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I 9 nuovi allenatori della prossima stagione NBA
10 ott 2018
10 ott 2018
Chi sono e come intendono far giocare le proprie squadre i nuovi coach della stagione che sta per cominciare.
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Quella che si appresta a sfumare nei caldi colori autunnali è stata un’estate di grandi cambiamenti in NBA, non fosse altro per il passaggio di LeBron James ai Los Angeles Lakers. L’effetto domino che l’approdo del Re ha inevitabilmente provocato ha ridefinito i valori delle due Conference, con il divario tra Eastern e Western che sembra adesso incolmabile. I cambiamenti però non solo hanno rivoluzionato i roster delle squadre, ma hanno colpito anche le panchine NBA: dopo due anni di sostanziale immutabilità, sono state ben nove le squadre a cambiare rotta e ad affidarsi a un nuovo timoniere quest’estate. Nell’ottica di un ricambio generazionale iniziato qualche anno fa, cinque di esse hanno promosso a head coach un esordiente, e in molti di questi casi si è fatta la storia.

Con il training camp alle porte ed in attesa di scoprire come le squadre risponderanno ai loro dettami, abbiamo deciso per questa nuova puntata di X&Os di tracciare i profili di ognuno di loro: chi sono, cosa hanno fatto per meritarsi la chiamata, cosa faranno per rilanciare le rispettive squadre.

Igor Kokoskov

Foto di Getty Images

Il Golden Boy serbo che ha trascinato la Slovenia al primo e storico oro agli Europei del 2017 ha tutta l’aria del predestinato: con il suo approdo ai Phoenix Suns è il primo coach europeo di sempre a rivestire il ruolo di capo-allenatore in NBA, mentre nel 1999 è stato il primo coach europeo di sempre a diventare assistente nel college basket, chiamato a Missouri dal suo amico Quin Snyder. Nel 2000, invece, è diventato il primo coach europeo di sempre ad essere scelto per il posto di assistente su una panchina NBA, quella degli L.A. Clippers. La sua gavetta oltre oceano è lunga 18 anni nei quali ha girato le panchine di Clippers, Detroit Pistons (vincendo l’anello del 2004 con Larry Brown), Phoenix Suns (quelli dell’era Gentry-Nash), Cleveland Cavaliers, Orlando Magic e infine Utah Jazz dove si è ricongiunto con Snyder. Nel mezzo due esperienze alla guida della nazionale serba (da assistente) e quella georgiana, oltre alla già citata cavalcata trionfale slovena.

È una delle menti di basket più brillanti e creative della nostra epoca e uno dei promotori di un tipo di basket evoluto, in cui il movimento di palla e di uomini è confezionato su misura per creare molteplici opzioni per l’attacco e coinvolgere tutti e cinque i giocatori in campo. Armonia e sincronia di movimenti sono alla base di ogni set che è studiato con meticolosa cura per portare le difese avversarie a sbagliare e offrire all’attacco quel fatidico “vantaggio” da poter attaccare.

Kokoskov alla Summer League di Las Vegas ha già messo in luce parte della sua sapienza cestistica.

I Jazz di Snyder (e Kokoskov) hanno espresso al massimo questo concetto di “Advantange Basketball” giungendo da cenerentola alle semifinali di Conference dopo aver fatto lo scalpo ai ben più talentuosi Oklahoma City Thunder, mentre la Slovenia di Dragic e Doncic assieme a 10 gregari ha vinto l’Europeo giocando questo tipo di basket.

I Suns sono destinati a bazzicare i bassifondi della Western Conference per qualche altra stagione perché comunque la squadra è giovane e costruita per avere successo più avanti, ma per la prima volta da quattro anni è cambiato l’approccio: non più tanking sfrenato per avere più palline disponibili al prossimo Draft, ma l’obiettivo di una crescita costante guidata da un uomo che sembra trasformare in oro tutto ciò che tocca.

