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Correre è ancora uno sfogo, intervista a Nadia Battocletti
09 lug 2025
Abbiamo intervistato il fenomeno del mezzofondo italiano.
(articolo)
12 min
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IMAGO / Belga
(copertina) IMAGO / Belga
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«Penso che sia da considerarsi come una valvola di sfogo. Ovvio, fatto a livelli professionistici è tutta un'altra cosa: però in parte andare a correre per me è ancora una valvola di sfogo».

Ci sono tante cose che un runner può apprezzare della corsa. Nadia Battocletti, all’ultima domanda dell’intervista, sceglie quella che, forse più di tutte, potrebbe accomunarla a una grossa fetta di amatori che mettono scarpe e pantaloncini alla fine di una giornata di lavoro, o prima dell’alba. Ma lei, a 25 anni, ha corso più chilometri di gran parte di loro. E sicuramente ha vinto di più, su qualunque superficie.

L’estate scorsa, in poche settimane, ha messo insieme due ori europei a Roma sui 5.000 e sui 10.000 e, a chiudere, l’argento olimpico di Parigi sulla distanza più lunga (preceduto da un quarto posto in quella più breve). Qualche mese dopo, ad Antalya in Turchia, un’altra doppietta: vittoria individuale e a squadre negli Europei di cross, il suo terreno di caccia preferito dove, tra gare giovanili e seniores, il pallottoliere parla di sette vittorie e quattro secondi posti a livello continentale. La campestre d’altronde era specialità d’elezione del padre Giuliano, atleta nel giro azzurro a cavallo del secolo. E atleta di alto livello è stata anche la madre, Jawhara Saddougui, di origine marocchina. L’ultimo oro europeo, ad aprile, lo ha vinto sull’asfalto di Leuven, nella 10 km.

Insomma, se la corsa è una valvola di sfogo Battocletti la sfrutta parecchio. D’altra parte, le ragioni per sfogarsi non mancano se alla carriera da mezzofondista affianchi il corso di laurea in ingegneria edile e architettura: non proprio l’attività più semplice da affiancare a ripetute, fartlek e quant’altro. Ma anche quella carriera procede bene: «Mi manca un esame, poi a settembre inizierò a scrivere la tesi».

Come ci si appassiona a una materia così difficile?

Io ho fatto il liceo scientifico, matematica e fisica erano il mio pane quotidiano. Volevo fare medicina, ma la sede in Trentino non c’era ancora. Bisognava per forza andare fuori regione e ho preferito fare una facoltà che potesse essere a Trento. Così ho cambiato indirizzo.

Tra vent’anni si vede ancora nell’atletica leggera oppure lavorerà in questo campo?

Le idee non sono tanto chiare. Sicuramente tra dieci anni sarò ancora nell'atletica, questo è sicuro. Tra venti vedrò che cosa accadrà.

Insomma, finora non abbiamo visto nemmeno metà della carriera della più forte mezzofondista italiana degli ultimi quarant’anni. Battocletti andava fortissimo anche da ragazzina, nelle categorie giovanili. Ma il primo grande salto risale al 2017: aveva 17 anni, secondo anno allieva, arrivò terza agli Europei Under 20 sui 3.000 metri. Nel 2018 l’approdo al professionismo con le Fiamme azzurre e il primo titolo italiano assoluto, nei 5.000 metri. Il primo palcoscenico globale è arrivato nel 2021, con i Giochi di Tokyo: batteria perfetta, approdo in finale, settimo posto a sorpresa a 21 anni. Prima della semifinale aveva il sedicesimo tempo di iscrizione. Già in quelle due prove erano emerse le qualità che poi sarebbero diventate il suo marchio di fabbrica: la lettura della gara, la corsa nelle prime posizioni del gruppo, la capacità di cambiare ritmo per coprire il 400 finale in 61 secondi (in semifinale) o alla peggio in 63 secondi (in finale, stracciando il proprio primato). Dal Giappone, era tornata con un miglioramento di un minuto secco sui 5.000 rispetto al suo personale dell’anno precedente. Tuttavia la sua impresa passò in sordina solo perché 24 ore prima, il primo agosto, Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi avevano riscritto la storia dell’atletica italiana.

