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Giulio Pecci
Naseem Hamed, il principe dimenticato della boxe
28 mag 2021
28 mag 2021
Ascesa e declino di uno dei pugili più spettacolari della storia.
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Giulio Pecci
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«Sono Muhammad Ali ed Elvis Presley riuniti in una persona sola». Una dichiarazione del genere farebbe ridere pronunciata da chiunque. Penseremmo a un esaltato, uno spaccone - un “cazzaro”, per dirla alla romana. Se poi ad affermarlo è un piccoletto alto poco più di un metro e sessanta (e pesante neanche sessanta chili), con un nasone tutto ammaccato che occupa metà del viso e un sorriso storto da eterno bambino, all’ilarità si potrebbe quasi aggiungere il fastidio. Eppure negli anni novanta “Prince” Naseem Hamed è stato veramente un incrocio tra Ali e Presley: un pugile inarrestabile, dallo stile unico, così come uno showman influente e imitato. Due anime indistinguibili per natura, che lo hanno portato sul tetto del mondo contribuendo a cambiare il suo sport. Ciascuna la forza dell’altra ma anche causa del suo declino precoce.

 

Naseem nasce nel 1974 in Inghilterra, a Sheffield, figlio di due immigrati yemeniti. Cresce dunque in piena era Thatcher, in un clima che ribolle di nazionalismo xenofobo. Feroci lotte politiche che si riverberano in una costante e violenta tensione sociale: da bambino è bullizzato proprio per via delle sue origini e del fisico gracilino; a sette anni il padre decide quindi di iscriverlo in una palestra di pugilato, la già affermata Winconbank's Gym del grande maestro Brendan Ingle. Il suo percorso inizia proprio grazie a questo topos tipico della storia del pugilato: il ragazzino che deve imparare a difendersi e che finisce per trovare nello sport il veicolo attraverso cui esprimersi a trecentosessanta gradi - «dall’età di sette anni ero destinato a essere una leggenda, a essere il combattente più popolare al mondo» dirà poi. Una ritrovata sicurezza nei propri mezzi, amplificata a dismisura dalla scoperta di un grande talento acerbo, che lo porta ad assumere quasi da subito un atteggiamento impenitente, di continua e sfiancante rivalsa sul mondo. Un atteggiamento che si traduce in quello che diventa il suo stile tra le corde.

 


(Sean Dempsey/PA Images)


 

Osservare Naseem Hamed vuol dire immergersi in una lezione esaustiva di tutto ciò che non si dovrebbe fare sul ring. Ogni maestro di pugilato perderebbe la testa se un giorno un suo allievo decidesse di boxare a quel modo. Per cominciare, combatte in guardia

, la posizione dei mancini. Posizione che già di suo è di difficile lettura, difatti i pugili particolarmente dotati tecnicamente (anche se destrorsi), possono alternare le due guardie per cercare di sorprendere gli avversari. A questa poi aggiunge un’agilità da felino, un gioco di gambe illusionista e dei riflessi da pilota di aerei. Forte di questo insieme di elementi, Naseem non prova neanche a tenere le mani alzate, la posizione di guardia convenzionale per lui non esiste. Non solo: il busto invece di essere rigido e scattante (pronto a spostarsi su rigorosi assi perpendicolari invisibili) sembra fatto di gomma, privo della spina dorsale. Si piega all’indietro, di lato e soprattutto pericolosamente in avanti, con la testa che a volte scende fin sotto la cintura dell’avversario, a portata di pugno.

