? La serie più dominante della sua giovane carriera ha coinciso con il trash talking ininterrotto con il suo idolo, Kevin Durant. In una gara-7 approcciata malissimo contro i Nuggets, ha trovato le energie per esultare in faccia al pubblico di Denver dopo aver segnato la tripla dell’affondo, solo la seconda di serata su quattordici tentativi. Ha dato il meglio di sé quest’anno al primo turno contro i Lakers, cominciato con una bella multa da 50mila dollari per “linguaggio inappropriato e gesti osceni” in gara-1. Non la personalità, in campo e ancora di più fuori, che l’NBA aspira a rendere la faccia della Lega, ma quella che - proprio per questi motivi - è tra le più apprezzate dal pubblico generalista.

Per le Twin Cities, Anthony Edwards si è già dimostrato un perfetto uomo franchigia, guidando i Timberwolves per due anni di fila a un traguardo a malapena toccato in 36 anni di storia. Nemmeno Kevin Garnett ci è riuscito, per rendere l’idea. Sono 21 le vittorie ai playoff di Minnesota nelle ultime 5 stagioni, solo 18 nelle precedenti 31.

Quello che gli si chiede ora, però, è di diventare infallibile. Il prossimo step è quello di prendere in mano la partita costantemente, contro ogni singolo avversario, non contro un paio di antagonisti di serie B. Deve essere assertivo in ogni momento, non dubitare, comprendere ed eseguire di conseguenza indipendentemente dalla difesa che gli si trova di fronte. Non farsi telecomandare dal coach e dai compagni, ma eseguire con naturalezza e in autonomia.

Per quanto siano tutte doti singolarmente intraviste, Edwards non ha ancora nemmeno sfiorato questo livello, quello di Doncic (quando è in condizione) o Gilgeous-Alexander, citando proprio chi lo ha superato negli scontri diretti. E non è sicuro che ci riuscirà o avrà mai la predisposizione a farlo, o almeno non secondo quei canoni.

La storyline di ogni protagonista passa da grandi sconfitte, ma è la predisposizione dell’animo che le accoglie a decretarne la maturazione, e per questo si può solo aspettare lo sviluppo della saga. Ant-Man deve ancora arrivare ma, quando lo farà, perché lo farà, non è detto che sarà quello di cui l’NBA ha bisogno.

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