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Perché con la Nazionale turca la facciamo così facile?
14 ott 2019
14 ott 2019
Le cose sono più complicate di quello che sembrano.
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Se seguite il calcio e avete uno smartphone è molto probabile che tra i vostri scroll a un certo punto vi sia apparsa questa foto dei giocatori turchi, forse accompagnata da qualche insulto.

Se non avete la minima idea di cosa si tratti o se siete stati troppo impegnati nel weekend per approfondire, eccovi un piccolo riepilogo.

La foto è stata scattata alla fine della partita Turchia-Albania, tenutasi venerdì nello stadio del Fenerbahce, a Istanbul, e finita 1-0 per la squadra di Senol Gunes. Il gesto di portarsi la mano tesa alla fronte simulando un saluto militare, che compiono quasi tutti i giocatori titolari (e alcune riserve) subito dopo il gol al 90esimo di Tosun, è un modo di omaggiare la decisione presa dalla Turchia mercoledì scorso, di avviare cioè un nuovo intervento militare nel nord-est della Siria.

Dopo la decisione di Donald Trump di ritirare i pochi soldati americani presenti in quella regione, Erdogan ha deciso di intervenire militarmente per mettere sotto controllo la zona. Il nord-est della Siria fino ad oggi era di fatto controllato dalle forze curde del SDF (le Forze Democratiche Siriane), tra cui il YPG (Unione di Protezione Popolare), visto dal governo turco come un prolungamento del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, considerato cioè come un’organizzazione terroristica, contro cui attua politiche repressive e violente da molti anni.

Prima della partita, molti dei giocatori convocati in Nazionale da Gunes hanno pubblicato sui propri canali social dei post direttamente o indirettamente a favore di questo intervento militare. Cengiz Ünder ha pubblicato su Twitter una foto di sé stesso, con la maglia della Roma, mentre esulta allo stesso modo, mentre Demiral è stato anche più esplicito, pubblicando una foto di un blindato turco e di un militare che tiene per mano una bambina, accompagnata dall’hashtag #OperationPeaceSpring – cioè Operazione Fonte di Pace, il nome dato dal governo turco all’intervento militare nel nord-est della Siria.

Un nome fuorviante, secondo molti, dato che l’operazione potrebbe ravvivare la presenza dell’ISIS nella zona e portare anche a episodi di violenza o addirittura pulizia etnica nei confronti dei curdi presenti nella regione, indipendentemente cioè se facciano parte delle SDF o siano semplici civili.

Quella foto è, insomma, è un gesto di sostegno politico a un’aggressione militare che potrebbe avere conseguenze molto gravi. In questo senso, la reazione quasi unanime, durissima, indignata nei confronti dei giocatori che hanno preso parte a quell’esultanza che ho letto sui social è perfettamente comprensibile.

Non approfondirò in questo pezzo le conseguenze dell’intervento militare turco, quanto piuttosto della reazione che l’opinione pubblica, soprattutto italiana, ha avuto. E non sto parlando solo delle risposte dirette ai tweet dei calciatori interessati – “Latrina tu e Erdogan”, “Arruolati, così ti diverti”, “Roma, è tempo di licenziare questo guerrafondaio” – ma anche della stampa italiana, che in molti casi ha preso la stessa posizione.

Beppe Severgnini, ad esempio, in un editoriale sul Corriere della Sera si rivolge direttamente a Under, come se fosse un alunno ignorante. «Sarebbe bene spiegare a Cengiz Ünder, talentuoso attaccante della Roma, che l’assalto turco ai curdi in Siria rischia di liberare migliaia di prigionieri dell’Isis, che potrebbero tornare a commettere abomini in Europa. Bisognerebbe dirgli che ricattare l’Europa — zitti, o vi riempiamo di profughi — è disgustoso», scrive Severgnini.

Forse però sarebbe anche bene ricordare a Severgnini che nel marzo del 2016, quando l’Unione Europea ha stretto un accordo con la Turchia per fermare i flussi migratori provenienti dal Medio Oriente, i singoli Stati erano ben felici di farsi ricattare, arrivando a pagare al governo di Erdogan ben 3 miliardi di euro pur di mettere un freno a un fenomeno che non erano in grado e non volevano gestire.

