
Negli ultimi minuti è difficile ricordarsi che il Genoa non ha nessun bisogno del punto in classifica che sta cercando con tanta disperazione. È la fase della partita in cui il Napoli la sposta più sul lato fisico e gli avversari rimbalzano su un muro fatto di carne e cattiveria. In cui la squadra di Conte si mette dentro l’area di rigore e inizia a giocare con il cronometro, con il metro arbitrale, con la propria attenzione a difesa della porta di Meret. I giocatori di Vieira, però, sembrano avere letteralmente il fuoco dentro, costretti a spegnerlo correndo a destra e a sinistra per avere un qualche sollievo. Uno di quei momenti in cui il calcio produce pensieri paranoici: ma questi proprio contro di noi dovevano fare la partita della vita? Devono aver pensato i tifosi del Napoli.
All’84’ nei pressi dell’area di rigore azzurra ci sono otto giocatori del Genoa, e tra i tre che sono al suo interno c’è anche il centrale di difesa Johan Vasquez, che si è alzato da attaccante aggiunto come se fosse l’ultima azione disponibile per accedere a una finale europea. Aaron Martin riesce a trovare la luce per il cross, che arriva forte e preciso sulla testa del messicano, dopo aver superato sia Billing che Oliveira; e Vasquez la mette con una testata forte vicino al palo alla sinistra di Meret che, dopo essere stato battuto, rotola sull’erba più del dovuto, forse per far vedere di aver fatto il massimo. Cos’è che aveva spinto il Genoa fino a quel punto? La leggerezza dovuta alla salvezza acquisita? La voglia di affermarsi dei molti giovani in campo? La rottura del gemellaggio tra le due tifoserie? Sono ragionamenti a posteriori che poco hanno a che fare le motivazioni di chi scende in campo, e che rivelano quanto siano fragili le nostre congetture sul calendario, sulla cosiddetta forza “sulla carta” di una squadra.
Vieira aveva messo in campo una formazione che sembrava uscita dalla Masters League dei vecchi PES. Siegrist, Sabelli, Otoa, Vasquez, Ahanor, Masini, Frendrup, Norton-Cuffy, Messias, Vitinha, Pinamonti. Età media: 25,9 anni, esattamente quattro in meno rispetto al Napoli, che aveva in Raspadori - 25 anni - il suo giocatore più giovane. L’allenatore francese ha iniziato a far entrare nelle rotazioni i giocatori più giovani della rosa ancora prima di ottenere la salvezza aritmetica, arrivata alla fine di aprile dopo una sconfitta indolore contro il Como di Fabregas. Contro il Napoli ha fatto il suo esordio in campionato Benjamin Siegrist, portiere svizzero arrivato a gennaio dal Rapid che proprio giovane non si può definire, ma contemporaneamente è arrivato alla sua quarta presenza consecutiva Honest Ahanor, terzino diciassettenne che aveva esordito già alla fine di settembre con la Juventus ma che, da quel momento a queste ultime partite, complice anche un infortunio al menisco, aveva raccolto solo 16 minuti di gioco.
Proprio Ahanor, che da chi lavora con le giovanili viene definito un talento generazionale, aveva fatto capire al Napoli che non sarebbe stata una partita come le altre. La squadra di Conte aveva utilizzato l’entusiasmo del Maradona come NOS per accelerare subito nel primo tempo, trovando il gol con le coordinate che segue ormai da un intero campionato. L’associazione tra Anguissa e McTominay sulla trequarti avversaria, lo strapotere tecnico e atletico del centrocampista scozzese, la capacità letterale di Lukaku di spostare i corpi, nel caso del gol dell’1-0 quello del povero di Vasquez, che un po’ ingenuamente aveva pensato di riuscire a coprire il pallone tenendosi alle spalle questo bisonte.
