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Il senso dello sport nei film di Nanni Moretti
03 set 2020
Nel cinema del regista romano lo sport ha un posto di rilievo.
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A spulciare il profilo Instagram di Nanni Moretti si trova un tesoro. In una foto lo si vede in posa con altri registi e sceneggiatori su un prato brullo, come fossero una squadra di calcio prima di una partita importante. Sullo sfondo una porta senza rete. In un’altra sembra guardare un pallone alle sue spalle, fuori dall’inquadratura.

Che sta giocando a calcio lo capiamo dalla maglia del Flamengo a maniche lunghe che indossa, insieme a dei pantaloncini corti Sergio Tacchini e delle Superga. Sorride, con un'espressione così distante da quella perennemente corrucciata che mostra nei suoi film.

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Qualche anno fa.

Un post condiviso da Nanni Moretti (@nannimoretti_) in data: 30 Apr 2020 alle ore 9:31 PDT

Moretti ha quest’aura snob, dell’uomo contro, che sarà sempre una minoranza, che ripudia Alberto Sordi, che vuole litigare, che odia il qualunquismo da bar, il terreno fertile dello sport. Eppure anche nel suo cinema intellettuale hanno trovato un posto di rilievo pallanuoto, calcio, basket, tennis, pallavolo. Discipline usate per raccontare il quotidiano, ma anche come metafora, epifania o momento di catarsi.

La pallanuoto

Moretti non si limita a essere attratto dallo sport come fenomeno sociologico o antropologico da mettere davanti alla macchina da presa: il regista è cresciuto come una promessa della pallanuoto, tanto da arrivare in Serie A a 17 anni con la Lazio ed essere convocato dalla Nazionale giovanile. Secondo Pierluigi Formiconi, che lo allenò in quegli anni, Moretti «in vasca mostrava una grande intelligenza» e se lo avesse voluto sarebbe diventato un campione.

Tuttavia, lo sappiamo, il regista romano trovò la sua strada nel cinema e non nello sport. La pallanuoto la lasciò prima di farne un mestiere, «Successe una cosa strana [...] interruppi. Non lo so, mi sembrava di annoiarmi, non trovai più le motivazioni per continuare» raccontò anni dopo, prima di riprendere in maniera amatoriale: «Ricominciai a giocare, evidentemente era una passione». Ancora a 34 anni lo si poteva incontrare alla piscina del Foro Italico quando la sua squadra giocava in casa. Alcuni dei suoi migliori amici fanno parte di quel mondo e con loro Moretti condivide le sue idee: «Dice che il ruolo del centroboa è da abolire perché rallenta il gioco, lo rende statico e riduce lo spettacolo. Non so se lo crede davvero», raccontava uno di loro qualche anno fa.

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Nanni Moretti con la nazionale giovanile di pallanuoto.

Ovviamente la prima cosa che viene in mente quando pensiamo a Nanni Moretti e la pallanuoto è il film del 1989 Palombella Rossa. Il suo alter ego Michele Apicella si trova trascinato in una onirica partita ad Acireale dopo un incidente in cui ha perso la memoria. Il film indaga la crisi della sinistra italiana alla luce dello sgretolamento dell’Unione Sovietica e viene ricordato soprattutto per alcune scene particolarmente azzeccate («Come parla! Come parla! Le parole sono importanti»), ma è anche un raro esempio di opera cinematografica in cui lo sport riesce a incastrarsi naturalmente con la trama. La pallanuoto svolge un ruolo centrale, non è una cornice vuota come spesso accade allo sport al cinema.

Anni dopo Moretti, un autore sempre molto personale, ha raccontato che aveva tentato di mettere la pallanuoto anche nei suoi precedenti film, ma non era mai riuscito a incastrare un sport così poco pratico con i personaggi interpretati e allora aveva deciso di mettere al centro della sceneggiatura la pallanuoto.

Come nella scena del time out, in cui l’allenatore, interpretato da Silvio Orlando, prova a scuotere la sua squadra che sta perdendo 9 a 2. Con goffa e geometrica precisione tenta di galvanizzare i suoi giocatori ipotizzando la possibilità di recuperare lo scarto nelle otto azioni offensive rimaste, «un gol alla volta». La scena è sincopata, Orlando è tarantolato e all’improvviso da uno stereo in panchina parte I'm on fire di Bruce Springsteen. Al ritorno in acqua si vede la squadra accendersi improvvisamente, andare a fuoco come si dice nel gergo sportivo, proprio sotto le note del rocker americano.

