
La paura, a un certo punto, è stato di avere esultato troppo in fretta. Eppure, era impossibile non farlo: due giorni prima, il 9 luglio, Harry Manenti si lanciava sulla sua destra per afferrare al volo l’ultima pallina della partita: l’Italia aveva vinto, aveva sconfitto la Scozia per la prima volta, e sempre per la prima volta era a un passo dalla qualificazione ai Mondiali di cricket. L’ultimo ostacolo erano i Paesi Bassi: bisognava batterli (difficilissimo) o perderci di poco.
Cosa vuol dire, perdere di poco nel cricket? Occorre qui una veloce introduzione al sistema di punteggio di questo sport, spero il più breve e agile possibile. Durante una partita, due squadre si alternano in fase di lancio e di battuta. La squadra che batte mette a segno un punto (una run) ogni volta che i suoi due giocatori, a distanza di venti metri l’uno dall’altro, si scambiano posizione dopo un lancio. Inoltre, il battitore guadagna sei run se riesce a spedire la palla fuori campo, quattro se la pallina rimbalza prima di uscire. Dall’altra parte, la squadra che lancia deve provare a eliminare i battitori avversari, principalmente in due modi: mirando i paletti dietro il battitore, o catturando al volo la palla dopo che questa ha colpito la mazza. Se una squadra elimina dieci battitori avversari, il turno (innings, con la s) finisce. Ogni lanciatore ha a disposizione sei palline consecutive alla volta, che costituiscono un over. Il gioco si organizza in tre formati diversi: il test cricket (due innings a disposizione di ogni squadra, fino a cinque giorni di partita), il One Day International (ODI, un innings da 300 lanci per squadra, quindi 50 over), il Twenty20 (T20, 20 over): è proprio in quest’ultimo formato che l’Italia sta competendo per comparire sulla mappa mondiale.
Il calcolo di quel famoso poco è complicato anche per gli esperti, ma dopo il turno in battuta dell’Italia l’obiettivo si è delineato con relativa chiarezza: bisognava impedire ai Paesi Bassi di accumulare 134 run in quindici over, cioè tante quante gli azzurri ne avevano totalizzate in venti.
È in quel momento che sale il terrore che ogni festeggiamento dopo la storica partita con la Scozia sia stato vano, perché l'Italia comincia a lanciare male, e i Paesi Bassi (da anni stabilmente i migliori europei non anglofoni in questo sport) partono fortissimo.
Dopo sette over il capitano dell’Italia, Joe Burns, decide di passare dai lanciatori veloci a quelli d’effetto, più lenti ma imprevedibili, e funziona (nel cricket il capitano è una figura vicina a quella dell'allenatore negli altri sport di squadra): i Paesi Bassi subiscono la prima eliminazione, e pure se la vittoria non è mai messa in discussione, la temperatura si raffredda. La partita finisce al diciassettesimo over, e alla fine festeggiano tutti: Italia e Paesi Bassi sono entrambe qualificate al Mondiale, che si giocherà in India e Sri Lanka verso la fine dell’inverno 2026.
Magari vi è capitato di leggere la notizia in qualche momento morto di scrolling, ma se può valere la pena fermarsi un po’ di più sull’impresa di questa qualificazione è perché questa non è soltanto la storia di uno sport di nicchia che raggiunge il culmine del proprio movimento nell’indifferenza generale, ma la storia di un movimento complesso e sfumato che si fa strada nel secondo sport più popolare al mondo grazie all’apporto di due anime, diversamente tedofori di una sorta di sentimento nazionale: chi in Italia ci è arrivato, e chi – dopo diverse generazioni – racconta di una specie di ritorno.
C'È SOLO UN CAPITANO
Joe Burns, il già citato capitano della squadra, ricade nella seconda categoria. Le sue origini italiane affondano nella famiglia materna e nei giorni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il nonno – reduce dalla prigionia in Nord Africa – decise di partire insieme a sua moglie dal sud Italia e di imbarcarsi su una nave diretta a Brisbane.
È lì che il giovane Burns, da autentico Aussie, comincia a praticare il cricket. Non ha le stimmate del campione, ma stagione dopo stagione riesce a salire di livello, prima a livello scolastico, poi di stato, e ancora nel contesto delle competizioni private. Infine, a venticinque anni, diventa il 441esimo giocatore della storia schierato dall’Australia in un test match. Non sarà un caso isolato: dal 2015 al 2020 parteciperà ad altre ventidue partite, e in alcune di queste verrà addirittura schierato come opener, cioè nella prima coppia di battitori in campo, ruolo delicato e prestigioso. Nei test match segnerà per quattro volte cento run, un momento che nel cricket viene celebrato con una standing ovation a partita in corso di pubblico, compagni e – tradizionalmente – avversari. Insomma, Burns non è una meteora, ma protagonista in una delle squadre di cricket più forti del mondo.