Ma l’equivoco più grande espresso dall’articolo di Severgnini è quello di trattare i calciatori alla stregua di normali dipendenti aziendali: «È sorprendente che le società non riescano a tenere sotto controllo le esuberanze social dei propri giocatori. Sono aziende, in fin dei conti; e i calciatori sono (ricchi) dipendenti. Dubito che un dipendente della Ferrero o della Volkswagen possa inneggiare a una guerra, indossando la divisa aziendale».

Quello che chiediamo al calcio, però, è proprio emanciparsi dalle dinamiche puramente aziendali. In particolare il calcio per nazionali, inserito per sua natura in una logica nazionalista. Il discorso di Severgnini ignora che i calciatori, banalmente, vestono delle maglie che sfoggiano i simboli nazionali del paese che rappresentano. Quando sentono l'inno devono mettersi una mano sul cuore e gridarlo come se stessero per andare in guerra, se non lo fanno ci scandalizziamo - in questo senso parlando di Nazionali sono ancora più contraddittorie le parole del vicepresidente della UEFA, Michele Uva, secondo cui lo sport «non può permettersi segni distintivi di natura politica».

E mi sembra ancora più demagogico che questa parte di realtà sia eliminata nei giorni in cui stiamo discutendo animatamente del colore della terza maglia della nostra Nazionale, perché per una parte dell’opinione pubblica “questa è la Nazionale, qui la maglia è una bandiera”, come affermato da un recente servizio del TG3. E, in diretta durante la partita con la Grecia, il commentatore Alberto Rimedio ha detto che quanto meno si poteva tenere il tricolore (che nella maglia verde invece è dorato) che lo fa sentire orgoglioso.

Il punto è che l’opinione pubblica e i media italiani stanno portando avanti un’operazione di semplificazione che non fa comodo a nessuno. Non fraintendetemi: penso che un sentimento di indignazione verso quello che sta succedendo sia naturale (e che sia a un livello di importanza superiore alle polemiche sulla maglia verde dell’Italia). Basta giudicare dall’esterno la situazione turco-siriana applicando determinati valori universali. Mi chiedo però se sia giusto trattarla come una libera espressione individuale delle idee dei calciatori, un gesto sincero di cui chiedere conto, astratti dal loro contesto sociale e politico.

Non dico che nessun calciatore sia sincero nella sua presa di posizione. Ci saranno sicuramente dei casi, tra quei calciatori, per cui quel gesto è sincero e disinteressato, spontaneo. Ma, insomma, il fatto che quasi tutti i calciatori convocati dalla Nazionale turca in questa pausa abbiano avuto lo stesso atteggiamento non dovrebbe metterci in guardia riguardo alla possibilità che ci possa essere anche dell’altro?

Da dove nasce l’esultanza militare

L’esultanza militare dei giocatori turchi si era già vista in Italia per la prima volta più di un anno e mezzo fa. Era il febbraio del 2018 quando, dopo una doppietta al Benevento all’Olimpico, Cengiz Ünder aveva esultato in questo modo di fronte a una telecamera. Anche in quel caso il gesto era stato considerato come un generico appoggio al regime di Erdogan. Quello che pochi avevano notato è che arrivava a circa un mese da quando l’esercito turco aveva fatto partire la cosiddetta "Operazione Ramoscello d’Ulivo".

Un intervento militare per la conquista della regione intorno alla città siriana di Afrin, che dal 2012, nel contesto del collasso del regime di Assad, era stata messa sotto controllo dalle forze curde del YPG. Ma forse allora eravamo meno informati, meno interessati alla situazione dei curdi in Siria.

Eppure, anche allora bastava allargare di poco lo sguardo per capire che quell’esultanza non fosse un’invenzione di Cengiz Ünder. Pochi giorni prima la stessa identica esultanza era stata proposta da Emanuel Adebayor, dal 2017 un giocatore dell’Istanbul Basaksehir, dopo un gol al Karabukspör, nel campionato turco.

«È il mio modo di rispettare quelli che rischiano la propria vita per mantenerci al sicuro», disse Adebayor dopo quella partita.

https://twitter.com/Turkish_Futbol1/status/958102947560329216

Adebayor non è stato l’unico giocatore dell’Istanbul Basaksehir a fare quell’esultanza dopo un gol - l’aveva fatto anche Arda Turan - ma ho citato il suo esempio per tirare in ballo un giocatore totalmente al di fuori dell’universo della politica turca e delle controversie della guerra in Siria.