La musica ha un ruolo epifanico nei film di Moretti.

Moretti riesce a costruire un film politico intorno alla pallanuoto. I tempi morti della partita vengono riempiti da riflessioni, discussioni con personaggi assurdi, tempi dilatati all’inverosimile da risse, traverse rotte, attese. Ma anche l’azione diventa parte di un racconto universale: c’è il vecchio campione ungherese, Imre Budavári nella parte di se stesso - «Marca Budavári! Marca Budavári! Marca Budavári!» ripete ossessivamente Silvio Orlando durante il film -, c’è l’arbitro intransigente, il pubblico avversario tutto contro Michele Apicella, solo nel momento decisivo, quello del rigore per vincere il campionato.

Anche questa scena ha ovviamente un forte carattere metaforico: l’indecisione tra destra e sinistra, la volontà «di guardare a destra e tirare a destra» prima dell’improvviso cambio d’angolo che decreta l’errore e la sconfitta finale, che è una sconfitta sportiva ma anche politica, come sottolinea il punteggio finale, un 8 a 9 che è un richiamo al 1989, l’anno in cui la sinistra ha perso le sue certezze.




Il calcio

Anche se sfumato in scene di contorno, pure il calcio è ripetutamente presente nel cinema di Nanni Moretti. Tifoso della Roma, era solito presentarsi all’Olimpico con un cabaret di pastarelle da offrire ai vicini di posto. Mazzacurati racconta come al primo incontro tra i due, in una sala di montaggio degli studi di Cinecittà, Nanni Moretti gli chiese se voleva giocare a calcio la sera stessa: «Stiamo organizzando una partita per stasera, se te la senti», una frase ripetuta almeno una volta nella vita da chi gioca a calcetto con gli amici ogni settimana.

Ed è l’aspetto più “libero” del calcio giocato nei campetti a comparire nei suoi film. In Caro Diario lo si vede passeggiare per l’isola di Salina dopo un acquazzone mentre prende appunti. Quasi involontariamente si ritrova dentro un vecchio campo da calcio abbandonato: il terreno è fangoso, le porte sono senza reti, le righe scomparse, ma basta un pallone fermo al centro del campo per spezzare la tensione del personaggio. Moretti si toglie le mani dalle tasche e corre a palleggiare in maniera confusionaria, sottolineata dalla musica di Nicola Piovani mentre la macchina da presa allarga il suo sguardo.

Una scena malinconica dove il calcio somiglia più che altro al “giocare a pallone” dei bambini (e infatti la composizione in sottofondo si chiama Il campo di pallone), come ne La messa è finita, quando Moretti, nei panni di Don Giulio, dopo essere stato svegliato da un pallone sgangherato finito nella sua stanzetta per un tiro dei bambini che giocano nel campo della chiesa, prima li affronta con aria minacciosa poi, in tunica e scarpe da prelato, si butta a giocare con loro in maniera caotica e partecipe, finendo la sua partita a terra, sgambettato e solo come a voler raccontare le difficoltà del personaggio nel comunicare con la sua comunità.

Anche in Bianca Moretti ritaglia lo spazio per una partitella, quando nei panni del professor Michele Apicella si sostituisce al professore di ginnastica, assente, e porta i ragazzi al campo da gioco. Dopo aver assistito a qualche scambio da fuori, Moretti si toglie la giacca e si intromette nella partita: raccoglie un pallone al centro dell’area, se lo aggiusta con due palleggi e poi segna con una girata di sinistro, stilisticamente elegante, che fa crollare la porta.

Ma il calcio compare anche in maniera più universale nel primo lungometraggio di Moretti, Io sono un autarchico, quando mentre passeggia in montagna - in “training” in collina per lo spettacolo teatrale intorno a cui gira il film - incontra un tifoso della Roma con un enorme bandierone giallorosso con la scritta Roma Alè. «Ma che è domenica?», chiede Moretti ai compagni prima di abbandonare le valigie e provare a scappare via urlando come un pazzo: «C’è il derby, c’è Roma-Lazio».