 

Hamed brucia le tappe e dopo una fulminante ascesa amatoriale diventa professionista a soli diciotto anni. Nella carriera di un pugile il passaggio da amatore a professionista è sempre un momento delicato. C’è chi non se l’è mai sentita di fare il salto, chi lo ha fatto troppo tardi e chi troppo presto. Tra i motivi che rendono significativo questo passaggio c’è la possibilità di partecipare alle Olimpiadi, garantita solo quando si è ancora pugili amatoriali. La possibilità di rappresentare il proprio paese su un palcoscenico così importante ingolosisce molti; allo stesso tempo se si è sicuri dei propri mezzi e si ha l’ambizione di trasformare la propria carriera in qualcosa di anche solo vagamente redditizio, allora il salto tra i professionisti è l’unica via percorribile. Grazie ad un record amatoriale di 65-2 Hamed fu sicuramente considerato per rappresentare l’Inghilterra alle Olimpiadi del 1992. Sembra che fu scartato per motivi razziali e caratteriali: la sua esuberanza era incontenibile anche da adolescente e l’evidente origine araba (oltre che la fiera fede musulmana) lo esclusero dai piani della federazione inglese.

 

Il pugilato è uno sport fatto di centimetri, di angoli e geometrie, di calcoli al millesimo di secondo. Hamed con il suo stile epilettico distruggeva i piani gara, tagliava gli angoli, accorciava le distanze in modo così anticonvenzionale da far cadere gli avversari nel caos totale. L’unico a sapersi orientare era lui stesso, l’uomo al centro del ciclone. Come detto una volta da un telecronista, Hamed era un puzzle impossibile da risolvere per i suoi avversari. In più possedeva caratteristiche inusuali per un peso piuma: la potenza del colpo, già messa in luce nella carriera amatoriale, e una buona capacità di incassare. I suoi numerosi detrattori avevano terreno fertile per criticarlo sotto ogni aspetto: stile di vita, arroganza, l’inesistente eleganza della sua boxe. Ma la forza del pugno è un elemento puro, scevro del rumore di fondo, le speculazioni e il caos che possono circondare un fighter. Lo stesso vale per capacità di incassare: sono due elementi che si possono allenare solo in parte, bisogna nascerci. Hamed eccelleva in entrambi e lo score a fine carriera non lascia spazio a dubbi: 36 vittorie, 31 per KO, una sola sconfitta (ai punti).

 

Conquista il suo primo titolo nel 1995, contro il gallese Steve Robinson. A questo punto della sua carriera si è già autodichiarato “Prince” e il suo ingresso sul ring (con un folle salto mortale sopra le corde, suo marchio di fabbrica) è accompagnato dai fischi e le ingiurie del pubblico di casa, sostenuto dai telecronisti esplicitamente di parte. L’antipatia del pubblico è così ostentata che ognuno dei pochi colpi messi a segno da Robinson è salutato da una vera e propria ovazione. I due pugili non sembrano appartenere allo stesso universo: la stranezza anarchica di Naseem è così totalizzante da far apparire quasi fuori luogo e goffa la compostezza disciplinata di Robinson. Hamed è ovunque, si muove costantemente, manda a vuoto la maggior parte degli attacchi dell’avversario, incassando senza problemi i pochissimi che lo raggiungono. Ogni volta che Robinson si apre in avanti per attaccare viene punito severamente da combinazioni che sembrano non avere alcun senso, una tempesta di pugni che arriva da ogni lato. Nei momenti di studio tra i due invece Hamed balla, le mani sono giù, spinge il momento in fuori e lo indica come bersaglio e subito dopo infila dei colpi durissimi - in particolare montanti velenosi, forse il suo colpo più efficace. Ma soprattutto Naseem sorride, tutto il tempo. Meglio, ghigna terribilmente. Gli stessi commentatori, esasperati dall’atteggiamento del pugile, si spingono a dire che il pubblico amerebbe vedere spazzato via quel ghigno insistente.