James Borrego

Foto di Getty Images

L’ultimo prodotto del “coaching tree” di Gregg Popovich è il primo ispanico a diventare capo-allenatore nella storia della NBA, chiudendo così la sua quindicennale esperienza da assistente che lo ha portato da San Antonio a New Orleans, passando per Orlando (con un esperienza da coach ad interim per 30 partite nel 2015) per poi tornare a San Antonio e spiccare il volo verso Charlotte.

Borrego arriva alla corte di Michael Jordan con la raccomandazione di Gregg Popovich e le credenziali di un allenatore dalle spiccate dote umane e profonda conoscenza del gioco. Per gli Hornets non sarà un anno di transizione, né tantomeno dedicato esclusivamente allo sviluppo dei giocatori nonostante la nomea di Borrego nell’ambito del player development: l’obiettivo dichiarato del neo coach e del neo general manager Mitch Kupchak è di puntare ai playoff e non sacrificare vittorie sull’altare dello sviluppo dei vari Bridges, Monk, Graham, Bacon ecc. La priorità è vincere, e di pari passo creare un ambiente competitivo in cui i giovani possano emergere.

Borrego vuol creare una mentalità “spursiana” in un’organizzazione che negli ultimi due anni si è accontentata della più assoluta mediocrità, indotta da un monte salari ingolfato per i prossimi anni e alcune scelte manageriali che si sono rivelate poco lungimiranti. Il coach ha già dichiarato che vuole giocare un basket più dinamico, un cambiamento drastico rispetto alla gestione Clifford che professava un gioco più compassato: gli Hornets passeranno da ritmi controllati ad un basket “allungato” sui 28 metri fatto di percussioni a canestro e spazi larghi, ora che non c’è più il totem Dwight Howard a ingolfare l’area colorata. Massima esaltazione quindi del concetto di dentro-fuori indotto dal penetra e scarica per essere costantemente aggressivi verso il ferro.

Nonostante i limiti di talento e quelli rappresentati dagli infortuni delle ultime stagioni, gli Hornets sono una squadra versatile, che nelle giuste mani può sbloccare parte del potenziale inespresso dei suoi interpreti e Charlotte pensa di aver trovato in Borrego l’uomo giusto per ripartire per rilanciarne le ambizioni.

Steve Clifford

Foto di Fernando Medina/NBAE via Getty Images

Quello di Steve Clifford è un gradito ritorno a Orlando, dove per sua stessa ammissione ha vissuto gli anni più belli e formativi della sua trentennale carriera da allenatore, come assistente di Stan Van Gundy in quella versione dei Magic che raggiunse le Finali NBA nel 2009.

Clifford è un allenatore estremamente meticoloso, maniacale, uno stakanovista del lavoro in palestra e della preparazione della partite, dote che lo ha portato a guadagnarsi il rispetto dei colleghi, ma che lo anche spinto incontro a gravi problemi di salute: lo scorso anno ha saltato 21 partite di regular season per emicranie e privazione del sonno derivanti dallo stress e dai ritmi serrati della stagione NBA che ne hanno debilitato il fisico già provato da un’operazione al cuore a cui si è sottoposto nel 2013.

Ora però Clifford si è completamente ristabilito ed è pronto a ripartire da Orlando, squadra giovane e ricca di incognite che deve invertire rotta per uscire dal momento più buio della propria storia. Tutto sommato è la stessa situazione in cui si trovò cinque anni fa quando prese in mano gli allora Bobcats allo sbando e li portò ai playoff in due dei suoi primi tre anni da head coach ridando credibilità alla franchigia considerata lo zimbello della lega.

La ricetta di Clifford di allora fu semplice: grande attenzione all’esecuzione difensiva e disciplina in attacco. Clifford è pragmatico, ha il pregio di massimizzare le qualità dei suoi giocatori e non è conosciuto per la sua pazienza con i rookie, ma finora si è sempre trovato in una situazione in cui gli erano chiesti risultati e non perdere tempo a sviluppare i giocatori. Ad Orlando la musica sarà diversa: non sono richiesti risultati immediati ma di trovare risposte, capire quale strada intraprendere e con chi del roster attuale percorrerla per iniziare ad incanalare il potenziale grezzo di alcuni giocatori verso i binari giusti, a partire dalle prime scelte degli ultimi due anni, Jonathan Isaac e Mo Bamba.

