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(di)
Matteo Gagliardi
Nato per lottare
18 dic 2014
18 dic 2014
La storia di Giacobbe Fragomeni, un pugile che, per un po’, è stato il più forte di tutti.
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Matteo Gagliardi
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L'hanno soprannominato "il Gabibbo", ma a lui non è mai piaciuto, ne avrebbe voluto uno più spietato per il ring. Allora il nome di battaglia se l'è dato da solo.
La storia del campione del mondo Giacobbe Fragomeni deve trovare il suo posto nell'antologia del pugilato, anche se in questo sport le storie dei campioni del mondo battono spesso strade convenzionali. Le vicende assomigliano a quelle degli eroi di una fiaba, solo che gli eroi del ring sono buoni e cattivi, protagonisti e antagonisti allo stesso tempo. Le voci narranti sono aggressive, sanguigne, anche quando si tratta di ricordare sconfitte o défaillances.
Giacobbe invece, attraverso una voce piana, spesso ingenua e mai priva d'incertezze, non racconta la storia di un campione del mondo, ma quella di un pugile che per un po' è stato il più forte di tutti. Fin dal principio non c'è predestinazione, da piccolo non è stato marchiato dopo aver ascoltato in radio “il massacro di San Valentino” di LaMotta e Sugar Ray o dopo aver visto in tv “Finally" di Tyson e Holyfield. Nella palestra di via Mascagni, a Milano, "il Gabibbo" Fragomeni s'iscrive, prima di tutto, per dimagrire.

 



 


Nel maggio del 1990 Giacobbe ha vent'anni: "Di solito l'avvicinamento a questo sport avviene quando si è più giovani", si legge nell'autobiografia scritta con Valerio Esposti,

. "Ma non mi sentivo particolarmente svantaggiato per aver iniziato più tardi rispetto alla media." L'idea della palestra gli è venuta in mente qualche settimana prima, quando passava il tram numero 15. La carrozza veniva da via Volvinio e stava rallentando per fermarsi a piazza Agrippa. Giacobbe, uscito di casa per andare a lavorare, se la vede scorrere davanti e si lancia all'inseguimento: "Quando cominciai a prendere l’andatura volevo già fermarmi. Mi sembrava una distanza infinita". Con le mani sui fianchi, madido di sudore realizza di avere un problema, decide così di iscriversi alla Doria.
Dopo le prime lezioni di pre-pugilistica, stanco di dare pugni all'aria, correre sul posto e fare piegamenti; quando è in anticipo, gli piace passeggiare tra le sale e raggiungere il ring dove due pugili si scambiano colpi, al corpo: "Perché loro sì e io no?" Un pomeriggio prima del riscaldamento, Giacobbe informa il suo maestro: "Voglio combattere anch’io”. “Ma che cazzo dici?”, gli risponde Tazzi: “Ma se sei un ciccione”.

 

Ottavio Tazzi è conosciuto a Milano con il soprannome di "el maester dei maester". L'allenatore storico della Doria, preparatore di alcuni allievi che diventeranno poi campioni mondiali, ha una strana predilezione: le mezzeseghe. In coda alla canzone

si sente la voce registrata di Ottavio, "Io sono più affezionato ai brocchi, i brocchi che ho avuto nel passato, perché anche loro hanno il coraggio di andare sul ring. Entrare nel ring non è da tutti".
Giacobbe in quei primi allenamenti è grezzo come un principiante, per capire che il pugilato può diventare il suo sport "non bastarono due o tre mesi", perché come lui stesso ammette: "Un dilettante alle prime armi non è Mike Tyson".

 

La madre del ragazzo, mentre il figlio si allena, chiama spesso al telefono il maestro Tazzi: "Mi diceva

. E poi è morta. Mi pare un testamento".

 



 


Giacobbe abita in via Barrili, nella periferia sud di Milano, nel quartiere Stadera, rinominato dagli abitanti della zona la Baia del Re, in ricordo dell'ultimo avamposto scandinavo dal quale un dirigibile partì per il Polo Nord. Sulla pagina Wikipedia del quartiere, tra le personalità nate nella Baia del Re, compare solo il suo nome. Dei ragazzi che giocavano in quel cortile, ricorda Giacobbe, "non è sopravvissuto nessuno".