Le ultime partite di campionato delle squadre che si apprestano a vincere uno scudetto ripropongono spesso i protagonisti più importanti dell’intera stagione, come se fossero dei titoli di coda, e per il Napoli di Antonio Conte questo significa parlare anche di Giacomo Raspadori, che in quest’ultima parte di campionato si sta ritagliando il ruolo dell’uomo della provvidenza. L’ex attaccante del Sassuolo aveva già segnato il gol decisivo contro il Lecce, e ancora prima aveva servito l’assist per McTominay che aveva dato i tre punti al Napoli a Monza, e ieri i suoi tagli in area dalla seconda linea sembravano gli stessero preparando un’altra serata di gloria. Già al 24’, su filtrante geniale di Di Lorenzo dal limite dell’area, Raspadori era andato vicino al gol del 2-0, ma Siegrist, coordinandosi alla bell’e meglio, era riuscito con i pugni ad alzare il pallone sopra la traversa.
Il Napoli, però, è andato in difficoltà sull’aspetto su cui Antonio Conte batte di più, e cioè la difesa dei cross e dei calci piazzati. Al 30’ il Genoa aveva preso già una traversa con un bel colpo di testa di Pinamonti, e un paio di minuti dopo è riuscita a trovare l’inaspettato pareggio, sfruttando una di quelle disattenzioni di reparto per cui Antonio Conte forse potrebbe prendere un muro a pugni. Sul cross in area di Messias, infatti, c’è qualcosa che non va nelle marcature: forse è Politano che avrebbe dovuto chiudere la diagonale, o forse è Rrahmani che avrebbe dovuto scalare esternamente per permettere a Di Lorenzo di prendere l’uomo alle sue spalle. In ogni caso Ahanor rimane libero di colpire di testa dal limite dell’area piccola e sfortuna vuole che il rimpallo tra il palo e il ginocchio di Meret mandi il pallone in porta. Non so se è esattamente questo quello che intendiamo quando parliamo di predestinati, ma mi pare che ci calzi bene.
In questo gol, come nel precedente, si sta parlando molto delle responsabilità di Meret, che del resto è sempre sotto osservazione perché per qualche ragione è un portiere che non piace a una parte della tifoseria del Napoli. È un discorso forse troppo sottile da affrontare. Diciamo che in entrambe le situazioni Meret avrebbe dovuto compiere un miracolo e questo sembra lo standard richiesto oggi a un portiere in Serie A: compiere miracoli in successione senza mancare un colpo. Nel gol di Ahanor la palla gli è rimbalzata davanti in un punto infido della porta; in quello di Vasquez c'è un'inquadratura in cui il tuffo di Meret sembra goffo e il tiro centrale, ma da dietro si capisce che era molto più angolato di quanto sembrasse.
Il Napoli, in ogni caso, sull'1-1, si è ritrovato in una partita scomoda. Costretto dalla vittoria dell’Inter a prendersi dei rischi in una fase della partita in cui è solito iniziare a chiudere i boccaporti, contro una squadra che, pur creando poche occasioni chiare, dava l’impressione di avere tutta l’intenzione di approfittarne. Per riportare la partita sui binari preferiti c’è stato bisogno che Scott McTominay alzasse ulteriormente l’asticella della sua prestazione, che era già posta piuttosto in alto per tutto il resto della stagione.
Alla metà del secondo tempo il centrocampista scozzese è sembrata “prenderla sul personale”, come dice Michael Jordan in The Last Dance, figura di cui in questo momento sembra emanare la stessa sensazione di inesorabilità. Guardate l’azione quasi da Kvaratskhelia con cui si libera di Sabelli sul gol del 2-1, la doppia finta con cui si piega come una canna al vento per ingannare il diretto marcatore e mandare Raspadori in area con un passaggio che sembra fatto solo per essere messo in porta. Guardate la forza con cui tira sul primo palo pochi minuti dopo, e con cui avrebbe segnato quasi sicuramente se Siegrist non avesse pescato dal mazzo la prestazione della vita, con il rischio comunque di spezzarsi un braccio respingendo il pallone con la mano.
