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Foto di Joris Verwijst/Orange Pictures/BSR Agency/Getty Images
Calcio Daniele Manusia 15 giugno 2022 7'

Chi vuole essere, l’Italia di Mancini?

La sconfitta contro la Germania ha scoperchiato nuovi e vecchi problemi.

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Il momento più bello della partita – che è anche la migliore similitudine per raccontare l’Italia che ha perso per la prima volta nella storia contro la Germania nei tempi regolamentari e che non subiva 5 gol dal 1957 – è arrivato a quattro minuti dal novantesimo, quando un ragazzino in tuta nera ha invaso il campo inseguito da due goffi steward con la pettorina gialla, scivolati entrambi mentre il ragazzino correva con in mano il proprio telefono, così a proprio agio che si permetteva di chattare mentre scappava. Poi ne sono entrati altri due, tra cui quello che si è tuffato nella rete di porta ed ha esultato come… come se avesse fatto gol con sé stesso? Strano. Il ragazzino in tuta nera a un certo punto deve aver capito che non lo avrebbero mai preso e, dopo aver preso in considerazione di continuare a scappare per sempre, ha deciso di provare una cosa complicata, provando a passare tra i due steward, più o meno lasciandosi prendere. Ad ogni modo, in questa similitudine, l’Italia è rappresentata dai due steward che corrono inutilmente dietro a qualcuno di più veloce, sempre un passo in ritardo, umiliandosi un po’. 

 

Di sicuro è così che è stato interpretato il 2-5 di Moenchengladbach. Dopo il quinto gol il telecronista Alberto Rimedio ha ricordato, come ha fatto più o meno dopo ogni gol subìto a partire dal secondo, gli italiani che vivono in Germania, per poi sottolineare come fosse per lui insopportabile vedere Donnarumma sbagliare un passaggio in area di rigore dopo aver visto un errore simile con l’Inghilterra pochi giorni prima. Gli è stato ricordato anche dopo, a Donnarumma, nell’intervista post-partita, anche se pareva già distrutto di suo; così come a Barella è stato chiesto se c’era da vergognarsi per gli italiani di Germania, domanda a cui ha risposto un po’ sconcertato: “Vergogna è una parola pesante”. E sia Barella che Donnarumma sono giocatori che hanno già dato tanto alla Nazionale italiana, possibile non abbiano più diritto a nessun tipo di riconoscenza?

 

A un anno quasi esatto dall’inizio dell’Europeo che poi avremmo vinto, l’Italia di Mancini deve aprire un nuovo ciclo. Quello stesso gruppo che si era cristallizzato a torneo in corso va smantellato già un anno dopo, gli stessi giocatori che sono stati fondamentali per vincere l’Europeo adesso paiono svuotati di ogni energia. Un cerchio si è chiuso con la seconda esclusione consecutiva dalla Coppa del Mondo, anche se non è sembrata la fine del mondo come la volta precedente, proprio perché avevamo ancora addosso il senso di irrealtà di aver vinto un Europeo dopo 53 anni. Piuttosto eravamo sbalorditi, stupefatti, senza sapere esattamente come, né quando esattamente, le cose erano andate in malora. Eravamo come Santiago Zavala, il protagonista di Conversazione nella “Catedral” di Vargas Llosa, che nelle prime righe si chiede “in che momento si è fottuto il Perù”. E in questo senso il punto più basso, quello in cui abbiamo preso seriamente atto della gravità della situazione in cui ci trovavamo, non è stata la sconfitta con la Macedonia, ma è arrivato dopo un po’, con la sconfitta 0-3 nella Finalissima con l’Argentina. Perché una cosa è capire di essere fottuti, un’altra è restarlo quasi volontariamente. E dovevamo ancora prendere 5 gol dalla Germania – a cui sembra piacere in modo particolare infierire su avversari in difficoltà.

 

In parte stava tutto nel patto col Diavolo siglato a inizio Europeo, quello che ha fatto vincere un gruppo in cui nessuno è insostituibile, capace di adattarsi alle esigenze delle singole partite e che trova nel suo livello medio un valore da contrapporre al livello – superiore – che le altre squadre avevano nei singoli. Una squadra che aveva trovato nella propria capacità di opporsi alla proposta avversaria, di reagire alla situazione in cui si trovava, la propria invincibilità. Una squadra che improvvisamente, finito il fiato, è diventata un contesto in cui nessuno sembra davvero adeguato.  

 

Va fatta una distinzione, però. Il modo in cui l’Italia non si è qualificata per il Mondiale e anche la sconfitta con l’Argentina hanno poco a che fare con il modo in cui ha perso con la Germania, a mio avviso. Nel primo caso parliamo effettivamente di una squadra senza slancio, che si è ritrovata senza basi sufficienti per continuare sulla scia di quanto di buono fatto in Inghilterra. Probabilmente abbiamo pagato sia un’eccessiva versatilità – che fa il paio con la mancanza di un’identità solida – sia quella specie di cristallizzazione avvenuta a torneo in corso, per cui dalla partita con la Bulgaria (immediatamente successiva alla finale) Mancini ha sperimentato molto poco, rinunciando solo se costretto ai “titolari”, usando alcune facce nuove (Zaniolo, Scamacca, Pellegrini) senza grande convinzione e quasi sempre nei secondi tempi. 