 

Nella casa di sessanta metri quadri vive con i genitori e le due sorelle più grandi, Edda e Mary.
Quando ripercorre quel cortile, trent'anni dopo, nel documentario Senza Tregua, si ferma davanti a una porta di legno scuro, chiusa, e ricorda che lì sotto, sepolti in cantina,

i tossici che si bucavano al buio e lo terrorizzavano quando doveva andare a buttare l'immondizia. "Erano zombie", incurva la schiena, schiaccia il mento al petto e lascia le braccia penzoloni: "Stavano così. Poi quando arrivava lo spacciatore, oh minchia,

".

 

Davanti alla telecamera Giaco è spensierato: racconta, corre, ride e grida. A un certo punto acchiappa il suo ex vicino di casa "Francuzzo" che vedendo le telecamere si era rintanato nell'atrio di un palazzo: "Mi piaceva sto ragazzo. Purtroppo la famiglia...

era quello che era".

 

Nicola Fragomeni lavorava come parchettista, prima di diventare un alcolizzato a tempo pieno. Picchia la moglie e le figlie. Giacobbe sente di dover intervenire, ma non sa come.
Un giorno, in camera da letto il padre tira un calcio alla moglie e il ragazzo che assiste alla scena non si trattiene: "Non mi sto vantando", precisa Giacobbe prima di proseguire la cronaca. Schizzato fuori dal letto atterra sul petto del padre. Nicola non ha tempo di difendersi che il figlio gli prende la testa con le mani e gliela sbatte sul pavimento, fino a farlo svenire. "Ero terrorizzato", dice Giacobbe: "Ero terrorizzato da una sua possibile reazione". Quando il padre torna a casa dall'ospedale, come prima cosa pensa a farsi un bicchiere di vino e poi dimentica di vendicarsi.
Dopo quell'episodio l'antifona riprende: "Polizia, carabinieri, mazzate, mobili che si spaccano, piatti, botte, schiaffi, tutta la mia infanzia, tutta così".

 

Per calmare l'ennesima mattanza di Nicola, Giacobbe corre in cucina e impugna un coltello; ma la madre in corridoio gli blocca il passaggio: "Fu una vera fortuna, e darle retta fu la cosa più intelligente che potessi fare. L'odio che avevo in corpo era talmente grande da potermi spingere a fare un'enorme cazzata. Se mi fossi vendicato si sarebbero aperte immediatamente le porte del riformatorio".
Qualche mese dopo, il padre, che intanto aveva trovato un lavoro come parcheggiatore, dopo un diverbio con un collega viene massacrato con una spranga di ferro. "Mio padre ha avuto la sfortuna...

! di essere stato in coma."

 

La madre in quel periodo comincia a stare male ed è costretta a ricoverarsi in ospedale sempre più spesso. Giacobbe viene lasciato dalla ragazza, la sorella Maria Letizia muore di AIDS, "ho passato il peggior compleanno della mia vita", inizia a bere e drogarsi, "ero un tossico", "non avevo voglia di vivere, non avevo voglia di morire", il padre prima di spirare gli dice: "Beato chi muore e in culo a chi resta". Giacobbe non sa che fare, "e così sono partito co sto fatto del pugilato".

 



 


È un allievo volenteroso, né più né meno bravo di altri ragazzi che frequentano la Doria. "Nessuno mi disse

." Dopo aver perso trenta chili, segue con attenzione le lezioni di tecnica di Ottavio.

 

L'allenatore deve risolvere due limiti del ragazzo. Il suo fisico tozzo—un peso

alto un metro e settantasette—non gli permette di controllare il suo avversario a distanza. Combattere in quella categoria vuol dire trovarsi all'altro angolo avversari-colossi: "Mi hanno detto

". (La similitudine che Giacobbe usa di più per descrivere i suoi avversari non a caso è "una montagna".) Il problema dell'altezza si può risolvere nello stesso modo in cui Cus D'Amato lo spiegava a Tyson: guardia sempre alta, il viso coperto da entrambi i guantoni e avanzare in direzione del nemico chiuso come una tartaruga, frontale e coi gomiti stretti. Non allontanarsi mai dalla "montagna", aspettare di vedere la luce da una piega e colpire lì, con potenza, e frantumare la barricata.
Ma il secondo problema di Giacobbe è la mancanza di questo colpo decisivo. Per quanto si alleni in palestra, nei pesi e nei piegamenti, i pugni di Giacobbe non sono risolutori. "

" dice Ottavio, "ognuno ha le mani che si merita". Il ragazzo impara così che non potrà mai affidarsi al colpo in

ma sul ring dovrà muoversi sempre in sequenza, combinazioni di pugni veloci e precisi per tutta la ripresa che se non faranno sprofondare una "montagna" almeno la sbricioleranno a picconate. "Tre minuti per ogni mio avversario", dice Giacobbe: "Devono essere

veri".