Doveva essere il momento in cui la partita scivolava dolcemente nella festa del Maradona, in cui si iniziavano a fare i primi bilanci in vista dello scudetto, e invece il Genoa ci ha fatto scoprire una realtà diversa. Nel momento in cui il Napoli ha abbassato il baricentro, abbiamo iniziato a vedere una squadra di un’intensità fuori dal comune, che ha messo in difficoltà quella di Conte proprio sul piano che sembra preferire. In realtà questa non è proprio una notizia. Da quando Vieira è approdato in Serie A, il Genoa è diventato una delle squadre più aggressive del nostro campionato. Se si iniziano a prendere i dati dal 20 novembre, giorno in cui è stato ufficializzato come nuovo allenatore, il Genoa è terzo per PPDA, secondo per aggressioni (cioè contrasti, pressioni e falli entro due secondi da una ricezione avversaria), secondo per riaggressioni, quarto per pressioni nella metà campo avversaria. Ne avevo già scritto brevemente anche in questo pezzo realizzato per il blog di Hudl Wyscout.
Guardando l’intensità del Genoa in campo viene una vertigine a pensare che questa è la stessa stagione del ritorno in Serie A di Mario Balotelli, delle aspettative messianiche sul suo conto. Sono passati solo pochi mesi ma sembra essere cambiata un’intera epoca storica. Oggi il Genoa ha una nuova proprietà che sembra aver dissipato le nuvole più nere sul suo orizzonte e la squadra ha ottenuto la salvezza in grande anticipo con un gioco moderno ed efficace che sembra non aver bisogno di un vero attaccante.
Nel mezzo immaginiamo Vieira allenare questo gruppo di ragazzini come il generale di Full Metal Jacket, mentre di Balotelli non ci sono più notizie da mesi. A inizio aprile l’attaccante del Genoa ha pubblicato un selfie nelle sue storie di Instagram scrivendo che "qualcuno da queste parti meriterebbe non un Mario maturo, ma il Mario 16enne ribelle. Forse capirebbero cosa comporta veramente mancare di rispetto così”, ma la cosa non ha fatto nemmeno notizia. Vieira è andato avanti per la sua strada, ringiovanendo gradualmente la rosa, forse anche perché - come il progetto Red Bull insegna - con un gioco così dispendioso, sia atleticamente che mentalmente, non si potrebbe fare altrimenti. «Mi piacerebbe segnare sempre quattro gol a partita, ma qui è diverso», ha detto Vieira in una recente intervista alla Gazzetta dello Sport «Il mio DNA è identico a quello del club, mai in passato avevo trovato un’identità così simile con la mia squadra come è accaduto stavolta. Qui uso il “noi”, non l’“io”».
Alla fine, più per forza di volontà che per reale pericolosità, il gol del Genoa è arrivato e se è vero, come ha detto Antonio Conte a caldo, che era solo il suo secondo tiro in porta, è anche vero che nell’equilibrio delle partite conta anche il peso di una squadra, la voglia che ci mette dentro, l’ambizione con cui prova a recuperarla. Nella conferenza pre-partita Patrick Vieira l’aveva detto che l’obiettivo del Genoa, ancora di più dopo l’ultima sconfitta in rimonta contro il Milan, sarebbe stato quello di «provare a vincere contro una big», ma sembravano frasi di circostanza. Oggi sappiamo che non era così, e quello che rimane è un campionato di cui, a due partite dalla fine, ancora sappiamo poco o nulla.
Adesso cos’è peggio? Affrontare la Lazio in corsa per un posto in Champions League o il Parma che è stato inaspettatamente rigettato nella lotta per non retrocedere dalla sconfitta con l'Empoli? Dopo la partita Antonio Conte ha detto che il Napoli deve fare sei punti se vuole vincere il campionato e oggi non riusciamo più a dire con certezza se siano frasi di circostanza o meno.