Da lì la trentina di Cles è esplosa. E a furia di primati ha trascinato il mezzofondo azzurro in un’altra dimensione. Nei 10.000 ha portato a 30’43”35 il record nazionale, migliorandolo di 22 secondi 24 anni dopo la compianta Maura Viceconte. Un tempo che tuttavia non rispecchia nemmeno lontanamente il suo reale valore: lo ha fatto segnare un anno fa a Parigi, la sua notte magica, quando ha conquistato un argento al termine di una gara tattica conclusa coprendo l’ultimo giro in 57 secondi. Quest’anno ha coperto i 5.000 metri a Roma in 14’23”15, migliorando per la quarta volta il primato italiano: per ora ha abbattuto di 21 secondi il vecchio 14’44”50 di Roberta Brunet, che la valdostana fece segnare poche settimane dopo aver conquistato un bronzo alle Olimpiadi di Atlanta. Nei 3.000 metri piani, quest’anno a Rabat, ha portato il record a 8’26”27. È suo anche il secondo miglior tempo mai fatto da un’italiana, 8’30”82: dettaglio non trascurabile, lo ha segnato in una gara indoor l’inverno scorso, migliorando di 11 secondi un primato che, neanche a dirlo, era già suo.

Alla collezione di record nazionali ha aggiunto, a maggio, un primato europeo: quello dei 5 km su strada, coperti in 14’32” a maggio a Tokyo. Suo, a questo punto si potrebbe dire ovviamente, anche il miglior tempo italiano dei 10 km su strada (31’10”). Battocletti è a bocca asciutta solo nei 1.500 metri, gara finora mai coperta in un grandissimo appuntamento nonostante sia già scesa due volte sotto il muro dei quattro minuti: una soglia abbattuta solo da altre due azzurre nella storia oltre a lei. A Rovereto, a inizio giugno, ha chiuso in 3’58”15, a un soffio dal 3’58”11 con cui l’anno scorso a Parigi Sintayehu Vissa ha migliorato il 3’58”65 che Gabriella Dorio fece segnare nel 1982.

Insomma: il Kenya ha la Rift Valley, l’Italia la Val di Non.

Qual è il suo primo ricordo legato alla corsa?

Ne ho tanti. Soprattutto di papà che correva, o che magari usciva di casa per andare ad allenamento. Mi ricordo che aveva questa calzamaglia blu scuro, oppure io e la mamma che lo seguivamo ad alcune gare, soprattutto la maratona.

E lei come si è innamorata della corsa?

Per caso. A sette anni partecipai a una gara all'interno di un circuito in Val di Non. E mi è piaciuta fin da subito perché potevo condividere quei momenti con i miei compagni di scuola o le mie amiche, quindi per me andare a fare atletica era andare a divertirmi.

I suoi genitori sono stati entrambi atleti di alto livello. Qual è il consiglio migliore che le hanno dato?

Penso che il migliore di tutti sia stato quello di crederci fino alla fine. Quello è stato importante.

C’è stato un momento di svolta, in cui ha capito che sarebbe diventata un’atleta di alto livello?

Sì, quando sono riuscita a ottenere il minimo per Tokyo. Anche prima sapevo di essere comunque legata all'atletica, però lì ho capito che l’atletica mondiale non era troppo distante. Ero riuscita a battere la barriera dei 15 minuti, era qualcosa di impensabile per me. E quindi già quel passettino mi aveva un po’ proiettato verso ciò che poi è stato Tokyo.

Gara in cui arrivò settima, a sorpresa, facendosi notare dal grande pubblico all’indomani della doppietta Jacobs-Tamberi. Qual è stata invece la sua notte magica?

Penso quella dell'argento olimpico, penso che ci siano poche gare che possano superarla.

E allora parliamo di Parigi. C’è stato un momento in cui ha capito che poteva puntare al podio?

A 600 metri dalla fine. Lì l’ho pensato.

Ha fatto più sorpassi in corsia interna, l’ultimo all’ultima curva. Come le è venuto?

In effetti lì non si passa mai, ma lei [la keniana Lilian Kasait Rengeruk, ndr] era già esterna, quasi in corsia due. Beatrice [Chebet, poi vincitrice, ndr], l’ha superata esterna. Il buco c’era, solo che lei lo stava stringendo. Lì puoi fare e basta. Non pensi al podio, pensi ad arrivare più veloce possibile, il più avanti possibile.