E quindi, più che sulla scelta individuale di Adebayor, forse ha senso concentrarsi sull’Istanbul Basaksehir, un club controllato indirettamente dal Ministero dello Sport turco, il cui presidente Göksel Gümüşdağ è molto vicino al governo - ed è anche sposato con una delle nipoti di Erdogan - e che ha ritirato la maglia numero 12 in onore proprio del presidente turco.

Istanbul Basaksehir che, per inciso, è anche il club dove Cengiz Ünder ha fatto il passo decisivo nel calcio professionistico europeo. Insomma: non è così assurdo pensare che l’esultanza fosse un’idea del club, più che dei giocatori. E non di un club qualunque, ma, come detto, di un club molto vicino al governo Erdogan. Questi sono solo alcuni tasselli di un contesto complesso, un mosaico di cui conosciamo solo piccole parti e che dovrebbe spingerci a voler capire meglio cosa sta succedendo, piuttosto che schierarci.

A questo proposito è utile ricordare che pochi giorni prima delle esultanze di Adebayor e Ünder dello scorso anno, Erdogan andava in piazza a Bursa a dire questo: «Alcuni rappresentanti dell’HDP [il Partito Democratico per il Popolo, filo-curdo, con 60 seggi nel parlamento turco ndr] si sono appellati ai curdi chiedendogli di scendere in piazza. Finora non molti hanno dato ascolto. Ma lasciatemi dire una cosa: non ci pensate nemmeno. Chi risponderà a questo appello pagherà un caro prezzo. Questa è una guerra nazionale. E schiacceremo chiunque vi si opponga».

Durante i giorni dell’operazione verranno arrestate centinaia di oppositori, tra cui giornalisti e politici. E secondo l'ONG Human Rights Watch al momento ci sono quasi 50mila persone nelle carceri turche con l’accusa di terrorismo che, in realtà, sarebbero oppositori politici di Erdogan.

Adesso, se immaginiamo che l’invito a fare dei post di appoggio all’intervento militare turco prima delle partite della Nazionale, così come l’idea di festeggiare con il saluto militare i gol, fosse venuto direttamente dal governo, come forma di propaganda - cosa non inverosimile - possiamo ancora pensare che sarebbe stato semplice per i giocatori opporsi?

Certo, i giocatori che avrebbero voluto opporsi avrebbero potuto farsi scudo della propria fama, ignorando però le possibili conseguenze sui propri cari rimasti in Turchia, mettendo a repentaglio la propria convocazione in Nazionale se non addirittura la propria carriera.

Il fatto è che amiamo i gesti eroici finché non ne conosciamo il prezzo.

Il prezzo che, per esempio, ha dovuto pagare Hakan Sukur, eletto nel 2011 nel parlamento turco tra le fila dell’AKP (il partito di Erdogan) e costretto poi a scappare nel 2015 a Palo Alto, in California, dove adesso gestisce un bar. Hakan Sukur ha visto il proprio padre andare in carcere per quasi un anno, le proprie case, i propri conti in banca, confiscati dallo stato turco.

Oppure pensiamo al prezzo che ha dovuto pagare il cestista NBA Enes Kanter, che dopo essere stato condannato a quattro anni di carcere ed essere diventato apolide, dopo la decisione della Turchia di cancellargli il passaporto, dagli Stati Uniti ha visto la propria famiglia disconoscerlo pubblicamente, forse per paura di ripercussioni. Sì, è un prezzo che avrebbero potuto pagare anche i calciatori, se solo avessero voluto. Ma non tutti sono eroici come Kanter.

Non saremo noi a non voler rischiare niente?

Non voglio legittimare il gesto dei calciatori turchi, oppure offrirgli una facile scappatoia. Non possiamo e forse non potremo mai sapere quanti di quei calciatori che venerdì hanno fatto il saluto militare sotto la curva avrebbero voluto in realtà non farlo, se avessero tutti coscienza di quello che stavano facendo o se, magari qualcuno, la stava prendendo alla leggera. Non è detto, anzi, che molti di loro in realtà non abbraccino veramente quel messaggio.

