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Fabrizio Maria Spinelli
Napocalisse
17 ott 2023
17 ott 2023
Poco tempo dopo lo Scudetto al Napoli tutto pare andare in pezzi.
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Fabrizio Maria Spinelli
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IMAGO / Fotoagenzia
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Preludio

È il 19 marzo 2023, a Torino fanno in media 15° cg, 1021 hPa, e allo stadio Olimpico il Napoli di Spalletti regola la formazione di Juric con uno 0-4 che traduce con esattezza la differenza tra le due squadre. Il terzo gol è forse quello che restituisce meglio l’idea di cosa il Napoli faceva ai suoi avversarsi. Rimessa laterale sulla destra, una decina di metri prima del centrocampo. Di Lorenzo la batte su Anguissa prima di lanciarsi in diagonale verso il centro del campo. Il camerunese si libera di Ricci con un sombrero, servendo la corsa del compagno. Il terzino può andare in percussione, raggiungendo la trequarti campo e aprendo verso Kvaratskhelia largo a sinistra. Il georgiano punta Singo, che sembra terrorizzato alla sola di idea di affrontare il numero 77, temporeggia, e con un colpo di tacco favorisce la sovrapposizione di Olivera sul fondo. Il cross del mancino è lungo, abbastanza alto, una palombella sul secondo palo: come spesso succede, Osimhen colpisce la palla di testa quando la traiettoria non ha ancora compiuto il suo arco. Nonostante si trovi a pochi centimetri dalla porta, la forza che il nigeriano imprime alla sfera è un messaggio per tutti: avversari, compagni, spettatori. Il Napoli ha raggiunto il suo zenith. È prossimo a vincere lo scudetto dopo tanti anni, ha raggiunto i quarti di Champions per la prima volta nella sua storia, e gli ostacoli che lo separano dalla finale di Istanbul – Milan e la vincente di Inter-Benfica – sembrano alla portata per quella che sembra un’allucinazione collettiva ma in fondo non lo è. Molti tifosi controllano i voli per la Turchia. La società di De Laurentiis appare destinata nel futuro prossimo a competere con le grandi società europee. Non per ragioni finanziarie, come è ovvio, ma in virtù della modernità, dell’efficacia e della bellezza del suo gioco, arricchito da interpreti fenomenali.

Ora sono le 13.48 di mercoledì 11 ottobre, sette mesi dopo la trasferta col Torino, e Rudi Garcia, il nuovo allenatore del Napoli, è appena atterrato a Capodichino per dirigere le solite sedute a ranghi ridotti della pausa Nazionali. Il Napoli ha 14 punti in campionato dopo otto giornate, ha già perso due partite in casa, più una terza in Champions League (ci ritorneremo), ma non è questo quello che più preoccupa i suoi tifosi. Il loro senso di disagio e scoramento nasce dalla mancanza di competitività e organizzazione di una squadra che solo pochi mesi prima, grossomodo con gli stessi giocatori, era semplicemente troppo forte per gran parte dei suoi avversari: la capacità di dominare il contesto piuttosto che subirlo, la varietà e la ricchezza delle soluzioni tattiche, la prepotenza tecnica dei suoi giocatori, la fluidità del gioco (il Napoli era un liquido che si adattava ai contorni del recipiente in cui si trovava), l’aggressività delle riconquiste – potrei continuare per altro mezzo paragrafo. Ecco, tutte queste cose, semplicemente non ci sono più, e ciò che fa riflettere è la rapidità con cui non ci sono più.

Immagino che adesso Garcia sia in auto, diretto a Castel Volturno, osservando il degrado edilizio e il paesaggio post-atomico, paludoso e spoglio della Domitiana, grigio e rattrappito, o giallo ocra, quella striscia dove la provincia di Napoli prevede quella di Caserta. Il conflitto arabo-israeliano, il progressivo calientamento della crosta terrestre, lo smottamento dei Campi Flegrei, non sappiamo a cosa stia pensando l’allenatore francese mentre si avvicina al Konami Center (direi: probabilmente a tutt’altro). Formalmente è ancora un tesserato del Napoli, de facto non lo è più. O meglio. Probabilmente non lo è mai stato.