Lloyd Pierce

Foto di Joe Murphy/Getty Images

Gli Atlanta Hawks hanno deciso di rompere definitivamente i ponti con il passato liberando Budenholzer e nominando al suo posto Lloyd Pierce, un nuovo inizio che persegue l’ottica di crescere passo dopo passo, senza fretta, con lo sguardo rivolto al futuro.

Lloyd Pierce è stata una scelta lungimirante della dirigenza: seppur sconosciuto agli appassionati occasionali, gode di molta stima negli ambienti NBA tra addetti ai lavori e giocatori per le sue qualità umane e l’ardore con cui porta avanti il suo lavoro. Nelle ultime cinque stagioni è stato la spalla di coach Brett Brown a Philadelphia, occupandosi dello sviluppo dei giovani e curando la fase difensiva dei Sixers che hanno chiuso al 3° posto complessivo per efficienza e al primo posto per percentuale concessa agli avversari.

Da giocatore prima e da assistente poi Pierce ha sempre avuto nel DNA la predilezione per la fase difensiva: quando era a Santa Clara, compagno di backcourt di Steve Nash, era un difensore infaticabile famoso per i suoi recuperi e la sua grande intensità in pressione sulla palla, mentre da coach ha vissuto sulla propria pelle la nascita della filosofia “Grit & Grind” instillata da coach Lionel Hollins, di cui è stato assistente per due stagioni a Memphis.

È proprio dalla difesa che vuol far ripartire il nuovo corso degli Atlanta Hawks, per costruire una squadra operaia votata al sacrificio e all’abnegazione difensiva. Sembra il ritratto di un sergente di ferro, ma in realtà Pierce è un players coach, un mentore per i giovani, un leader naturale e una persona in grado di stringere forti legami con i suoi giocatori, da LeBron James a Steph Curry - entrambi allenati nel corso del suo peregrinare NBA come assistente, tra l’altro i primi due a congratularsi con lui per il nuovo lavoro.

Tutto il carisma e la personalità di Lloyd Pierce.

Identità difensiva, versatilità su entrambi i lati del campo, potenziale da sviluppare: il lavoro non mancherà di certo a Lloyd Pierce che con il suo stile di gioco può riaccendere la passione di una città che ha bisogno di tornare a innamorarsi degli Hawks.

Mike Budenholzer

Foto di Gary Dineen/NBAE via Getty Images

Dopo cinque anni ed i migliori risultati ottenuti nella storia della franchigia, le strade di Budenholzer e gli Hawks si sono divise. In estate l’ex assistente di Popovich ha avuto il telefono in ebollizione perché ogni squadra con una panchina vacante lo ha messo in cima alla propria lista dei candidati: alla fine ha prevalso Milwaukee, che oltre a mettere sul piatto a un ricco quadriennale ha offerto a “Bud” la possibilità di allenare il talento unico di Giannis Antetokounmpo.

Budenholzer porta in Wisconsin il suo basket altamente strutturato, fatto di motion offense, letture, armonia e fluidità offensiva: ai Bucks non deve essere sembrato vero di potersi affidare a mani cotanto sapienti dopo l’esperienza Kidd/Prunty che ha devastato l’entusiasmo che si era creato attorno ai Bucks e a “The Greek Freak”.

Un esempio della Motion Offense che Budenholzer ha installato ad Atlanta: cinque giocatori fuori dalla linea da tre punti, ribaltamento e via di letture senza mai fermarsi. Nell’attacco di Budenholzer, un’opzione apre sempre ulteriori opzioni di gioco.