 



 


Ottavio scommette su quel ragazzo e lo fa salire sul ring per la prima volta, il 23 marzo 1991, pochi mesi dopo la sua iscrizione in palestra. "L'anno prima vagavo tra via Montegani e Barrili per farmi un pippotto; non sapevo neanche mettermi le bende." Ai Campionati Nazionali di Sanremo in palio c'è l'ingresso nella squadra italiana, ma perde in finale contro Vincenzo Cantatore. Il pugile dello Stadera è comunque contento: "Gli diedi del filo da torcere". La sua prestazione in effetti convince gli osservatori della Nazionale che decidono di convocarlo lo stesso. Non lo chiama nessuno, Giacobbe lo scopre leggendo una

sull'autobus che lo porta a lavoro.

 

La carriera in Nazionale di Frago non è un'ascesa devastante alla consacrazione, ma una serie di incontri convincenti. Non sono tutti successi, ma le sconfitte non pregiudicano mai le successive convocazioni. D'altra parte a Giacobbe sembra non interessare solo il risultato del match:

.

 

Una delle conseguenze più scontate del non avere il colpo del KO è non essere certi di aver vinto l'incontro fino a quando l'arbitro non alza il tuo braccio. E non è un mistero che nella boxe quando si lascia fare alla sorte si rischi spesso la polemica e il ricorso contro il verdetto dei giudici.
Ai Giochi del Mediterraneo del 1997, Giacobbe sconfigge in finale Benguesmia. L'angolo del pugile algerino non accetta il verdetto dei giudici che non coincide con quello delle macchinette segnapunti. L'organizzazione dà ragione all'entourage di Benguesmia e Giacobbe è costretto a riconsegnare la medaglia d'oro. Al ritorno in Italia, l'Aiba (l'Associazione Internazionale Boxe Amatori) infischiandosene del verdetto internazionale lo decreta comunque vincitore.

 

La fortuna o la sfortuna sono accolte da Fragomeni sempre con umanità. Lui stesso ammette che "d'accordo essere forti, ma avere fortuna aiuta: non è un dettaglio". Ai Campionati Mondiali di Budapest accade l'inverso: raggiunto il quarto posto alla fine del torneo, si vede assegnata la medaglia di bronzo dopo che il pugile che lo aveva battuto, Chagaev, era stato scoperto dalla commissione disciplinare aver commesso una violazione del regolamento, passando dai pro agli amatori.

 


A Minsk, in Bielorussia, contro Dychkov, padrone di casa, Giacobbe fa tutto da solo e conquista la medaglia d'oro. L'incontro parte male. I pugni di Dychkov sono piazzati, anche se non provocano dolore. Ai punteggi di fine round Giacobbe è sotto. "Temevo solo una cosa: di fare brutta figura." Il match cambia registro nella seconda metà, quando Giacobbe si sveglia e ritorna con la guardia alta e non permette più colpi al viso. A metà dell'ultima ripresa il punteggio è di parità, ma nell'ultima frazione Giacobbe riesce a scaricare finalmente i colpi decisivi sul bielorusso "che per poco non buttavo giù". Dopo trent'anni riporta in Italia uno dei massimi trofei dei dilettanti. Ottavio intervistato anni dopo nel documentario

si commuove a ripensarci, anche se non ricorda dove è stato combattuto il match. Fragomeni, fuori campo, gli urla "a Minsk!". Quando l'intervista con Ottavio riprende spunta in camera Giacobbe che gli si siede accanto a mettersi le bende: "Quante cazzate stai dicendo?" gli chiede. Ottavio non risponde. "Mi dai un bacio in bocca?" Il maestro alza gli occhi al cielo e sorride. Poi Giacobbe gli salta addosso e glielo dà. "È uno buono", dice Tazzi dopo la colluttazione: "Un po' troppo ingenuo".

 

In effetti Fragomeni sembra avere un tipo di spensieratezza che non si addice ai pugili. Nei Campionati del mondo del 1998 Giacobbe deve disputare la finale, ma nel precedente incontro si è fratturato il naso, così è costretto al forfait: "Forse è stata la cosa migliore, dato che mi sarei scontrato con un vero bestione".