Come si è arrivati a Rudi Garcia

Il 25 marzo 2023, presso la sala conferenze del Maschio Angioino, Aurelio De Laurentiis annuncia che Luciano Spalletti continuerà ad essere l’allenatore del Napoli anche per la stagione successiva. Pochi giorni dopo comunicherà al tecnico, via PEC, di aver attivato il rinnovo di un anno previsto dalla clausola inserita nel suo contratto. Spalletti si appresta a vincere uno scudetto storico, ma nonostante questo De Laurentiis non ritiene opportuno un confronto con il tecnico per pianificare il futuro, discutere di un adeguamento (con 3,2 milioni annui Spalletti è solo il quinto allenatore più pagato del campionato) e confrontarsi sulla crescita del club. Probabilmente era nelle sue intenzioni farlo a stagione conclusa, questo non possiamo saperlo, ma la violenza unilaterale di quella PEC è sicuramente un punto di non ritorno all’interno di un rapporto – quello tra presidente e allenatore – deteriorato da tempo. Già al termine del campionato 2021/22 il futuro di Spalletti sembrava segnato. Nonostante avesse raggiunto l’obiettivo della qualificazione in Champions (che al Napoli mancava da due anni), il tecnico è indicato dai giornalisti e dalla piazza come il principale responsabile della flessione subita dalla squadra ad aprile (un punto in tre partite con Fiorentina, Roma ed Empoli – con la corsa scudetto consegnata alle milanesi). I giocatori vengono contestati, in città compaiono striscioni che esortano Spalletti ad andarsene e la società non fa niente per difenderlo. Non sappiamo cosa De Laurentiis abbia rimproverato a Spalletti durante quei giorni, e perché – nonostante le notizie che circolassero – gli abbia prolungato la fiducia. Il seguito lo conosciamo già: l’anno successivo il Napoli farà la miglior stagione della sua storia dopo una profonda rivoluzione di mercato e Spalletti lascerà la sua camera all’Hotel Britannique di corso Vittorio Emanuele per trasferirsi in uno stanzino nel centro sportivo di Castel Volturno, segno sì di una dedizione monastica (la religiosità di Spalletti è un tema troppo trascurato quando si parla delle sue squadre), ma anche di precarietà, di qualcosa a cui manca la dimensione della durata.

Il rapporto Maradona/Spalletti è 10:4, ma non si vede una parte del muro. Federa quasi bella.

Il confronto tra De Laurentiis e Spalletti avviene in un noto ristorante di pesce della Riviera di Chiaia. C’è tutta una letteratura in merito a questo incontro, da cosa si sono detti a cosa hanno ordinato, il tono con cui si sono parlati, come muovevano le mani. Dopo un’inspiegabile attesa di due settimane, e un continuo rimbalzare tra le parti (ogni giorno che passava la cosa si faceva via via più chiara come una schermata che si carica a 56k), De Laurentiis ufficializza la rottura con Spalletti. Se gli altri due allenatori che hanno fatto la fortuna del Napoli (Sarri e Mazzarri) hanno abbandonato la città per ambizione e per fare un comprensibile salto professionale, Spalletti – con alle spalle una carriera importante – lo fa per stare fermo, lasciando una squadra con ancora margini di crescita e un progetto che sembra poter continuare. La retorica del “lasciare da vincitore” non sembra funzionare. Nelle riflessioni dell’allenatore, il peso di un rapporto insostenibile con un presidente-padrone ha probabilmente avuto la meglio.

South Park, stagione XIII episodio 3, Stan Marsh scopre come funziona il mercato: un gallo viene decapitato e lanciato su un equivalente della nostra ruota della fortuna. La casella su cui il pullus agonizzante stramazza determina il futuro quadro economico. Una buona metafora dei recenti processi decisionali della SSC Napoli.

Sportivamente e no, Spalletti lasciava in dote a De Laurentiis (e al successore) una miniera d’oro. Il presidente appare calmo, è sicuro di sé, rilascia dichiarazioni non prive di una loro naïveté («questa squadra potrebbe allenarla chiunque»). Sonda diversi allenatori accomunati dalla conditio sine qua non del 4-3-3 – il sigillo che avrebbe dovuto garantire la continuità col passato. Dopo diversi rifiuti (la stampa parla di Nagelsmann, Mancini, Motta e Luis Enrique – con gli ultimi due che hanno confermato le indiscrezioni) e l’impossibilità di arrivare a Vincenzo Italiano (vincolato da un contratto con la Fiorentina che – come ricordato da De Laurentiis stesso in quei giorni – è una società amica) si arriva presto a una situazione di stallo. Poi da ambienti romani salta fuori il nome di Garcia. Nello specifico, pare che a caldeggiare l’allenatore francese sia stato soprattutto Carlo Verdone. De Laurentiis incontra Garcia negli studi della Filmauro di via XXIV Maggio, dopo pochi giorni è il nuovo allenatore del Napoli.