 

https://youtu.be/FSyget_Uylo

 

Ma perché quella sera del 1995 volevano tutti vedere spazzato via quel sorriso? Perché l’Inghilterra era ancora innamorata dell’idea del campione inglese triste, magari anche scarso, ma sicuramente nobile e modesto. Un eroe proletario che sapeva di esserlo: aveva il buon gusto british di non ostentare mai, di giocare sempre all’interno delle linee di classe imposte dall’alto. Hamed non aveva niente a che vedere con tutto ciò. Il suo stile sopra le righe, la sua personalità e sensibilità da cena di Trimalcione erano quanto di più lontano dalla tradizione inglese. Hamed era figlio di immigrati e non mancava occasione di sbandierare il suo orgoglio in merito, con costanza e sicurezza: nelle entrate sul ring era accompagnato tanto dalla bandiera inglese quanto da quella yemenita e nelle interviste attribuiva tutto il suo successo ad Allah. Come è stato scritto su Vice Uk: “era il sogno dell'immigrato britannico realizzato in technicolor televisivo americano.” Divenne il punto di riferimento “street” in antitesi alla “Cool Britannia” di Tony Blair. Non aveva niente a che vedere con il brit-pop: il suo stile era puro hardcore continuum, jungle e garage - per altro i generi che prediligeva per le ring walk. Le sue movenze, i suoi veri e propri passi di danza sul ring, erano quelli dei raver sotto cassa pieni di ketamina. Il suo taglio di capelli divenne talmente iconico che oggi è finito integrato nell’estetica trap/hip-hop e il suo guardaroba era quello di un personaggio secondario di un film di Guy Ritchie. Divenne l’idolo di tutti quei ragazzi di seconda o terza generazione che nei lamenti inoffensivi di Damon Albarn e dei fratelli Gallagher non potevano trovare la scintilla dell’identificazione, a cui serviva qualcuno che infondesse orgoglio magari anche eccessivo in un retaggio culturale working class e immigrato, sempre messo da parte e bistrattato dalla politica e società inglese. Nel 1996 Hamed finì perfino dietro al microfono, firmando un featuring con il gruppo hip-hop inglese Kaliphz - anch’essi due inglesi-asiatici. Il pezzo ovviamente si intitola “Walk Like a Champion”.

 

https://www.youtube.com/watch?v=6gzY37BjMaM

 

Nell’episodio di “Comedians In Car Getting Coffe” in cui Jerry Seinfield intervista Kevin Hart i due

si trovano a discutere sull’approccio diametralmente opposto che li distingue. Seinfield come suo modello estetico cita Mike Tyson: l’entrata sul ring vestito solo di un accappatoio usato come poncho, già sudato fradicio e pronto all’azione, senza orpelli - senza neanche lo sgabello tra una ripresa e l’altra. Hart è l’opposto, lo ammette lui stesso: i suoi spettacoli devono essere prima di tutto eventi. Stadi da decine di migliaia di persone, giochi di luce, schermi giganti, fiamme inutili. Se dovessimo trovare un modello estetico pugilistico a Kevin Hart sarebbe proprio Naseem Hamed. I suoi combattimenti diventano show totali; soprattutto grazie alle ring walk sempre più elaborate, che arrivano a riprodurre il video di Thriller di Michael Jackson e perfino a farlo arrivare sul ring sopra un tappeto volante. Hamed è una figura pop a tutti gli effetti, come disse lui stesso d’altronde: «chi altro pensi potrebbe arrivare su un tappeto volante? Con P. Diddy che osserva lì in fondo, salendo sul ring come fosse un concerto, ballare, trasudare fiducia, e poi mandare K.O. qualcuno?»

 