Passati i trenta Burns scivola fuori dal giro dell’Australia, ma l’evento che cambia la sua vita è un altro: nel 2024, suo fratello, trentanove anni, muore. «In quel momento il cricket non mi divertiva, cercavo una pausa dal gioco», ha raccontato Burns al podcast Willow Talk. «Quello di cui mi sono accorto è che la comunità del cricket era lì per me, la comunità italiana – attraverso la famiglia – era lì per me, ed è stato il modo in cui queste due reti di salvataggio si sono amalgamate che mi dà forza ogni giorno».
Burns approfitta allora del passaporto italiano e si candida per rappresentare, sullo scenario internazionale, l’Italia del cricket. «Mi sembra che queste persone camminino con me, quando vesto la maglietta dell’Italia, e so che chi mi guarda dall’alto è molto orgoglioso».
Dalle partite negli stadi affollati dell’Australia, Burns si trova così impelagato nell’association cricket, cioè quello giocato dalle nazioni che sono associate all’International Cricket Council ma non sono membri permanenti. «Il livello del campo è molto diverso da quello test», racconta Burns in un altro passaggio dell’intervista – e in uno sport come il cricket, che fa del rimbalzo della pallina sul campo un elemento essenziale nella strategia di lanciatori e battitori, non è un dettaglio irrilevante. «Certe volte la palla non si alzava. Negli ultimi dodici mesi abbiamo giocato a Hong Kong, in Uganda, in Italia, nei Paesi Bassi», e ogni volta la sfida era adattarsi a un campo diverso, a condizioni diverse. Quando la scala da salire è così ripida, inoltre, non ti puoi permettere pause. «È una cosa di cui non ti accorgi quando giochi per l’Australia. È spietato, devi vincere praticamente tutte le partite per arrivare alla fase successiva».
Così ha fatto l’Italia, per staccare il biglietto per India e Sri Lanka: il primo passaggio è stato chiudere al primo posto un girone a cinque contro Francia, Lussemburgo, Isola di Man e Turchia, battendo in finale la vincitrice dell’altro gruppo, la Romania (soprattutto grazie a 108 run di Burns).
Grazie a questo risultato gli Azzurri sono così stati ammessi alla finale regionale, dove le squadre europee tra quelle non già qualificate (cioè Inghilterra e Irlanda) competevano per gli ultimi due posti a disposizione. Oltre a Scozia e Paesi Bassi, l’Italia ha dovuto competere anche con Jersey e Guernsey, due possedimenti britannici nel canale della Manica che partecipano come indipendenti alle competizioni internazionali. E lo fanno con diritto di cittadinanza: Jersey finirà addirittura davanti alla Scozia.
LE DUE ANIME DELL'ITALIA
La distinta degli Azzurri schierati durante la qualificazione tradisce la doppia natura di questo gruppo. Nicola Sbetti, ricercatore in Storia Contemporanea al Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna, ex giocatore di cricket ed ex addetto stampa della federazione che ho contattato per questo pezzo, la inquadra così: «Ci sono gli oriundi, che non sanno parlare italiano ma sono cittadini italiani, e poi quelli che non sono cittadini italiani, ti parlano in dialetto perché sono cresciuti in Italia, e vengono da un background migratorio». Il gruppo è diviso tra gli immigrati asiatici che hanno popolato il Paese nel corso degli anni, o più spesso i loro figli, e i migranti di ritorno, proprio come Joe Burns, desiderosi di riabbracciare un’identità che li richiama dal passato.
Secondo Sbetti, il percorso che ha portato alla qualificazione è partito attorno al 2020, con l’allora capitano e allenatore Gareth Berg: «Lui è stato importante perché ha contribuito a portare oriundi di un gradino superiore rispetto a quelli che hanno sempre fatto parte della Nazionale». Storicamente, il nucleo della squadra era composto da chi giocava nel campionato italiano. «Con lui hanno cominciato ad arrivare gente che giocava county cricket [campionato in Inghilterra, nda] o state cricket in Australia [in cui le rappresentative dei diversi stati si affrontano tra loro, nda]. Oggi, nella squadra che si è qualificata ci sono solo due giocatori del campionato, Jasspreet Singh e Crishan Kalugamage».
Kalugamage, in particolare, ha avuto un ruolo decisivo nella partita contro i Paesi Bassi: è lui che, in quegli over centrali, ha rallentato la corsa dei Paesi Bassi, riportando la partita sui binari giusti. Il culmine di un percorso molto diverso da quello di Burns, vissuto sempre sul filo tra cricket e lavoro, visto che non si vive di soli lanci: «Ho perso tanti lavori perché non mi davano il giorno libero, non mi davano ferie. Quando andavo a fare un torneo avevo bisogno di prendermi tre settimane, quindi era difficile. Adesso ogni tanto vado a lavorare part-time come pizzaiolo. Ma ho creduto sempre alla possibilità di arrivare ad un risultato positivo. Alla fine, è andata bene». Giocare è sempre stato un percorso a ostacoli: «Sono arrivato in Italia quando avevo quindici anni, in Sri Lanka già giocavo nelle scuole. Quando sono arrivato, nel 2007, non c’erano delle squadre qua in zona. Poi, dopo cinque o sei anni, ho scoperto che il Lucca Cricket Club ha iniziato a giocare qui. Da lì ho fatto il giro d’Italia: Firenze, Genova, Roma Capannelle e Roma. Oggi vivo a Lucca, e ogni domenica vado a Roma». Sono circa quattro ore di macchina.