Dove era finito Rudi Garcia

All’Al-Nassr. È durato 8 mesi, prima di rescindere consensualmente a seguito di alcuni risultati negativi e del cattivo rapporto con CR7. Precedentemente si era guadagnato altre due brutte rotture: a Marsiglia e soprattutto a Lione, dove Juninho gli ha riservato queste parole. In entrambe le esperienze ha preso la squadra a stagione in corso. A Marsiglia fa un quinto e quarto posto e soprattutto una finale di Europa League, con una rosa interessante e competitiva, illuminata dal talento di Florian Thauvin e dalla balistica militare di Dimitri Payet (ma c’erano anche Ocampos e soprattutto Anguissa, Boubacar Kamara, Maxime Lopez e Sanson a comporre un centrocampo di alto livello), prima dell’ammaraggio della stagione 2018/19: ultimo posto con un solo punto fatto nel girone di Europa League (con Eintracht, Lazio e Apollon Limassol), e solito quinto posto in Ligue 1 (dietro al Saint-Étienne). L’anno successivo subentra a Sylvinho sulla panchina del Lione, ma è difficile valutare il suo lavoro a causa dell’interruzione del campionato francese, che ha congelato la classifica alla ventottesima giornata (settimo posto) e non ha ripreso dopo la prima ondata di Covid. Il Lione però gioca le semifinali di Champions dopo aver battuto la Juventus fine impero di Sarri in una strana doppia sfida (con l’andata giocata a febbraio e il ritorno ad agosto) e dopo la clamorosa vittoria ai quarti con il City in una partita secca, probabilmente il miglior risultato della carriera di Garcia dopo il campionato vinto con il Lille (2010/2011). In entrambe le partite la strategia del tecnico è chiara: schierarsi con un blocco medio-basso, fare densità al centro, lasciare il controllo del pallone alle squadre di Sarri e Guardiola per provare a punirle in ripartenza (grazie alla velocità di Cornet, al dinamismo e alla ferocia di Toko Ekambi e, boh, a ogni cosa di Depay).

Il 5-3-2 reattivo di Garcia funziona, anche grazie a un centrocampo invidiabile (Caqueret, Bruno Guimarães, Aouar), ma i nodi vengono al pettine la stagione successiva (2020/21): nonostante alcune vittorie importanti (su tutte lo 0-1 al Parco dei Principi – che dimostra come Garcia dia il suo meglio quando può impostare quel tipo di partita), il Lione chiude quarto, a due punti dal Monaco, fallendo la qualificazione in Champions. I cattivi rapporti con la squadra e con la dirigenza convincono Garcia a dimettersi e a scegliere l’Arabia. Il tecnico non raggiunge una qualificazione in Champions dalla seconda stagione con la Roma (2014/15: il derby di Yanga-Mbiwa). Ma come tutti sanno anche dalla società di Pallotta fu allontanato in malo dopo un inizio di campionato deludente, quando aveva a disposizione con ogni probabilità la rosa più forte che abbia mai allenato: la stessa squadra che l’anno successivo farà il record di punti in campionato nella storia dei giallorossi, e a guidarla sarà, ovviamente, lui, Luciano Spalletti.

«Meriggiare pallido e assorto ecc.»

Negli affollatissimi ritiri di Dimaro e Castel di Sangro l’atmosfera è giuliva, festosa, leggera. Il Napoli è campione d’Italia e nulla può intaccare il buonumore dei tifosi, nemmeno l’addio prima di Spalletti e poi di Giuntoli. Il DS è stato sostituito da Mauro Meluso – un dirigente di basso cabotaggio, con una carriera passata tra serie B e Lega Pro, figlio di uno storico del Mezzogiorno – il che significa che, di fatto, De Laurentiis ha accentrato ulteriormente il proprio potere in società, riservandosi la scelta dei giocatori da acquistare tra quelli proposti dal confermatissimo duo Mantovani-Micheli, i responsabili dello scouting e – secondo molti – dei successi del Napoli. La rinuncia a una naturale divisione delle competenze a favore di un ordinamento teocratico è una tendenza di tutta la presidenza De Laurentiis, che già da una decina d’anni ha rinunciato a un DG e, dopo il baronato di Marino, ha via via sempre dato meno potere ai suoi DS, fino, questa stagione, a farne di fatto a meno (sempre ADL: «la figura del direttore sportivo non è così centrale»).