Quello che mi interessa non è questo, quanto piuttosto che in pochissimi nel pubblico italiano ed europeo siano riusciti a mettersi nei loro panni prendendo in considerazione altre possibilità. O meglio: che non abbiano voluto mettersi nei loro panni.

Forse uscire da una contrapposizione polarizzante è troppo difficile con un personaggio come Erdogan e con una situazione così complessa come quella turco-siriana, in cui è apparentemente facile mettersi dalla parte del giusto. Dico apparentemente, perché è sufficiente pensare che l’Italia è legata alla Turchia dall’alleanza militare della NATO - il cui segretario generale ha giustificato l’operazione militare citando «legittime preoccupazioni sulla propria sicurezza» - e che l’anno scorso le ha venduto circa 360 milioni di euro di materiale bellico, o che la repressione nei confronti dei curdi in Turchia non nasce certo oggi, per capire che la nostra posizione, come Stato e come opinione pubblica, è più ambigua di quanto ci piace pensare. E che, quindi, è anche un problema nostro, anche se dalle nostre responsabilità ci consideriamo assolti a priori.

https://twitter.com/MesutOzil1088/status/1020984884431638528

Lo scorso anno Mesut Özil, dopo aver pubblicato una foto con Erdogan, ha deciso di abbandonare la Nazionale tedesca per via delle critiche e gli insulti ricevuti anche da parte del mondo politico e sportivo tedesco.

Özil aveva pubblicato un lungo comunicato in cui spiegava la sua decisione, affermando che per lui farsi una foto con Erdogan significava semplicemente portare rispetto verso la parte turca della sua identità. «Non è che le mie radici turche mi rendono un obiettivo più degno d’attenzione?», si chiedeva Özil nel lungo comunicato.

Non c’è una giusta interpretazione da dare a questa situazione. Ed è proprio questo il punto che, secondo me, solleva anche la vicenda Özil. La capacità di prendere in considerazione delle possibilità che non siano quelle più ovvie e immediate, conservare il dubbio, è forse l’unico modo che abbiamo per abbattere il muro di pregiudizi che naturalmente ci divide da persone con cui, per ragioni culturali, linguistiche, geografiche, avere un dialogo diretto è più difficile. E alla fine, come ha detto David Foster Wallace nel suo discorso This Is Water: «Se siete automaticamente sicuri di sapere cos’è la realtà, e state operando sulla base della vostra configurazione di base, allora voi, come me, probabilmente non avrete voglia di considerare possibilità che non siano fastidiose e deprimenti».

Come veniva da chiedersi se con un giocatore dalle origini “più tedesche” di Özil sarebbe andata allo stesso modo, allora oggi dobbiamo chiederci se con i giocatori italiani ed europei abbiamo gli stessi standard che abbiamo applicato ai giocatori turchi.

A quanti altri calciatori abbiamo chiesto di rendere conto delle proprie posizioni politiche, o delle loro foto con leader politici, o scritto direttamente per invitarli a prendere una posizione, in un contesto molto meno difficile di quello turco?

Abbiamo rinfacciato i bombardamenti francesi in Siria ai giocatori della Nazionale francese dopo la foto con Macron per la vittoria della Coppa del Mondo? Pur nella consapevolezza che stiamo parlando di due sistemi politici con un grado di "democrazia" diverso, ma proprio questo dovrebbe spingerci a riflettere su quanto sia più costoso opporsi a un regime illiberale che all'interno di uno democratico.

Insomma, se semplifichiamo la realtà in maniera strumentale nei casi che ci fanno comodo e che ci permettono di stare dalla parte del giusto, una realtà sempre più complessa, che richiede maggiore informazione e ragionamenti più profondi, a lungo andare ci anestetizziamo e diventiamo ciechi di fronte alle battaglie che ci riguardano veramente, che ci dovrebbero interessare davvero a livello personale. In fondo, una società sempre più polarizzata e divisiva fa comodo proprio a quei governi che vogliono manipolare l’opinione pubblica con la propaganda neanche troppo mascherata.

Stasera si giocherà Francia-Turchia e c’è il timore fondato che lo Stade de France diventi un nuovo palcoscenico del contrasto diplomatico dei due paesi, con i tifosi turchi e francesi che forse replicheranno sugli spalti le posizioni dei rispettivi paesi.

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