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La nascita della Lazio di Maestrelli e Chinaglia
20 ott 2020
20 ott 2020
Un estratto dal libro Le canaglie, di Angelo Carotenuto.
(articolo)
7 min
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Pubblichiamo un estratto dal libro Le canaglie, scritto da Angelo Carotenuto e uscito per Sellerio.

Dopo i casini di Terni, i tifosi si presentarono al campo a contestare. Una sconfitta in una partita di calcio a Roma è sempre ’na fiamma accesa sotto ’na pentola piena d’acqua. La folla premeva sull’inferriata che separava il prato dalle tribune. Varia umanità. Un uomo co’ ’na camicia aperta fino allo sterno, un crocifisso appeso a ’na catena che avrebbe potuto essere montata a uno pneumatico sulla neve. Un signore avanti negli anni che si agitava mentre il nodo della cravatta provava a strozzaje il gozzo. Un ragazzo con un maglioncino annodato al collo pe’ sentisse ancora in estate. Una donna fuori tempo massimo per le facinorosità, rinserrata dentro un vestito a fiorellini, 44 le lenti fumé, un ghigno infelice. Un ragazzino con un caschetto biondo, in t-shirt a mezze maniche, con le braccia posate sulla cancellata, nel gesto di chi è pronto a invadere, ma senza alcuna intenzione di farlo per davvero.

Un giovane di una ventina d’anni, con dei bernardoni che facevano venì in mente l’agonia. E lì davanti a loro: Tommaso in tuta, con l’orologio al polso, un pallone di esagoni bianchi e neri pentagoni sotto al braccio, sempre aperto a risponne alle obiezioni e alle richieste della gente. «A Maestre’. Te ne devi annà». La folla sa essere feroce quando si ficca qualcosa nella testa. Maestrelli cercava di contagiarla con la sua quiete. Sollevò la mano destra con un movimento lento, da esorcista, mentre io cambiavo ’n artro rullino nella macchina. «Capisco che siate delusi. Ma se venite qui per contestare, non ci aiutate». Il potere di una folla. Togliere la parola. «Nun hai capito. Te ne devi annà». Qualche minuto dopo, mentre Facco picchiettava le scarpette sulla panca in modo da rimuovere erba e terriccio dai bulloni, mentre Chinaglia sorseggiava svogliato e mentre la coscia di Martini finiva sotto le mani di un pancottone dai baffi spioventi, co’ ’na calvizie che gli tormentava i suoi 45 anni – Gigi, il massaggiatore Trippanera – Wilson avanzò al centro della stanza e consegnò la fascia da capitano. «Questa non la voglio più». «Non ti ci mettere anche tu» gli rispose a muso duro Tommaso. «Di cosa sono il capitano? Per la gente là fuori siamo degli scioperati. Dei bidoni. Io non voglio passare per una testa calda solo perché difendo i miei diritti». Fu quello il momento in cui Tommaso cominciò a conquistare i suoi ragazzi. 45 «Cos’è questa fascia? Cosa ti sembra, Wilson? Cosa ci vedete? Un pezzo di stoffa, potreste dirmi, e avreste ragione. È solo un ridicolo pezzo di stoffa, se per voi conta quello che state leggendo sui giornali, quello che la gente dice nei bar, quello che qualcuno urla là fuori. Se voi ci vedete solo questo, bene. Ecco cosa ne faccio. Ecco quanto vale». La gettò sul pavimento dello spogliatoio fradicio d’acqua calda sperperata e di pedate, iniziando a passeggiare in tondo per la stanza. «Sapete io come la penso? Io dico che stiamo prendendo un po’ di vento in faccia. Tutto qui. Possiamo spaventarci e tornare nella nostra cuccia, al caldo, al riparo. Oppure possiamo liberarci, uscire dall’angolo e andare fuori a dire chi siamo, a gridare che abbiamo fiducia in ciò che diventeremo».

Giorgio aveva gli occhi semichiusi. Pareva che la cosa non lo riguardasse. Martini, preoccupato per il suo infortunio, sollevò invece lo sguardo dal dolore personale per unirsi a quello di tutti. «Ma per convincere la gente accecata dalla rabbia», continuò Tommaso, «prima di tutto dobbiamo essere convinti noi. Per indicarle una prospettiva in cui credere, dobbiamo sapere cosa mostrarle. Il calcio è giocato da squadre che vogliono vincere e altre che vogliono incantare. Da cinici che puntano al risultato e da romantici a cui preme divertirsi. Per dire alla gente là fuori noi chi siamo, noi dobbiamo saperlo». A qualcuno scappò un principio di applauso. «E io lo so chi siamo. Noi siamo quelli che vogliono vincere e incantare. Noi siamo i cinici e i romantici. Perché sentendosi piccoli, piccoli si rimane. Ma non è una storia che ci riguarda, no, mettetevi in testa che 46 noi siamo quelli che vogliono tutto. Questi siamo, e non posso aver preso ceci per fagioli, perché piacerebbe a me essere il capitano di una squadra come la vostra. Come ai miei tempi lo ero della mia».