L’estate 2023 è stata perciò un prolungato happening delaurentiisiano. I contestatori della società (che la attaccavano, tra l’altro, per ragioni come minimo discutibili, ossia la ricerca del grande nome, più investimenti sul mercato, l’obbligo di trattenere i migliori giocatori) si sono ormai prostrati al presidente; tutti i giornalisti locali, nonostante Kim fosse stato sostituito con Natan – un giocatore interessante, ma acerbo e senza esperienza – e il mercato del Napoli sembrasse incagliato a degli scogli sommersi, nella consueta frenesia perplessa ondeggiante tra una trattativa estenuante e un giocatore troppo caro, predicavano la calma e esternavano una fiducia ecumenica nei confronti dell’uomo solo al comando, che non poteva sbagliare, che aveva sempre ragione, che era più furbo e vedeva più lontano degli altri. Erano – tanto i giornalisti quanto i tifosi – come i passeggeri del Titanic dopo che la nave aveva cozzato il blocco di ghiaccio: inconsapevoli della tragedia, con gli abiti sbottonati, si godevano la crociera ballando.

Eppure in pochi giorni il Napoli aveva visto sfumare l’arrivo di Danso, reputato da tutti gli addetti ai lavori il perfetto sostituto di Kim (con annesso Tik Tok molto divertente del Lens), e di Gabri Veiga, uno dei prospetti più eccitanti del calcio europeo, in una trattativa che sembra un esperimento con ChatGPT di Fabrizio Romano. Il Celta Vigo ha fretta di vendere il proprio tesserato, ma De Laurentiis – nonostante il calciatore galiziano non si alleni con il proprio club in attesa del trasferimento – temporeggia probabilmente per ottenere uno sconto sulla clausola e modalità di pagamento più convenienti. Nel frattempo si inserisce l’Al-Ahli, che ha appena ricevuto il no di Zielinski, e, sembrerebbe per ripicca, chiude Veiga in poche ore. Come se non bastasse, l’account Twitter di Al-Qahtani inizia a minacciare De Laurentiis con una serie di post metaironici.

Tutto si può dire tranne che Al-Qahtani non abbia gusti raffinati in fatto di centrocampisti. Poche ore dopo averlo minacciato, un bel messaggio di condoglianze. Esistono stalker teneri.

Anche se i segnali non sono incoraggianti, l’ottimismo dell’ambiente è ancora alto. Il Napoli è riuscito a trattenere tutti i suoi giocatori migliori, e il rinnovo di Osimhen, dopo 12 incontri con il suo agente, sembra prossimo alla chiusura. Come riportato da Marco Giordano di tvplay prima e dall’Equipe poi, Da Laurentiis ha rifiutato un’offerta da 140 milioni per il suo centravanti, rispondendo alla mail dell’Al-Hilal che «con quei soldi potevano comprarsi al massimo un piede» del nigeriano. Ai nastri di partenza la rosa è la stessa dell’anno scorso. La perdita di Kim non è di poco conto, anzi, ma l’impressione è che Cajuste sia un miglior cambio rispetto a Ndombele e che Lindstrøm possa essere più utile di un deludente Lozano. Nonostante il Napoli venga da scudetto vinto e quarti di Champions, De Laurentiis ha ancora una volta deciso di attuare una strategia conservativa, di riduzione del danno, di fatto non investendo i soldi della cessione di Kim e diminuendo ulteriormente il monte ingaggi.