 



 


Il suo debutto nei professionisti, passaggio avvenuto nel 2001, è più che convincente. Nei primi cinque anni di combattimenti non è mai stato sconfitto. Su ventuno incontri nove li ha vinti prima del limite.
A metà novembre del 2006 incontra David Haye, un forte pugile britannico. In palio c'è la cintura di campione europeo cruiserwieght WBC. Haye si presenta all'incontro con una sconfitta, ma quello che spaventa del suo score è l'alto numero di vittorie per KO.

 

Non soltanto la maggior parte del

, ma a Giacobbe sembra che anche il suo entourage non sia convinto che ce la possa fare. Giacobbe si domanda addirittura se stessero andando a un funerale. Alla conferenza stampa pre-match qualcuno chiede al pugile italiano se sa a cosa va incontro. Lui scruta per un attimo l'avversario e poi risponde al giornalista: "Sì, qual è il problema?"
Sul ring quando si toglie la maglietta Giacobbe sembra capire finalmente il perché di tante preoccupazioni. Haye è alto un metro e novanta e peserà quasi cento chili. "Ma chi cazzo era, il fratello di quello di ieri sera?"

 

Nel primo round Fragomeni è cauto e si copre altissimo. Haye scarica colpi a distanza, lui può, le sue braccia lunghe glielo permettono. Quando Giacobbe schiude la guardia è soltanto per scaricare ganci velocissimi, sempre in combinazione. Frago non indietreggia mai, non un solo passo indietro, sempre sotto, costringe Haye alle corde, vuole chiuderlo all'angolo, ma i suoi guantoni per un attimo sono molli e vengono perforati da un tremendo uno-due di Haye che gli piega la testa all'indietro. Nelle successive tre riprese, Fragomeni usa sempre la stessa tecnica, passo, passo, chiuso. Passo, passo, passo, chiuso. Prende colpi larghi al corpo e alla testa che vibra, ma il pugile non crolla. Si sta però irrigidendo, è troppo contratto a causa di questa prolungata situazione di difesa.

 

L'inizio della quarta ripresa è più brioso per Fragomeni. Haye si rende conto che i colpi che sta portando non danno l'effetto sperato: il suo avversario è ancora lì, a minacciare il suo orizzonte. Al sesto round, dagli spalti si sente ora un coro d'italiani: "Non mollare mai". Haye è in difficoltà, adesso tocca a lui accusare un sinistro-destro alla testa. A meno di un minuto dalla fine del round Fragomeni si distrae, lascia il viso scoperto e Haye gli è addosso in una frazione di secondo. Stretto alle corde, Frago prende numerosi colpi alla testa, ma le gambe reggono di nuovo. Ogni campanella di fine ripresa è una preoccupazione più grande per il britannico.

 

Al settimo round, dall'angolo, Patrizio Oliva grida a Giacobbe di muovere il tronco, è troppo rigido ("Patrizio era il mio joystick, e io il suo videogioco"). Il pugile esegue e scarica prima un sinistro destro, e poi un sinistro destro al doppio della velocità. Haye è ferito, dalla tempia cola sangue sul sopracciglio. L'arbitro non ferma l'incontro per permettere le cure. A quel punto Fragomeni deve aver pensato al colpo del KO ("ognuno ha le mani che si merita"), al non poter fare altro che proseguire l'incontro e mantenere il ritmo alto. Il sangue copre tutto l'occhio di Haye. L'arbitro non se la sente di stoppare il match e Fragomeni cerca di non demoralizzarsi.

 

Adesso è lui in pieno controllo; si riapre la ferita di Haye. Due ganci potentissimi di Giaco non lo buttano giù, come previsto. Il britannico però è stretto alle corde, vede da un occhio solo. Ma questo gli basta per trovare il punto dove abbattere Fragomeni. Lo colpisce vicino all'orecchio, dietro la testa, e il dolore è insopportabile. E da montagna, Frago diventa d'un tratto un uomo. Scappa sul quadrato, mentre Haye lo insegue e cerca di colpirlo, come un bullo. L'arbitro ferma l'incontro, Fragomeni è crollato, si è accucciato sotto le corde, con i guantoni sulla testa e una smorfia in viso che sembra quella di un bambino.

 



 


Un anno dopo, nell'ottobre 2008, Fragomeni, nella sua Milano, davanti al suo pubblico, è campione del mondo dei massimi leggeri WBC, a 39 anni ha battuto Rudolf Kraj. Sul ring indossa una maglietta che raffigura il volto di Haye.

