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My Triumph, una chiacchierata con Christian Giagnoni
18 apr 2019
Dall’incontro al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato.
(articolo)
14 min
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Pubblichiamo la trascrizione del dialogo con Christian Giagnoni, che si è tenuto il 31 marzo al Centro d’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, nel contesto della mostra di Aleksandra Mir, intitolata Triumph. È l'ultimo di tre incontri a cui siamo stati invitati (il primo era dedicato a Paolo Rossi, il secondo a Jury Chechi).

La storia di Christian è una storia potente. Tutte le storie, in particolar modo quelle potenti, sono strutturate allo stesso modo: esiste un'armonia iniziale che viene interrotta in qualche modo da un conflitto, da un evento che fa nascere crepe dentro quell'armonia. Questo vale per ogni storia, da Cappuccetto Rosso al Titanic. Non avremmo una storia se quella bambina avesse raggiunto la casa della nonna senza incontrare il lupo. Non avremmo una storia se quel transatlantico fosse arrivato regolarmente dall'altra parte dell'oceano senza scontrarsi con un iceberg.

Nella storia di Christian, il lupo e l'iceberg sono un incidente stradale avvenuto il 23 dicembre 2010, un giorno dopo aver compiuto 35 anni. Tra l'altro proprio di fronte al museo in cui ci troviamo. L'armonia iniziale era la sua storia di profeta in patria. Capitano dell'Hockey Prato, scudettato nel 2003, e uno degli atleti simbolo della città.

L'incidente ha reso la carriera di Christian due carriere e la sua vita due vite. Credo che questa sia anche la prima grande differenza tra lui e Paolo Rossi e Yuri Chechi, gli altri due personaggi invitati in questo ciclo di incontri qui al Pecci prima di questo nostro incontro di oggi. A differenza loro, lui è due sportivi dentro una persona sola. L'altra grande differenza con loro è che le sue vittorie non hanno mai avuto la stessa eco. Sono sempre arrivate in ambiti di nicchia, lontane dalla ribalta del grande pubblico.

La prima domanda è legata a questo. Che peso ha vivere vittorie che non hanno un grande ritorno mediatico e di pubblico? Si crea un rapporto più intimo tra te e il risultato?

Diciamo che nel mio caso la vittoria è più personale, forse anche famigliare. Una vittoria più per me e per chi mi sta vicino. Secondo me una vittoria così diventa anche più reale, più bella. Più sentita. La condividi con pochi e la vivi al massimo. Un abbraccio o un messaggio da chi non ha potuto essere presente alla gara, sono cose che hanno un gran valore. Ad una vittoria così, personalmente do un valore anche maggiore. Se poi ci metti che è uno sport individuale, in cui sei tu a costruirti la vittoria, diventa una cosa ancora più intima.

Dato che sei andato sul tema, come cambiano la ricerca e la conquista della vittoria da una sport di squadra ad uno sport individuale? Tu hai conosciuto entrambe le situazioni.

Cambia moltissimo. Se c'è la squadra c'è un gruppo, quindi tutto un lavoro di costruzione di rapporti e legami per la ricerca del risultato. In uno sport individuale sei te e la giubba, come si dice. Ti chiedi “dove voglio arrivare?”. La mattina quando ti svegli sai che sta a te, che non puoi sperare sul compagno che fa il miracolo. Cambia l'approccio a livello mentale. Secondo me diventi sportivo al cento per cento, ventiquattro ore su ventiquattro. Se vuoi arrivare devi essere al massimo sotto ogni aspetto dato che nessun altro compagno al tuo fianco potrà compensare le tue lacune. O te o te.

Tu ti sei trovato a dover compiere una scelta razionale, in età matura, dello sport a cui dedicarti come professionista. Di solito si arriva al professionismo dopo aver iniziato da bambini. Come si affronta invece una scelta così calcolandola? Quali fattori e opzioni hai tenuto in considerazione prima di sposare l'handbike?

Il caso irrazionale di cui parli è esattamente quello che ha riguardato anche me con l'hockey, quando ho iniziato a 4 anni. Non sono mai delle vere scelte. Ci vai perché magari ci va anche il tuo vicino di casa e poi magari capita che ti innamori di quella cosa e che la porti avanti anno dopo anno.

Arrivare all'handbike è stato diverso ma nemmeno troppo. Dopo l'incidente mi sono messo a provare bene o male tutti gli sport che avrei potuto praticare sulla sedia [il suo diminutivo di sedia a rotelle]. Con l'handbike è stato innamoramento a prima vista. Fin dal primo momento ho capito che era una cosa che mi poteva piacere molto. Di fatto anche in questo caso la scelta è stata una non-scelta e la componente irrazionale, istintiva, l'ha fatta da padrone. C'è anche la componente della libertà: so che montando in bici posso andare praticamente ovunque io voglia andare, con la testa libera. Dimenticandomi quasi dei limiti che obiettivamente ho in tutti i miei normali spostamenti.