«Dolore che tortura se stesso/ che uccide il dolore nel punto stesso del dolore»

Il 19 giugno, nello scenario adeguatamente ancien régime del Museo del Bosco di Capodimonte, a metà tra un revival borbonico e un video di Liberato, Rudi Garcia viene presentato alla stampa. La conferenza è interminabile (più di un'ora), ma abbastanza fiacca. L’atteggiamento dei giornalisti di totale reverenza. De Laurentiis mente dicendo che Garcia era la prima scelta e fissa l’obiettivo stagionale nella «finale di Champions». Garcia contraddice il presidente chiarendo che per lui il 4-3-3 non è un dogma e che per assicurare competitività e continuità di risultati dovrà cambiare leggermente il modo di giocare della squadra, metterci del suo. L’allenatore francese non nomina mai Spalletti, e anzi, in una conferenza successiva, quella prima di Genoa-Napoli, dichiara di «non conoscere il passato» e di non aver guardato i suoi calciatori in Nazionale (con riferimento a Italia-Ucraina in cui Spalletti ha giocato con Raspadori punta). A parole, la strategia di Garcia sembra quella di voler normalizzare il Napoli: forzare meno le uscite del basso e appoggiarsi più rapidamente su Osimhen, non cercare a tutti i costi la riconquista immediata, accettare con serenità fasi di difesa posizionale. Nei fatti, e si vede già nelle prime tre partite contro Frosinone, Sassuolo e Lazio, le cose paiono diverse. Come ha giustamente notato Fabio Barcellona, nei numeri il Napoli di Garcia e quello di Spalletti non sono troppo lontani, ma i correttivi portati da Garcia, per quanto lievi, hanno finito per mutare completamente il quadro. Il Napoli non è più fluido nelle uscite dal basso, manca di soluzioni codificate efficaci e soffre le squadre che lo vengono a prendere alto.

La "pallata" su Osimhen non è tanto una scelta quanto una mancanza di vere alternative. La soluzione diretta sull’attaccante era ricercata già da Spalletti, ma in quel caso il nigeriano era accompagnato dal resto della squadra, pronta a salire a sostegno. Ora il Napoli è tornato ad andare a due velocità, come succedeva con Gattuso, con Osimhen lasciato a fare la lotta con i centrali e il primo compagno disponibile a 30 metri. Anche il possesso palla nella metà campo avversaria è diventato più meccanico e prevedibile: se Di Lorenzo prova ancora a venire dentro al campo (ma via via con meno convinzione), Olivera (diventato titolare a discapito di Mario Rui) è un giocatore da binario, atleticamente interessante, ma molto poco creativo; le mezzali raramente si scambiano posizione o vanno a creare densità nella stessa zona di campo. In questo modo il peso creativo ricade tutto sulle spalle di Zieliński e Kvaratskhelia e sulla loro capacità di associarsi, sicuramente la cosa che ha funzionato meglio in queste prime dieci partite del Napoli.

Avere meno uomini in zona palla e non cercare di manipolare le difese avversarie con un possesso prolungato vuol dire anche essere meno efficaci nelle riconquiste: se anche il Napoli di Spalletti aveva mostrato una certa vulnerabilità in transizione, quello di Garcia appare semplicemente indifeso, con lo spazio tra difesa a centrocampo regolarmente sovraesposto agli attacchi avversari. Zieliński e Anguissa non hanno il passo per coprire tanto campo alle loro spalle e Lobotka tende a schiacciarsi troppo sui due centrali. Proprio le funzioni del regista slovacco sembrano quelle più mutate: Garcia cerca di sfruttarne soprattutto le qualità difensive, buone ma non eccelse, chiedendogli il più delle volte di non accompagnare l’azione e di restare basso con i due difensori. Se l’anno scorso Lobotka era non solo un formidabile smistatore di palloni ma anche l’elastico che schizzava in avanti a guidare il pressing e a invitare la squadra a difendere in avanti, quest’anno ha la tendenza a rimanere basso con il blocco difensivo, il che acuisce l’impressione di una disposizione poco organica e spezzata in due. Se prima Lobotka era rivolto in avanti, adesso è rivolto indietro. Infine, il Napoli ha enormi problemi anche a portare la prima pressione. Come con Spalletti i calciatori si schierano in un 4-4-2 con una delle due mezzali in linea con Osimhen, ma con gli esterni molto bassi. Più che aggredire l’avversario però, i giocatori del Napoli sembrano interessati soprattutto a schermare le linee di passaggio. Il Frosinone, il Sassuolo, il Genoa – per non parlare di Lazio, Real Madrid e Fiorentina – hanno aggirato quasi sempre con facilità la prima opposizione degli uomini di Garcia, con l’allenatore che dalla panchina ha spesso chiesto di non pressare. L’immagine è quella di squadra costantemente a metà del guado: con la difesa molto alta, ma passiva e con i reparti scollegati – invariabilmente fragile.