Oltre che ispirare una generazione, impaziente di scrollarsi di dosso la decadenza e il grigiore degli anni tatcheriani, i successi e la personalità di Hamed spostarono nuovamente sull’Inghilterra i riflettori della boxe mondiale. I suoi incontri radunavano davanti alla televisione milioni di spettatori e le borse premio si gonfiarono smisuratamente. Tutto per una classe di peso (quella dei piuma) che non aveva mai goduto fino a quel momento della considerazione del grande pubblico. I risultati li vediamo oggi: i due pugili più famosi al mondo, Anthony Joshua e Tyson Fury, provengono entrambi dal Regno Unito - così come il fighter più influente degli anni dieci, Conor McGregor, suo fan dichiarato. Questi ultimi due nella capacità di intrattenimento e di costruzione del personaggio devono tantissimo alla strada indicata dal pugile di Sheffield. Tutt’oggi (soprattutto in Inghilterra) al di là di quello mediatico, non si riconosce ad Hamed il rispetto sportivo che gli sarebbe dovuto viste le statistiche, che lo pongono alla pari dei migliori pugili inglesi (e non solo) della storia: tre cinture conquistate, quindici difese vincenti. Intervistato da ESPN, l’allora direttore dei giornalisti di boxe britannici Colin Hart espresse candidamente la sola eventualità in cui gli inglesi avrebbero iniziato ad amare Hamed: «quando perderà. Se perderà

».

 

Ecco no, Hamed non perse bene. La prima sconfitta della sua carriera professionista in pratica coincide con la fine della stessa. Il 7 Aprile del 2001 si presenta sul ring di Los Angeles da superfavorito ma fuori forma, anche se con il solito atteggiamento impenitente. Lo sfidante Marcos Antonio Barrera è invece nella miglior forma della sua vita e fin da subito si intuisce che il match va in una direzione sola. Hamed prova ad attuare il suo gioco psicologico, a coprire le sue mancanze fisiche con l’intimidazione mentale. Barrera non ci casca e gli infligge una punizione esemplare: il suo corpo è sbatacchiato da una parte all’altra, maltrattato ogni volta che avanza o si ritrae. Il suo stile lo espone a tutti i colpi degli avversari, se la sua forma fisica è deficitaria o il suo gioco psicologico non funziona è impossibile non soccombere. Alla fine rimane miracolosamente in piedi fino al dodicesimo round, ma lo shock di una prestazione del genere si imprime negli occhi di tutti. In un certo senso Hamed si è sconfitto da solo: si allenò male e poco, litigando e sminuendo continuamente l’allenatore/padre Ingle. Una sconfitta che non sarebbe comunque arrivata se non avesse incontrato sulla sua strada un pugile agli estremi opposti del suo stile. Serviva l’apollineo per annullare il dionisiaco: lo stile ortodosso, composto e tecnicamente ineccepibile del pugile messicano annullò l’anarchia totale del principe, che non solo perse ma appunto perse malissimo, incassando i colpi più pesanti della sua carriera.

 

https://youtu.be/OgXJ8xeckNM

 

La spirale di confusione in cui finì dopo la sconfitta con Barrera fu tale che, eccezion fatta per un ultimo incontro vinto ai punti, Hamed sparì dalla scena. Fu come se il suo personaggio, apparentemente indistruttibile, si rivelasse sostenuto da uno scheletro di cristallo. Una vittoria parziale per i suoi detrattori, uno shock per i milioni di fan sparsi per il mondo. In molti ancora oggi si chiedono come fu possibile che una carriera potenzialmente alla pari di quella di leggende moderne e contemporanee si sia disintegrata al primo inciampo. La risposta non ce l’ha nessuno, forse neanche lo stesso Hamed. Ufficialmente, per altro, il pugile di Sheffield non si è mai ritirato, scivolando in un progressivo oblio da cui è riemerso solo per casi di cronaca non proprio edificanti e per lo shock sul drastico cambiamento del suo fisico. Di certo c’è che la storia dello sport (e ancor di più della boxe) sarebbe molto noiosa se fosse composta solamente da esseri umani bionici, con la perfezione totale e un calcolo instancabile dei pro e contro come mantra - stile Cristiano Ronaldo, Floyd Mayweather o Michael Jordan. Diventa quindi difficile non concordare con il commento di Naseem alla celebratissima quanto noiosa sfida del 2015 tra lo stesso Mayweather e Manny Pacquiao: «dopo l’incontro ho pensato che se questo doveva essere il combattimento del decennio, allora le persone devono sentire la mia mancanza molto più di quanto pensassi».

 

 

 

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