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(di)
Gianni Montieri
Napoli senza primavera
07 mag 2024
07 mag 2024
Un addio malinconico allo Scudetto.
(di)
Gianni Montieri
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Poi cosa è successo? Dopo maggio è stato giugno, poi più niente. Poi è piovuto tanto, su Napoli, sulla squadra, su noi è calata una malacqua. Una nuova versione del romanzo di Nicola Pugliese, meno misteriosa, ma - se possibile - più incessante, sporca. Le strade si sono allagate, si sono aperte voragini, l’asfalto è crepato sotto i nostri piedi. Il sole è sparito, i palazzi si sono fatti sempre più grigi e poi hanno cominciato a muoversi, allargandosi dalla parte bassa della città a quella alta, dal lungomare ai Campi Flegrei. Si sono disallineati fino al punto di sparire, come a levarsi di traiettoria, solo una cosa doveva restare visibile, a portata di sguardo. Che il Maradona si vedesse da Posillipo, da Bagnoli, dalla Villa Comunale, dal Molo Beverello, dai Quartieri, da Santa Chiara. E dopo, allargando il campo, diventasse un puntino sempre più nitido, osservabile fin da Pozzuoli, da Chiaiano, da Giugliano, da Barra, da San Giorgio, da Pompei, da Ercolano. Che il Maradona stesse lì a ricordarci le nostre miserie e, soprattutto, le nostre gioie. Il posto della felicità era lo stesso della tristezza, della malinconia più cupa. Laggiù, nel catino dove avevamo riso, sorriso, urlato, dove ci eravamo abbracciati, ora avremmo dovuto versare ogni lacrima, come a pagare un debito. Ma contratto con chi? Piangere e basta, fare memoria e dimenticare. Tutto mescolato. Ricordare per non dare troppo peso al presente. Non pensare alla scorsa stagione per sopportare meglio il disegno del giorno. L’ordine innaturale delle cose composto da pareggi, da troppe sconfitte, da migliaia di gol non fatti, da decine di gol subiti.

Abbiamo vagato, anime grigie e solitarie, tenendo sottobraccio Juan Jesus, accarezzando la testa di Kvara, come se fossero fratelli perduti nel deserto e non lo erano? Abbiamo mostrato il pallone a Di Lorenzo e gli abbiamo ricordato la sfera, la rotazione, la corsa, il passaggio, il recupero. Abbiamo immaginato di spiccare un salto con Osimhen e siamo scivolati, noi e lui, sbucciandoci le ginocchia come quando eravamo bambini, solo che non lo siamo più. Non lo saremo più. E bambini eravamo fino a poco fa, fino alla primavera del 2023. Abbiamo riletto Raboni – che tra l’altro era interista – quando ha scritto con esattezza: «Niente più primavera, / mi viene da pensare, se allo sperpero / non ci fosse rimedio, se morire / fosse dolce soltanto per chi muore». Abbiamo sperperato, abbiamo chiesto a Politano, a Lobotka, non c’è rimedio abbiamo convenuto con Zielinski. Abbiamo telefonato a Spalletti e gliela abbiamo recitata. Niente più primavera, così è stato da settembre, con questo verso nella testa, con ogni speranza di rivedere bellezza, di divertirsi, di giocare all’altezza, che non vuole dire vincere per forza, vuol dire, beh, lo sapete. Niente più primavera a novembre, a Natale, niente più primavera a gennaio, a Carnevale, figuriamoci a marzo, figuriamoci se farlo sapere a Meret, a Rrahmani. Figuriamoci se correre il rischio di vestirci leggeri.

Questo eravamo, leggeri, eravamo tutti in grado di attraversare il terreno di gioco, stando un paio di millimetri dall’erba, come un Maradona, un van Basten, un Iniesta. Leggeri e ballerini come Zidane. Ora perduti e meravigliosi come il rigore – quel rigore – sbagliato da Baggio. Leggeri e crollati felici sul prato, come Zielinski dopo il gol di Raspadori. Zielinski che adesso cambia stagione, apre gli armadi, mette via i pullover e tira fuori t-shirt di altri colori. Leggeri e ora senza primavera, nell’attesa di un’estate incerta. Ci capiteranno spiagge libere troppo assolate e non avremo ombrellone e saremo in tanti, saremo un poco tristi, ci scotteremo, non vedremo l’ora di andarcene. Anguissa come correvi leggero, come sapevi ballare. E la leggerezza perduta di Kim che pure lui in Germania senza primavera, senza saper più cos’è l’anticipo, cos’è il senso di posizione. Fiori rosa senza pesco, fiori appassiti a forma di scudetto che si è scucito alla velocità del lampo. Ci è sembrato di arrivare in stazione e il treno ci è partito davanti al muso, eppure credevamo di essere in orario. Ma un altro terzino, non Mario Rui, non Olivera, si è sovrapposto tra noi e il binario. Guardiamo il tabellone, non ci sono più treni e l’avversario ha di nuovo raddoppiato. Avevamo chiesto a Mario Rui di crossarci la vita, ma lei e il pallone ci sono passati davanti.

Eravamo poetici, la squadra segnava gol bellissimi mai uguali. Ognuno di una diversa bellezza, ognuno meritato. Da dove venivano quei passaggi? Da dove saltavano fuori quelle triangolazioni? Chi davvero scoccava quei tiri? Qualcuno ha detto che abbiamo sognato e che ora stiamo vivendo un incubo. Sono false entrambe le cose, ma entrambe sono napoletane. Quando c’è il sole si va avanti per mesi, quando è brutto tempo, la pioggia diventa misteriosa e incessante come in Malacqua di Pugliese.

Il destino poi è divertente. Queste cose le ho pensate, una dopo l’altra, una dietro l’altra, come passi sull’asfalto, mentre camminavo sotto la pioggia a Milano, la sera in cui l’Inter ha decretato primavera battendo il Milan nel derby. Mi sembrava prima assurdo ma poi del tutto logico che io mi trovassi lì, nella città che ho tanto amato e che amo ancora, passeggiando lungo i viali vuoti mentre una squadra prendeva il posto della mia. Potrebbe dirsi una cosa surreale, ma non lo era. Era la cosa più reale che io ricordi. Trovarsi nel luogo altro, che non è più tuo, a scucirti dall’impermeabile uno scudetto che non ti appartiene più. Io sì, io davvero posso essere quello che consegna lo scudetto, io posso farlo a testa alta, seppur nascosta dalla coppola.

Il momento in cui tutto è passato da me all’Inter, da Napoli a Milano, è stato all’angolo tra via Boscovich e corso Buenos Aires, nel silenzio totale ho capito che i nerazzurri avevano segnato un altro gol. Ho cominciato a girare su me stesso e ho visto Osimhen fermo al semaforo, Kvara dribblare un manichino in vetrina, Meret respingere la traccia dei fari dell’unica auto che passava. Ho visto i calciatori del Napoli volare sopra il corso tra Porta Venezia e piazzale Loreto, sollevarsi a sinistra verso la Stazione Centrale e poi sparire. Leggeri così come erano apparsi, così come ci erano parsi.

Tutto poi è tornato normale, ho camminato fino all’hotel e sono andato in camera prima del fischio finale, avevo festeggiato nel modo che più amavo la scorsa stagione, camminando lungo le Zattere a Venezia con i miei cani, ora mi pareva giusto lasciare le strade di Milano a quelli del turno successivo, a quelli di questa diversa, non più nostra, primavera.

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