 

"Sono stato l'unico campione mondiale a non aver festeggiato." Giacobbe dopo la vittoria si separa dalla moglie, è costretto a dire addio anche a sua figlia. Litiga con la nuova ragazza e il suo manager. Il regolamento del pugilato lo costringe a rimettere i guantoni e difendere il titolo dall'attacco di Krzysztof Wlodarczyk. In quel match cade due volte, è un incontro iniziato male. La sua rimonta parte dalla decima ripresa. Finisce con un pareggio, è ancora campione, chissà per quanto ancora.

 

Il match successivo, contro Erdei lo costringe a restituire la cintura. Anche in quel match le cose si mettono male da subito, e la rimonta negli ultimi tre round non basta. Fragomeni torna a essere uno sfidante.

 

Lascia Milano, per allenarsi con Maurizio Zennoni a Lesignano de' Bagni. Vuole riprendersi la cintura. Il nuovo allenatore sa come aiutarlo: "È un guerriero sul ring, un bambino fuori: ha bisogno di certezze". Per guarire le ferite alle mani Fragomeni fa continue immersioni nel

, prima di metterle nell'acqua ghiacciata. Alterna gli allenamenti in palestra con corse tra le montagne. Un allenamento antico che gli ricorda quello di Rocky. Correre all'aria aperta gli piace tantissimo, soprattutto per il paesaggio: "Un giorno ci capitò persino di vedere due caprioli: non succede tutti i giorni, bisogna essere fortunati".

 

Per prendersi la cintura deve salire sul ring e affrontare di nuovo Wlodarczyk, e anche stavolta il "Diablo" lo sbatte al tappeto. Fragomeni si rialza, come sempre, ma alla sesta ripresa l'arbitro valutando l'entità della ferita allo zigomo consiglia a Giacobbe di ritirarsi e lui accetta.

 

"Non è perché sono stato campione del mondo allora sono diverso. Quello è sport, la mia passione, ma sono sempre lo stesso." Nella terza parte della sua carriera, dopo la sconfitta con Erdei, che avrebbe segnato la fine di un qualunque pugile quarantenne, e dopo aver fallito il secondo match con Wlodarczyk, la carriera di Fragomeni continua come se niente fosse successo. Sono il corpo, le abitudini, il tipo di allenamento che devono mutare, plasmarsi al tempo che passa, agli affaticamenti dell'età. Il resto non cambia.

 

Fragomeni si trasferisce in Messico, con il suo amico Salvador Birman, un operatore finanziario col pallino della boxe. Diventa il suo personal trainer: "Nella sua villa c'è pure una palestra!" Gli piace stare in compagnia del ricchissimo messicano, lui al lusso non è mai stato abituato. "Possiede un elicottero, un aereo privato, gira in Ferrari, è scortato dalle guardie del corpo, frequenta i migliori ristoranti e alberghi." Nel primo match di questa perentesi oltre oceanica, contro un modesto pugile, quello che frega Giacobbe durante le prime riprese è l'emozione: "Boxare davanti a tanti spettatori eccellenti. Sfido chiunque a non sentirsi le gambe tremare". A fine incontro rilascia un'intervista in cui dice: "D’ora in poi, chiamatemi Giacobbe 'il Mexicano' Fragomeni".

 



 


Giacobbe ha quarantacinque anni e quando si guarda indietro ringrazia il pugilato anche perché gli ha permesso di andare in giro per il mondo. Prima di iscriversi alla Doria, l'unico viaggio che aveva fatto era stato durante il miliare, da Treviso alla Calabria. "Sono stato in decine di nazioni. Mi è capitato di vedere paesaggi e conoscere popoli diversissimi tra loro."

 

Un pugile che arriva a quarantacinque anni è anche un uomo che invecchia e comincia ad avere preoccupazioni pratiche: sulla salute ("ogni volta che inizia un combattimento nel mio inconscio c'è una consapevolezza: dopo un colpo troppo potente o preso male potrei lasciarci la pelle") e sul futuro ("dopo il ritiro dalle competizioni dovrò trovarmi un lavoro. Quando sarò vecchio che cosa mi rimarrà? Non ho una pensione").

 

Intanto lui continua a boxare, a vincere, a perdere. Ha incontrato Wlodarczyk un'altra volta sul ring, ed è stato messo al tappeto di nuovo. Non si è ancora ripreso la cintura di campione del mondo, forse non ci riuscirà più, e molti per questo vogliono il suo ritiro. Ma è inutile chiedere di rispettare i tempi a un pugile che non ha mai corrisposto le aspettative. "Sono nato solo per lottare..." ha detto Giacobbe. Poi si è reso conto: "Che palle, eh?"

 
 


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