Coconut Gate

Nei giorni placidi e assolati di Castel di Sangro una presenza costante nell’albergo dove De Laurentiis ha il suo ufficio è quella di Roberto Calenda, agente di Victor Osimhen. Il contratto del nigeriano scade nel 2025 perciò occorre trovare una soluzione in tempi brevi: o provare a monetizzare la sua cessione durante la finestra di mercato estiva o offrirgli un rinnovo a cifre a cui il Napoli mai si è avvicinato nella sua storia (si parla di 12 milioni netti a stagione). De Laurentiis è disposto a scendere a un compromesso per lo stipendio, ma la trattativa si arena sulla clausola rescissoria. Calenda è in una situazione di forza, sa che se il giocatore non rinnova può andare via l’anno prossimo a una cifra nettamente più bassa di quella che il presidente del Napoli chiede (cfr. sopra), perciò non si muove dai 100/120 milioni, una valutazione ritenuta inadeguata da De Laurentiis.

Niente di nuovo nel magico mondo della contrattazione. Viene però da chiedersi perché i negoziati siano stati intrapresi a luglio inoltrato e non molto prima. La stagione rischia di trascinarsi la presenza stregata di un problema irrisolto, con il suo sottofondo monotono di tensione (due problemi, se vogliamo considerare che Kvaratskhelia è ancora il giocatore meno pagato in rosa: solo Nikita Contini e Alessandro Zanoli guadagnano meno di lui). Ma già dopo poche settimane Calenda mette un punto alle speranze della società di raggiungere un accordo con Osimhen. Un contenuto di Tik Tok ritenuto offensivo dall'attaccante nigeriano viene rimosso con ritardo dall’account manager, e Calenda via tweet minaccia azioni legali. L’agente fa esplicitamente riferimento a un video in cui una vocina in broken english ironizza sul rigore sbagliato con il Bologna. Per chi ha un po’ di dimestichezza con Tik Tok: niente di grave, è semplicemente il linguaggio della piattaforma. Dopo il tweet di Calenda però emerge un altro video, anch’esso rimosso, risalente ad alcuni giorni prima. E sì, questo è piuttosto controverso. Dura pochi secondi e si vede Osimhen con in mano una noce di cocco e in sottofondo la canzoncina virale I’m coconut: «I’m not a boy/ I’m not a girl/ I’m a coconut». Si tratta di un trend molto diffuso su Tik Tok in cui – per ciò che ho visto – delle ragazze decisamente non in età da marito (almeno nella nostra cultura), e bianche, ballano appunto sotto la musichetta del coconut.

La cornice ludica e la meta-interpretazione del video all’interno del contesto Tik Tok lasciano immaginare che l’admin del Napoli non avesse alcun intento razzista o offensivo nei confronti di Osimhen, ma guardare quel video è anche per me – un maschio caucasico – piuttosto disturbante: non considerarlo razzista è un grosso sforzo cognitivo (bisognerebbe poi aprire una discussione sull’uso della parola coconut in ambito afroamericano, con riferimento a quei neri che hanno assunto comportamenti da bianchi – come se l’avessi fatto). Nei giorni successivi al tweet di Calenda i social del Napoli sono stati presi d’assalto da utenti nigeriani che commentavano ogni contenuto del club con l’hashtag #respectforvictor. Osimhen ha smesso di esultare dopo i gol segnati e ha preferito non battere i rigori fino a quello – inutile – di Napoli-Fiorentina.

«Si poteva pensare la vista, ma chi avrebbe pensato/ a quel che vede, per quanto male veda?»

C’è infine un argomento da affrontare a parte, e ciò quello delle sostituzioni, che manifestano un’evidente difficoltà di Garcia nel leggere le partite e nell’incidere con le sue scelte. Al 66’ di Napoli-Lazio, con gli azzurri balìa della squadra di Sarri ma con una situazione di punteggio ancora recuperabile, Garcia richiama Kvaratskhelia e manda Raspadori largo a sinistra. Dopo 9 minuti toglie anche l’esterno, Politano, per far esordire Lindstrøm. Il risultato è che il Napoli perde quel minimo di pericolosità residua, abbandonando qualsiasi velleità di rimonta.