Il tennis, il basket, la pallavolo

Ne La stanza del figlio lo sport smette di essere il passatempo improvviso e liberatorio, per diventare l’attività dei figli. Non a caso è il film che cambia, in qualche modo, anche lo sguardo del regista, diventato più intimista e meno ironico o politico.

Nella scena immediatamente successiva a quella in cui tutta la famiglia canta in macchina Insieme a te non ci sto più, vediamo Moretti struggersi in tribuna per gli errori del figlio, che non si impegna abbastanza nella sua partita di tennis: «Ecco, niente… mi sembrava strano, arriva sempre un momento in cui si distrae, parte, va non so dove e comincia a giocare male».

Dopo la sconfitta si confronta con lui, con lo spirito critico dei padri: Moretti lo accusa di non essere competitivo, di aver perso apposta. Anche dopo la risposta logica del figlio, «Ho perso perché ho giocato peggio», Moretti insiste: «Ma no, tu hai perso perché giochi per giocare, non giochi per vincere. Non bisognerebbe giocare per vincere, se no che gusto c’è? Non sei d’accordo?». Per Moretti è inaccettabile la sconfitta del figlio per volontà, perdere perché si vuole perdere, una scelta che lo tormenta («Non è strano Andrea in questi giorni?», dice alla moglie un paio di scene dopo, «Non lo so, ha perso apposta a tennis. Non è normale che un ragazzo della sua età non abbia voglia di vincere. Almeno per me non è normale»).

Curiosamente anni dopo, invece, il figlio di Moretti non si farà problemi a batterlo 6-3/6-3/6-0, come raccontato sempre su Instagram.

Lo sport diventa anche il pretesto per mettere in scena la sofferenza della famiglia per la morte di Andrea. La reazione scomposta di Irene (la figlia) verso l’arbitro, per un fallo non fischiato durante una partita di basket, provoca una rissa che coinvolge le giocatrici e il pubblico. Padre e figlia si ritroveranno poi nella palestra vuota, mentre lei cerca di realizzare dieci liberi consecutivi senza successo, ma dove riuscirà a parlare e aprirsi con il padre.

Torna a essere momento di svago e libertà sotto forma di torneo di pallavolo - ma con gironi di sola andata, «sennò moriamo» - in Habemus Papam. Un torneo tra i vescovi bloccati nel conclave mentre il Papa è in fuga e che mette in mostra le idiosincrasie classiche del personaggio di Moretti, che per fare le squadre e i gironi lavora tutta la notte, prima di creare una cervellotica divisione geografica dei vescovi (Europa A e B, Europa dell’Est, Africa, Sud America, America del Nord, Oceania, con soli tre giocatori).

È una scena anche troppo lunga, dove si mette in mostra il contrasto tra le figure ingessate e intransigenti dei vescovi, con le loro tuniche nere, con la spensieratezza della pallavolo, con questa palla che si muove da una parte all’altra. Al centro tra i due campi da gioco Moretti da un piedistallo controlla tutto e dirige il gioco, mettendo in mostra forse la versione più pura di se stesso («Ogni volta che vedo un film di Moretti mi viene sempre da pensare: scansati e fammi vedere il film» disse in maniera cinica Dino Risi).

Mentre alle sue spalle i vescovi si divertono come bambini, Moretti dice cose terribili come: «Nessun senso nella vita, nessuna consolazione… punto Europa B», prima che un lungo ralenti porti al finale della scena, con il punto dell’1 a 16 dell’Oceania che scatena la gioia di tutti i vescovi, che riescono a lasciarsi alle spalle il nervosismo della situazione assurda in cui si trovano grazie alla pallavolo.

Insomma per Nanni Moretti lo sport è un modo per riportare i corpi dei personaggi al centro della scena in maniera originale. Gli permette di raccontare i loro stati d’animo, le tensioni, i tic. Niente di particolarmente elaborato o geniale, tuttavia quella tra il regista e lo sport rimane una relazione interessante, non scontata e soprattutto non banale, con il picco di Palombella Rossa, uno dei film italiani a carattere sportivo più riusciti.




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