Budenholzer è considerato uno dei migliori coach di questa generazione a disegnare attacco, ma avrà da fare i conti con il problema atavico dei Bucks che riguarda le spaziature. Rispetto alla gestione Kidd ci sarà da aspettarsi una grandinata di triple, un ritmo di gioco più alto, e l’ossessiva ricerca della transizione per mascherare i limiti di un roster a cui mancano specialisti e tiratori di alto livello.

Da non trascurare l’impatto che può avere Budenholzer sulla difesa dei Bucks: ha portato gli Hawks degli anni d’oro a forgiare una difesa di alto livello, da top-5 in NBA, senza avere a roster un rim protector tradizionale (al di là del magistero di Al Horford), ma volgendo a proprio vantaggio il materiale umano e tecnico a disposizione. I Bucks hanno un potenziale difensivo mostruoso e versatilità da vendere che Kidd non ha saputo sfruttare ma che Budenholzer può plasmare e indirizzare nella giusta direzione.

Questa unione sembra il classico matrimonio combinato da cui può nascere l’amore vero: i Bucks (e Antetokounmpo) avevano bisogno di Budenholzer come Budenholzer aveva bisogno dei Bucks (e di Antetokounmpo). Se poi scoccherà la scintilla, lo scopriremo solo vivendo.

David Fizdale

Foto di Nathaniel S. Butler/Getty Images

Dopo anni di teatrini, compromessi e incoerenza nella costruzione del roster, i New York Knicks hanno deciso di darci un taglio e dopo la fallimentare gestione di Phil Jackson hanno deciso di ripartire di capo, stavolta sul serio. David Fizdale è stato scelto perché incarna i valori che i nuovi Knicks vogliono instaurare: spirito di sacrificio ed etica lavorativa per estirpare le brutte abitudini recenti e proiettarsi verso il futuro armati di pazienza.

Fizdale è un uomo di un’intelligenza sopraffina, che si è fatto da solo, che ha forgiato rapporti fraterni con colleghi e giocatori (anche se non con tutti), e quando parla lo fa in modo diretto, mai banale, arrivando sempre al punto. Questa sua chiarezza e onestà a Memphis lo ha portato a scontrarsi con la stella della squadra, Marc Gasol, e a perdere il posto in maniera sorprendente. Ha pagato anche colpe non sue, perché a Memphis la dirigenza, che lo aveva incaricato di creare un certo tipo di mentalità, gli ha voltato le spalle alla prima occasione, ma a New York trova terreno fertile per piantare le radici della sua visione di basket tutta incentrata sul “free flowing”, ovvero la capacità di giocare organizzati dove all’apparenza c’è il caos in un flusso costante di gioco basato su letture, e sulla filosofia “positionless” che nei suoi anni di assistente a Miami sotto Erik Spoelstra ha contribuito a diffondere e sviluppare.

Nell’attacco di Fizdale chiunque può giocare al gomito e chiunque può bloccare o sfruttare i blocchi: il ruolo non imbriglia il talento dei giocatori, l’importante è muoversi e mantenere le giuste spaziature.

Per i Knicks cambiare approccio dopo anni di triangolo, attacco stagnante e pessime scelte di tiro, rappresenta un vero e proprio toccasana. Nella sua esperienza a Memphis coach Fizdale ha dato inoltre dimostrazione di saper allenare con successo una difesa di alto livello ed è lì che all’inizio si concentreranno gli sforzi del nuovo coaching staff per creare la nuova identità dei Knicks, che probabilmente dovrà fare a meno per tutta la stagione del proprio uomo di punta, Kristaps Porzingis.

Per Fizdale l’obiettivo è far sentire tutti importanti e coinvolti per modellare un gruppo compatto ed unito con cui andare in “guerra” ogni singola sera. Dell’esperienza di Memphis ha riconosciuto con grande umiltà i propri errori e a New York si è rimesso in gioco per conquistare la fiducia dei propri giocatori, dal più importante (Porzingis) all’ultimo degli arrivati (Kevin Knox). Passerà del tempo prima di vedere i Knicks ai playoff, ma un cambio netto di cultura, e l’uomo giusto per portarla avanti, sono un passo importante, e per la prima volta da anni i Knicks sono stati disposti a compierlo.