La qualificazione arriva da lontano: «Già due anni fa abbiamo perso di 7 punti con l’Irlanda». Anche in quel caso vincere avrebbe potuto voler dire qualificarsi. «In queste qualificazioni siamo arrivati più preparati, siamo rimasti due settimane insieme, prima a Roma, poi in Inghilterra, poi nei Paesi Bassi». A questo livello, avere il tempo di adattarsi alle condizioni è fondamentale, e l’Italia ha potuto prendersi una settimana per conoscere al meglio la superficie dove poi si sarebbe giocato il torneo.
Kalugamage racconta che sono state proprio quelle settimane a dare fiducia alla squadra: «Abbiamo vinto tre amichevoli contro una forte squadra inglese, abbiamo perso di poco contro la Scozia in una partita di preparazione. Abbiamo capito che avevamo margine per competere con loro, non c’era tanta differenza». Sono settimane che hanno sugellato l’anima del gruppo, che le divisioni tra oriundi e nativi non le percepisce. «Siamo un gruppo molto unito, dice Kalugamage, più ci alleniamo insieme più stiamo bene. Siamo come fratelli». Burns va ancora oltre: «È la cosa che mi piace del cricket internazionale: tutti hanno lo stesso fine e la stessa molla. Quando giochi nelle leghe ciascuno è a un certo punto della sua carriera, motivato dai bisogni più diversi. Noi abbiamo fatto delle sessioni di cultura: ci siamo seduti, abbiamo parlato di chi siamo, da dove veniamo, come vogliamo giocare e come vogliamo tramandare il gioco alla prossima generazione di cricket italiano. Quando cominci a qualificarti, arrivano i fondi, le infrastrutture, ci sono opportunità sterminate».
La congiuntura è perfetta, ora che il CIO ha deciso di includere il cricket alle Olimpiadi di Los Angeles 2028 – portando così nelle casse della federazione i soldi che sono stati necessari a preparare con cura il girone finale di qualificazione.
«Adesso che siamo sotto la bandiera olimpica stiamo al centro olimpico a Roma», dice ancora Burns «Siamo in un grande complesso, ci sono tutti gli altri sport olimpici. È divertente, incontri al bar la squadra di sollevamento pesi, quella di rugby, quella di beach volley. È una grande esperienza». La speranza è che la qualificazione al Mondiale possa fare da moltiplicatore tanto nell’attenzione mediatica quanto nella capacità di attrarre nuovi fondi, oltre a quelli che la partecipazione in sé comporterà. Secondo Sbetti «l’obiettivo è far vedere il cricket in televisione, far vedere quelle partite su Sky, DAZN, Rai, anche RaiSport, e usarle con scopo divulgativo, facendo ben presente che difficilmente l’Italia potrà anche solo vincere una partita. Magari prendi tre scoppole, ma magari riesci a far venire un altro giocatore», un altro oriundo che possa convincersi della bontà del progetto, e della vetrina: sono tanti gli inglesi o gli australiani lì fuori con un passaporto italiano che potrebbe ulteriormente alzare il livello della squadra.
E poi naturalmente «i soldi vanno investiti in infrastrutture e comunicazione, per uscire dalla narrazione per cui il-cricket-aiuta-l’integrazione. Non è vero: se non lavori per l’integrazione contribuisci a ghettizzare, e il cricket viene così visto come lo sport degli immigrati e basta», con il risultato che accedere allo sport in Italia, oggi, è un labirinto spesso senza uscita.
Ma la sfida, sul medio-lungo periodo, è ancora più ambiziosa: «La cosa decisiva è riuscire a coinvolgere questi giocatori fortissimi e farli venire un po’ in Italia», sostiene Sbetti, per aiutare le squadre del campionato a crescere, e metterle a contatto con competenze e approcci di livelli superiori. «Il campionato deve crescere in maniera graduale».
Nel mentre che il piano si compie, c’è però un Mondiale da giocare, e ognuno coltiva in sé il proprio avversario dei sogni, anche se tutti, alla fine, sognano una sorta di ritorno a casa: «Sri Lanka», dice Kalugamage, «India in India, o l’Australia, idealmente in finale» per Burns.
Il pensiero dell’Italia in finale può far sorridere, ma il capitano non scherza. Lo diceva già dopo la partita contro la Scozia: «Dico sempre ai miei ragazzi quello che dobbiamo fare, per provare a vincere ogni partita. Puntiamo a vincere la Coppa del Mondo».