La strategia di Sarri era abbastanza leggibile: ostruire le linee centrali e costringere il Napoli a giocare sulle fasce. La soluzione di Garcia è controintuitiva: togliere dal campo gli unici giocatori in grado di dare ampiezza, inserendo due esterni-non-esterni che tendono per natura ad accentrarsi. Nella mortifera trasferta di Genova, dopo aver recuperato lo svantaggio grazie a due grandi giocate individuali, Garcia decide di fare a meno di Kvaratskhelia per il forcing finale. In panchina ci sono Lindstrøm e Simeone, ma la scelta ricade su Zerbin. La reazione contrariata del georgiano, che pure è un giocatore flemmatico e introverso, è virale. «I messaggi non sono mai per chi esce, ma per chi entra. Significa che chi lavora bene può trovare spazio anche se davanti ha grandi giocatori come Kvara». Al termine della partita di Braga, vinta soffrendo dopo un buon inizio e chiusa dal Napoli con sei difensori (con i portoghesi che dopo l’85’ hanno avuto almeno tre palle gol pulite), Garcia va in conferenza e sottolinea come il fortunoso autogol Niakaté sia frutto in realtà di una giocata provata in allenamento, prendendosene il merito: «Lavoriamo su quei cross tesi in allenamento perché tutto può succedere». Pare che sia da situare proprio tra Braga e la successiva trasferta di Bologna il confronto tra l’allenatore francese e la squadra, rappresentata da un consiglio dei saggi dal sapore ellenistico: i giocatori chiedono più allenamenti incentrati sulla tattica, di difendere a zona sui piazzati e di riprendere a lavorare sugli automatismi dello scorso anno. Sia Di Lorenzo che Kvaratskhelia parlano in termini positivi di questo dialogo, rimarcando un concetto semplice: il Napoli è più pericoloso quando mantiene il controllo del pallone.

A Bologna la squadra di Garcia fa una partita mesta ma seria. All’86’ il tecnico toglie ancora una volta uno dei suoi migliori giocatori per il forcing finale, stavolta Osimhen – che aveva appena sbagliato un rigore – per far spazio a Simeone. Il nigeriano non la prende bene e fa il segno del “due” con la mano, ad indicare che avrebbe gradito giocare in coppia con l’argentino.

Se fino adesso siamo ancora nel campo della narrativa realistica, ben radicati in Maupassant, con Real Madrid e Fiorentina scolliniamo nell’assurdo, nella letteratura ergodica. Nel secondo tempo della partita con i "blancos", sul risultato di 2-2, il Napoli sembra finalmente in controllo del gioco all’interno di una partita ondivaga, caratterizzate dalla passività di entrambe le squadre in fase di non possesso e dall’incapacità degli uomini di Garcia di sporcare le ricezioni di Bellingham.

Gli azzurri sono nel momento di maggior pressione, e il Real fatica a ripartire. Tuttavia, tolta una grande imbucata di Zieliński per Kvaratskhelia – che al posto di tirare fa un tocco di troppo e viene murato da Rüdiger – il Napoli fatica a creare occasioni pulite. Garcia richiama in panchina Politano, esausto dopo un primo tempo molto dispendioso, per inserire Elmas come ala destra. Dopo pochi minuti è il turno di Raspadori, che prende il posto di Zieliński come mezzala sinistra con compiti più marcatamente offensivi. Una mossa ambiziosa, seppure non sia ben chiaro perché Elmas – il sostituto naturale del polacco – sia dirottato sulla fascia e Raspadori messo in una posizione in cui non è a suo agio e rischia di intaccare gli equilibri di squadra. Appena dopo il cambio il Real Madrid ha una fase di possesso prolungato, che si conclude con la conquista del calcio d’angolo da cui nasce il gol di Valverde.

Il Napoli, come è comprensibile, perde l’inerzia della gara. Garcia prova il tutto per tutto all’88’ passando al 4-2-4 con Simeone e Osimhen insieme. Elmas torna a centrocampo e Raspadori finisce la partita come ala destra. Ai microfoni di Sky Sport, rispondendo a Fabio Capello, Garcia spiega di aver inserito il macedone esterno per puntare Camavinga, già ammonito. Ma nessuno gli fa notare che Camavinga era uscito al 63’, sette minuti prima dell’ingresso di Elmas.

Contro la Fiorentina il Napoli si gioca tanto della sua credibilità. Secondo alcuni le vittorie con Udinese e Lecce sarebbero frutto di una sorta di autarchia, con i giocatori che avrebbero esautorato Garcia per tornare a giocare il loro calcio. È una

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