J.B. Bickerstaff

Foto di Joe Murphy/Getty Images

Negli ultimi anni J.B. Bickerstaff avrà sicuramente pensato di essere stato l’uomo giusto al posto sbagliato: tre anni fa i Rockets licenziarono Kevin McHale e gli affidarono il compito di gestire una squadra divisa sul fronte Harden-Howard. Dopo essere stato accantonato dai Rockets, si è rifugiato a Memphis chiamato dal suo amico fraterno David Fizdale (è stato suo testimone di nozze), salvo subentrargli dopo una stagione e poche gare di quella successiva. In queste due esperienze ad interim a Bickerstaff è stato chiesto di traghettare in porto una nave che imbarcava acqua da tutte le parti, ma non ha mai potuto dare prova del proprio valore da coach fino a quando Memphis non gli ha offerto finalmente la chance di mettersi in gioco, entrando nella storia: Bickerstaff è figlio di Bernie Bickerstaff, decano delle panchine NBA la cui ultima tappa a Charlotte ha corrisposto all’esordio del figlio come assistente, e sono diventati la prima coppia padre-figlio afroamericana a diventare head coach nella NBA.

La scelta di proseguire il rapporto con Bickerstaff per Memphis è stata di convenienza - tra le panchine vacanti non era certo la più appetibile, data la situazione salariale bloccata e vuoti di potere dirigenziali - ma anche un segno di continuità verso quella cultura di “Grit & Grind” che oramai, volente o nolente, è diventata il segno distintivo dei Grizzlies.

È stato lo stesso Bickerstaff a ribadire che il piano è fare “zig” mentre gli altri fanno “zag” ed ha perfettamente senso: i Grizzlies non sono certo la squadra più talentuosa della lega quindi devono farsi furbi, usare muscoli e cervello per attaccare e difendere, per rendere ogni partita una guerra di trincea. Proteggere il ferro e controllare i tabelloni sono le priorità di un allenatore che nel corso della stagione ha bisogno di cavare il sangue dalla rape pescando tra i gregari elementi che possano incidere, magari riabilitando qualche reclamation project, una delle virtù del neo coach. I Grizzlies hanno bisogno di guardare avanti sviluppando il talento di Jaren Jackson Jr., senza dimenticare il loro retaggio che li spingerà a lottare per un posto ai playoff e J.B. Bickerstaff sembra una buona base di partenza per perseguire entrambi gli obiettivi.

Nick Nurse

Quando Masai Ujiri ha premuto il grilleto licenziando Dwane Casey, la panchina dei Raptors è diventata la meta più ambita da ogni coach free agent di alto profilo. Il GM dei canadesi ha però optato per la soluzione interna, promuovendo al ruolo di head coach l’assistente Nick Nurse, un rookie di 51 anni con una gavetta lunga 28 che lo ha portato ad allenare in Belgio, Inghilterra, minors americane e D-League. Benché sconosciuto al grande pubblico, Nurse è stato uno dei principali artefici del nuovo attacco Raptors, meno iso-centrico e più democratico che ha avuto come effetto collaterale quello di far emergere la second unit canadese come una delle storie della scorsa stagione.

Nei miglioramenti in termini di circolazione di palla e propensione all’extra-pass dell’attacco Raptors della scorsa stagione lo zampino di Nick Nurse è stato fondamentale.

Nurse ha convinto la dirigenza a dargli una chance con il suo approccio creativo ed innovativo verso il gioco: dopo sette stagioni di gioco monocorde proposto da Casey (per quanto supportato dai risultati), per Toronto è diventato necessario orientarsi verso un gioco più moderno e imprevedibile, anche alla luce della trade finalizzata a luglio.