Non ci ha pensato nemmeno nell’ultimo rettilineo, quando un po’ si capiva che ce l’aveva fatta e un po’ sembrava quasi che potesse andare ad attaccare Chebet?

No. L’unico momento in cui ho pensato "oh cavolo, sono qui davanti" è stato a 600 metri dalla fine.

La più grossa delusione quale è stata?

Penso Budapest. È stata proprio la giornata no.

Erano i suoi primi Mondiali, nel 2023. Arrivava due anni dopo la rivelazione di Tokyo e con buone premesse, chiuse sedicesima. Dopo andò ai microfoni a scusarsi. Perché?

Non mi aspettavo un risultato del genere, non mi aspettavo di entrare in pista così. Se avessi dato il 100% e fossi arrivata sedicesima sarei stata più che felice, ma non è andata così. Mi sono sentita di scusarmi e quello è uscito.

Ha 25 anni ed è un’atleta di alto livello almeno da quando ne aveva 17 e arrivò terza agli Europei juniores. Significa allenarsi duramente. C’è qualcosa che ha vissuto come un peso, magari qualche rinuncia?

No, un peso no. Sicuramente devi sempre essere sempre lì sul pezzo, tra interviste, shooting, sponsor e tutto. Ma penso che questo faccia anche un po’ parte del lavoro. E quindi se guardo indietro penso a quanti no ho detto, ma a quante gioie ho ricevuto in cambio. E penso che siano serviti.

Ha mai pensato di non prenderla, questa strada?

No, anche perché a 17 anni ero già in un gruppo sportivo e quindi la mia vita era segnata.

Fanno otto anni di professionismo. Non c’è qualcosa che avrebbe fatto diversamente?

No. Sicuramente quando si diventa più maturi si notano alcuni errori fatti quando si era più piccoli. Ma è così per tutte le cose, un discorso generale.

Qual è la campionessa che ammira di più?

Sicuramente Goggia e Brignone, nel ciclismo Longo Borghini.

E nell’atletica non c’è un’avversaria che ammira particolarmente, o a cui sente di assomigliare?

Non posso dirlo: sono le mie avversarie.

Una con cui potrebbe avere qualche elemento in comune è l’olandese Sifan Hassan…

Bel complimento.

Nel senso che parliamo di un’atleta velocissima dagli 800 alla maratona.

Sono versatile come lei, quello sì. E la maratona, più avanti, sarà anche quello un pensiero.

Torniamo a Goggia e Brignone. Molti direbbero Goggia oppure Brignone.

Sicuramente sono due atlete completamente differenti. Però le emozioni che danno quando scendono sono sempre molto forti e molto simili. È sempre bello vederle e tifarle, e penso che alla fine, nonostante comunque siano un po’ gli opposti, come tutti poi vogliono far vedere, le emozioni rimangano sempre le stesse.

In qualche intervista ha parlato anche della sua ammirazione per il mezzofondista marocchino Hicham El Guerrouj, connazionale di sua madre, quattro volte campione mondiale sui 1.500 e capace di fare la doppietta 1.500-5.000 ad Atene 2004, dove vinse i suoi primi e unici ori olimpici dopo due edizioni dei Giochi piene di amarezze. Lei all’epoca aveva quattro anni. Che cosa la colpisce dalla sua parabola?

Il fatto che dopo le cadute e le cose negative sia comunque riuscito a uscirne, anche più vittorioso di prima.

A settembre ci sono i Mondiali di Tokyo. Doppierà?

Sì.

Stavolta i 10.000 saranno prima dei 5.000, quindi arriverete tutte più fresche. Pensa che sarà una gara meno tattica?

Be’, in realtà anche a Parigi fu tattica solo nella prima parte, perché negli ultimi 5000 metri siamo state sotto i 15 minuti. Non siamo andate troppo lente. Su come andrà a Tokyo non ci sto ancora pensando, finché non escono le avversarie si fa fatica a capire sulle questioni tattiche.

Lei è sempre stata allenata da suo padre. A volte il sodalizio genitore/atleta ha dato grandi risultati, altre è andata malissimo. Cosa serve per farlo funzionare?

La comunicazione, ma soprattutto la fiducia.