Fu a questo punto che si rivolse a Wilson, che se ne stava a cantone. «Per questo ho scelto te. Perché so che tu vuoi quello che voglio io. Perché tu vuoi quello che vogliono tutti gli altri. Di ciò che pensano fuori di qui, a noi non interessa. Tu sei il nostro capitano. Perciò adesso chinati e raccogli quella fascia. Te lo ordiniamo. Perché in una squadra di calcio non è stato mai soltanto un pezzo di stoffa. Quel bracciale siamo noi, e tu non puoi permetterti di lasciarci a terra». Tommaso si chiuse la porta dietro le spalle, accese una sigaretta, e mentre fuori dalla stanza la portava alle labbra sentì dentro un buccinare che diventava un’ovazione. Non andavo al campo tutti i giorni. All’epoca il giornale mio voleva che la mattina facessi innanzitutto il giro delle scuole. L’anno s’era aperto co’ ’na zuffa al ginnasio Dante Alighieri, quartiere Prati, perché dal finestrino di una macchina qualcuno aveva sbaccajato «sporchi capelloni comunisti» a una ventina di ragazzi che aspettava il suono della campanella. L’auto era stata inseguita e presa a sajoccolate.

Nella zona dell’Aurelia, al finimonno di duecento genitori per la mancanza di aule, per i doppi e i tripli turni, si erano aggregati gruppi di maoisti e la madama ne aveva arrestati tre per l’irruzione dentro l’edificio. Dopo soli quindici giorni di scuola, il collettivo del liceo Manara aveva già occupato per sollevarsi contro le repressioni al Plinio, all’Orazio, al Virgilio. Al Castelnuovo, e al Tasso, e nella scia dovunque, era partito l’ordine di chiudere i 47 cancelli in faccia agli studenti ritardatari per aver preso parte ai cortei, così che pure quando scavalcavano si trovavano di fronte la polizia a negargli l’accesso alle lezioni. Più i presidi impedivano le assemblee durante le ore di scuola, più crescevano le manifestazioni. A fine ottobre di quel ’71 scesero in du’ mila in piazza. Davanti all’Albertelli un diciassettenne fu ferito. Si poteva finì a tera in una pozzanghera di sangue per un volantino distribuito o rifiutato. Come al Bernini o come al Tacito. Cominciarono i giorni dei picchetti. Al Croce, in via Palestro, uno studente di estrema destra venne arrestato per blocco stradale: aveva un martello in tasca. Al Giulio Cesare si misero in otto con spranghe e bastoni contro un diciannovenne che in aula magna era intervenuto a un dibattito sul tema «lotta al fascismo». Ogni corteo trovava sul suo cammino un altro di colore opposto. Ventidue studenti del Mameli furono denunciati per degli slogan gridati contro la preside durante un’assemblea non autorizzata. La sospensione di tre liceali del Mamiani scatenò ’na sassaiola, il lancio di lacrimogeni, un accoltellamento, le manganellate dei celerini e l’assalto a una sede del Movimento sociale. Più tardi, una volta in confidenza, Tom mi avrebbe raccontato che in quei primi mesi da allenatore della Lazio, il suo lavoro mattutino al campo era distratto dai pensieri per le figlie. Patrizia, 22 anni, estroversa e disinvolta, frequentava la facoltà di lingue. Tiziana, 18, più timida e pudica, s’era iscritta una volta a Roma alla scuola interpreti, all’istituto Ferranti Aporti. Per farsi perdonare il nuovo trasferimento – una mappa di abitudini e amicizie da riscrivere – papà regalava vestiti, collane e braccialetti. Si faceva solo lo scrupolo di non accostasse per un bacio quando in casa c’erano amici e 48 amiche per studiare, un via vai di facce e sorrisi poco distinguibili, aveva memorizzato giusto una Sabrina bionda, un tale Manfredo co’ la chitarra, una Nilly che voleva fà l’attrice. Non era semplice stare dietro a tutti e ricordarne i nomi, se non altro gli pareva il segno di una vita sociale delle figlie assai rassicurante.

Era più semplice con Massimo e Maurizio, gemelli, 8 anni, terza elementare, cresciuti a piatti di lasagne e baccalà. A loro bastava che Tommaso je facesse trovà qualche pacchetto di figurine dei calciatori sotto il piatto, nel letto, tra i libri, e qualche volta che il lunedì matina potessero saltà la scuola e annà co’ lui a Tor di Quinto. Badava a loro la donna che Tom chiamava «sorella Rina» perché era davvero la sorella della moglie e per via della sua fede religiosa – come definirla – parecchio spinta.

La moglie Lina portava a Tom la colazione a letto, gli sceglieva gli abiti, scendeva a prendergli il giornale. Lui ne adorava il riso e le polpette al sugo, avversava i minestroni di verdura, accettava il compromesso degli scampi e di un filetto di rombo ai ferri. Questa era la vita semplice in via Banti 34, la vita che Tommaso difendeva dalle contestazioni, le lettere anonime, le minacce, gli eccessi di una città che ha sempre vissuto il calcio come ’na patologia. La casa era un guscio a protezione della normalità. Perciò né all’epoca né a ripensarci adesso saprei dire come Tommaso sentisse il bisogno di adottare un quinto figlio. Eppure lo fece. Adottò Giorgione.

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