L’arrivo di Kawhi Leonard e Danny Grenn nell’affaire DeRozan è un upgrade che offre versatilità su ambo i lati del campo al neo coach dei Raptors, che ha già ben chiara la rotta da tracciare: la scorsa stagione i Raptors sono stati la seconda miglior squadra NBA dietro ai Jazz per numero di penetrazioni a partita, la prima in assoluto per punti generati da tali situazioni e scarichi che hanno portato in dote quasi 33 triple scagliate a partite. Nel playbook semplificato di Casey però c’era poco movimento, di palla e di uomini, ed il gioco alla lunga diventava prevedibile e statico, specialmente ai playoff.

Con una star, Leonard appunto, che non ferma il pallone ogni azione e maggiore coinvolgimento dei lunghi, in particolare Valanciunas ed il suo insospettabile QI cestistico, in fase di costruzione di gioco, Nurse vuole alzare la qualità del proprio attacco senza perdere l’efficienza, la terza più alta NBA dietro a Warriors e Rockets, per arrivare a fare la voce grossa nella Eastern Conference e colmare il vuoto di potere lasciato vacante dalla partenza di LeBron James verso la città degli angeli.

Dwane Casey

Foto di Gregory Shamus/Getty Images

Era già accaduto in passato che l’allenatore dell’anno in carica nel giro di una stagione rimanesse senza lavoro (George Karl nel 2013), ma non era mai successo che una squadra NBA licenziasse il proprio capo-allenatore prima ancora della nomina di Coach of the Year come è successo a Dwyane Casey, a cui qualche giorno prima di ricevere il premio è stato dato il benservito dai Toronto Raptors.

I Pistons, giunti alla fine di un ciclo e desiderosi di cominciarne uno nuovo partendo subito con il piede giusto, hanno voluto affidarsi a un coach totalmente differente per metodi e idee rispetto a Stan Van Gundy: Casey non è propriamente il ritratto della creatività con la lavagnetta in mano: il suo playbook offensivo e difensivo è semplice e lineare al limite dell’essenzialità, ma ciò che ha spinto la dirigenza a innamorarsi di lui sono la dote di tenere in riga i giocatori e la capacità di sviluppare le potenzialità (spesso inespresse o nascoste) di tutti, giovani e meno giovani.

Per la dirigenza dei Pistons le qualità appena esposte rappresentano l’unica reale chance di migliorare la propria condizione e risalire la china dopo un paio di stagioni con più ombre che luci: il compito di Casey è quello di riportare i Pistons nel basket che conta alzando il livello del supporting cast al servizio dei due All-Star Griffin e Drummond, e al contempo far leggere a tutte la parti in causa la stessa pagina del libro, cementando il gruppo attorno a pochi e chiari principi di gioco.

L’attacco di Casey si basa sul principio di “Spread Offense”, ovvero allargare gli spazi perimetrali per rendere efficace il pick and roll, mentre nella propria metà Casey porta in dote principi difensivi di grande responsabilità individuale per innescare il minor numero possibile di rotazioni ed avere il controllo del perimetro. I Raptors lo scorso anno erano tra la squadre che difendevano meglio la linea dei tre punti, agli antipodi rispetto ai Pistons che erano tra le più soft sotto questo aspetto.

In questa clip Anunoby viene utilizzato come stopper di Harden, mentre gli altri Raptor hanno il compito di stare quanto più possibile con i tiratori. Il rookie fa un grandissimo lavoro per stare sempre davanti la palla e l’unico aiuto è quello che gli fornisce Valanciunas. I Pistons hanno potenzialmente ottimi difensori sulla palla per replicare questa strategia.

A Detroit il materiale umano e tecnico è adatto allo scopo: c’è solo da creare la chimica giusta, cosa che Casey a Toronto in una situazione analoga ha fatto bene, guidando i Raptors ai vertici della Eastern Conference pur partendo da poche certezze. Come hanno dimostrato le quattro cocenti uscite di scena ai playoff nelle ultime quattro stagioni, non è però il coach con cui fare il salto di qualità e puntare all’obiettivo grosso, ma al momento, e per i prossimi due-tre anni almeno, non è quello che gli chiedono i Pistons.

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