In un’intervista a Queenatletica, qualche mese fa, suo padre ha raccontato che il piano su di lei era sempre stato quello di farla arrivare al top a Los Angeles 2028, che quelli erano i "suoi" Giochi. Significa che è iniziato il suo quadriennio olimpico più importante: è aumentata la pressione, è cambiato qualcosa?

Ovviamente sono cambiate delle cose, questo non si può negare. Però l’obiettivo rimane sempre quello e penso che mio padre lo abbia detto anche un po’ per prepararmi, non tanto per mettermi i fari addosso.

Lui spiegava anche che lei in allenamento percorre meno chilometri delle avversarie. Un limite o un vantaggio?

Sicuramente se si ha un aumento costante, lineare, è un beneficio. Cambiare da un anno all'altro è sempre molto complesso, quindi di anno in anno aumentiamo piano piano anche per gestire tutti i carichi. Poi le mie avversarie fanno 160 chilometri alla settimana, io ne faccio a malapena cento e sicuramente la differenza c’è. Per ora va bene così, anche perché studio, più avanti bisognerà ridurla questa differenza.

Lei è musulmana praticante. Che cosa ha dato di positivo la sua fede al suo percorso da atleta?

Penso lo stile di vita. E anche la sicurezza: mi sento più sicura di me, più concreta.

Quanto è difficile allenarsi durante il Ramadan?

Abbastanza. È complesso, però papà riesce a gestire i ricarichi in maniera perfetta. E poi sono sempre sotto l’occhio del mio staff, quindi si capisce se bisogna rallentare, se magari bisogna mangiare meglio la sera, se bisogna integrare un po' di più.

A Cavareno, dove abita, montano un maxischermo quando gareggia. Com’è il rapporto con la sua comunità?

Un bel rapporto. Sicuramente fa piacere quando tutta la cittadinanza si unisce e si organizza per vedere le tue gare. E penso che anche loro si siano divertiti quest’estate.

Mentre lei conquista medaglie a livello mondiale nel mezzofondo femminile, nell’ultimo quadriennio tra gli uomini si sono imposti Jakob Ingebrigtsen, Josh Kerr, Jake Wightman, Cole Hocker: tutti bianchi. Avete contribuito a smontare qualche stereotipo sulla corsa di resistenza come attività esclusiva degli atleti neri?

Penso di sì, perché quando ero piccolina vedevo che nelle prime dieci posizioni erano tutte africane. Adesso è un po’ meno così e la percezione è differente, soprattutto per i giovani. Non so dire cosa sia successo. Siamo più o meno tutti della stessa generazione, quindi è bastato darci un po’ di tempo per crescere e per ottenere i risultati: anche perché molto spesso quando si gareggia nelle categorie giovanili, anche a livello mondiale, le età non sono perfettamente in linea. Allo stesso tempo anche l'atletica si è modernizzata un sacco, sono arrivate un sacco di tecnologie. È un mix di cose, secondo me.

Ha nostalgia di quando per lei l’atletica era solo un gioco?

No, in realtà per me vale lo stesso principio di quando ero piccola: è per quello che me la vivo molto con tranquillità e leggerezza. Poi è ovvio, ci sono momenti in cui bisogna dire: "ok, questo è lavoro, devo mettermi a fare", e momenti in cui magari si è un pochino giù per fastidi, dolori o quant’altro. Però fa parte del gioco.

Cosa vorrebbe che si dicesse di lei come atleta?

Spero di portare un esempio di leggerezza, di praticare uno sport divertendosi. Spero che passi questo messaggio.

Ha un obiettivo massimo?

Ormai sì.

Quale?

Dirlo così ha poco senso. Diciamo che l’obiettivo è quello di migliorarsi sempre di più, di arrivare alle gare sempre più pronti e sempre più capaci nel gestire i vari ritmi.

Sicuramente ha ispirato qualche bambina e bambino ad andare al campo di atletica. C’è qualcosa che vorrebbe dirgli?

Di continuare a divertirsi e a fare tante cose. Quando ero piccolina facevo tanti sport, mi divertivo, facevo tutti i corsi anche alle medie per fare più sport, anche se in alcuni magari non eccellevo come nell’atletica. Però mi piaceva stare insieme, muovermi. Vorrei dirgli di provarci e continuare sempre su questa strada.

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