 

A fine torneo scrivevo: «Non dovremo ripetere l’errore fatto nel 2006. D’accordo questa squadra non è a fine ciclo, a differenza di quella, ma Mancini non dovrà sentirsi in debito con nessuno. Dovrà continuare a sperimentare, a fare ricerca». Be’, non l’ha fatto e, a conti fatti, quella squadra era a fine ciclo. Mancini si è ritrovato senza Chiellini, spesso anche senza Bonucci, oltre a Verratti, con Jorginho diventato improvvisamente capro espiatorio della fallita qualificazione, Immobile che non si capisce neanche se è ancora parte della Nazionale e Insigne diretto in Canada, ma ha voluto comunque premiare il gruppo di quell’Europeo – che poi che premio sarebbe farli correre dietro a Di Maria e Messi come tanti uomini sudati che inseguono uno zanzara in giro per la stanza in una notte d’estate? 

 

In questa Nations League Mancini è tornato a convocare giocatori più o meno giovani che non hanno neanche esordito in Serie A (allora erano stati Tonali e Zaniolo, stavolta Zerbin, Gatti e Salvatore Esposito) pescando anche all’estero (Grifo e Gnonto, entrambi passati dall’Under 21) e dando un minimo di fiducia anche a giocatori senza alcuna o con poca esperienza in Nazionale. Quindi, queste tre partite giocate dignitosamente, a tratti persino bene, e la brutta sconfitta con la Germania, vanno separate da quanto successo prima. Da una parte c’è stata la faticosa constatazione che no, non avevamo trovato la formula magica, gli undici, o dodici, tredici, giocatori con cui andare avanti fino al prossimo Mondiale o Europeo. Dall’altra c’è la ricerca di nuovo talento, il tentativo di cambiare strada, anche a rischio di finire in qualche vicolo cieco, o di prendere un muretto e rovinarsi la carrozzeria. 

 

L’errore è stato pensare che non fosse più necessario mettersi in discussione, mettere pressione ai campioni d’Europa. Forse c’è stata confusione tra la riconoscenza, che non dovrebbe mancare neanche oggi, e quella gratitudine che ti fa sentire in debito. Grazie per quello che avete fatto, siete stati fantastici, ma nessuno deve niente a nessuno, andiamo avanti. Adesso abbiamo iniziato ad andare avanti, ricordandoci qualcosa che già sapevamo quattro anni e mezzo fa: che abbiamo giocatori di alto livello ma nessun talento generazionale (escluso forse proprio Donnarumma), che ci serve il gioco proprio perché, come ha detto Mancini dopo poche partite anche senza i talenti che avevamo una volta può esistere una Nazionale che giochi bene, perché oggi “se non riesci a impostare una squadra che giochi anche bene, non puoi vincere con continuità”. 

 

Non è il numero di difensori a fare la differenza, o il modulo, se non hai chiaro come assorbire gli inserimenti (vedi il gol di Kimmich) o negare lo spazio tra le linee a uno come Muller. 

 

Certo, non basta sperimentare. Così come non basta passare dalla difesa a 4 a quella a 5 per togliere spazi alla Germania. Dovremmo, cioè, lavorare su quell’identità che in realtà è ancora appena abbozzata. Che avevamo trovato nel passaggio fluido alla difesa a 3 in fase di costruzione, con Spinazzola che si alzava; e con la capacità di Verratti e Jorginho di gestire il possesso a diverse altezze di campo. Mancini ha parlato di nazionale “dominante”, ma il punto è come. Non c’è un solo modo per dominare in campo, si può fare con la palla mandando a vuoto la pressione oppure senza, aggredendo in alto e soffocando il possesso avversario. L’ideale sarebbe saper fare bene entrambe le cose. E sapete quale squadra ci riesce bene ad esempio? La Germania. Ecco, l’impressione è che al di là della qualità stiamo pagando anche un problema culturale, quell’arretratezza tecnica, tattica ma anche semplicemente a livello di discorso pubblico, di cui ci lamentiamo da anni ma a cui nessuno dà veramente importanza.

 

Invece qualcosa mi dice che fare la morale a un giocatore per un errore tecnico non contribuisca granché a migliorare il calcio italiano e, anzi, mi fa pensare che troveremmo cose simili da rinfacciare anche a giocatori che oggi invidiamo. Che fine farebbero, come verrebbero trattati in Italia giocatori come Leroy Sané, Gnabry, Kimmich? Cosa diremmo a Neuer se facesse una cosa come quella che ha fatto contro la Corea? 

 

Ci sono cose che vanno oltre le possibilità di Roberto Mancini, che può aggiustare la squadre e darle maggiore identità – e forse avrebbe bisogno di qualche critica in più – ma di sicuro non può generare dal niente nuovi talenti o far sì che arrivino a ventitré anni già con un paio di stagioni da titolari in Serie A. Non è strano, per esempio, che la Nazionale italiana faccia scouting per i club, o che faccia esordire giocatori che non trovano spazio? Non siamo la Grecia del 2004, abbiamo giocatori di valore e anche da queste ultime partite si è visto che la differenza non è incolmabile, ma servono coraggio, pazienza e soprattutto idee chiare.

 

Certo il bello del calcio è che ogni partita fa storia a sé e una squadra “sulla carta” inferiore ad altre può vincere persino un torneo faticoso come l’Europeo. Però non può diventare la norma, non si può svoltare una partita dopo l’altra senza consumarsi. Luigi Garlando ha chiuso il suo commento su Gazzetta scrivendo che dopo una sconfitta come questa “non sappiamo più chi siamo”. Ma non lo sapevamo neanche prima; non lo sapevamo quattro anni e mezzo fa e non lo sapevamo neanche mentre vincevamo l’Europeo. Anche perché nessuno resta se stesso troppo a lungo. Proviamo a cambiare prospettiva, allora. Anziché chiederci chi siamo, come piccoli Amleto che vedono i fantasmi di Totti e Baggio, chiediamo: chi vogliamo essere? Nel calcio, come nella vita, una sola cosa è sicura: indietro non si torna. 

 

Tags : giorgio scalviniroberto mancini

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).

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