Nella storia di Christian il concetto di vittoria si allarga enormemente. Non è più solo quella sportiva, ma è anche quella della forza di volontà sugli ostacoli e, in un certo senso, della vita sulla morte. Prima di oggi ci siamo sentiti al telefono. Volevo capire se c'erano dei tabù. Delle domande da evitare per non tornare su pagine troppo dolorose. Lui mi ha detto di stare tranquillo, che potevamo parlare di tutto. Una totale accettazione di sé, del nuovo sé. Approfitto quindi della sua disponibilità, non per morbosa curiosità ma perché sentire il racconto di certi passaggi della sua vicenda credo abbia un grande valore formativo. Parto chiedendoti cosa ricordi dei primi momenti dopo l'incidente e dei pensieri che ti sono passati per la mente una volta capito come stavano le cose.

Mi ero accorto subito di quel che mi era successo. Che era qualcosa di grave. C'è stato un intervento di dodici ore e il coma farmacologico, quindi i primi ragionamenti veri e propri sono riuscito a farli almeno una settimana dopo. Quando mi hanno spiegato la situazione mi sono considerato fortunato dato che qualche giorno prima non si sapeva ancora se ce l'avrei fatta oppure no. Per me era già tanto essere lì a parlare con il medico. La prima vera percezione della mia nuova vita l'ho avuta una ventina di giorni dopo l'incidente, quando per la prima volta mi hanno alzato dal letto e mi hanno messo sulla sedia. Li ho capito che la vita era un po' cambiata.

Poi sono iniziate le fasi della riabilitazione e i miei 8 mesi di ospedale. A raccontarlo oggi fa anche ridere, ma la prima riunione con me, l'equipe di specialisti e i miei familiari è stata un disastro totale (ride). Ma più per gli altri che per me (ride di nuovo). I dottori non si sono fatti molti riguardi a dire che per me sarebbe stato un problema anche prendere un caffè al bancone di un bar. Io dicevo agli altri “non vi preoccupate, si starà a vedere”. Appena finita la riunione sono scappato dall'ospedale e sono entrato in un bar per vedere che effetto faceva (ride di gusto) e non vi dico poi cos'ho detto ai dottori al ritorno, è meglio di no (ride di gusto).

Quando hai cominciato a vederla come la vedi oggi? Ad approcciare tutto quanto in maniera propositiva?

In realtà da subito. Dopo un mese e mezzo d'ospedale avevo già preso la patente per la guida con i comandi al volante. Volevo bruciare le tappe. Non ho mai dato il tempo alla situazione di darmi noia. Molti meriti li hanno anche le persone che mi sono state vicine e il mondo dello sport. C'era sempre moltissima gente presente lì con me. Il fatto di non sentirmi mai solo mi ha dato molta forza. Le mie vittorie di oggi, per esempio, le sento come un risarcimento per loro, per ripagare tutti coloro che mi sono stati vicini fin dai primi momenti.

Poi è venuto il tempo di uscire dall'ospedale. Là dentro per otto mesi tutto sembrava facile e bello [ha detto davvero facile e bello], tutto era pensato per te, non esistevano scalini. Ma era come guidare una macchina da soli dentro un autodromo: puoi andare fuori strada da solo ma stai sicuro che contro un'altra non ci sbatterai mai. All'ospedale ti preparano ma la vita reale poi è stata tutta un'altra cosa. Ci sono state delle difficoltà all'inizio ma le difficoltà basta affrontarle. Chiunque ogni giorno affronta problemi, no?, a casa, sul lavoro. Anche qui sulla sedia ci sono dei problemi ma se li sai affrontare poi si risolvono tutti. Sono stati semplicemente problemi nuovi, non problemi più grandi.

Non so se è brutto detto così, ma insomma, questa sedia non è che mi abbia mai dato veramente noia.

Un mese fa, in occasione dell'anniversario della morte di Astori, Pioli in un'intervista ha detto che da dopo quell'evento crede di essere un allenatore e una persona migliori. In qualche intervista, anche tu hai detto che da dopo l'incidente ti senti una persona migliore. Se dovessi spiegare che cosa davvero senti di avere in più rispetto a prima?

È una cosa un po' particolare. Una cosa che sarebbe bene pensare tutti i giorni. Dico migliore perché quando arrivi a toccare il fondo tutto diventa più alto. Un palazzo è più lungo da scalare da terra che non da due metri. Ti ritrovi ad aver tutto da risalire, da conquistare di nuovo. Vedi tutto in un'altra ottica. Mi rendo conto che spiegarlo è difficile, è una cosa che devi sentire dentro, che devi vivere.

La cosa importante però è che non si dovrebbe sempre aspettare di arrivare al peggio prima di accorgersi di alcune cose, prima di ricominciare a stare bene. Siamo qui di passaggio e bisognerebbe affrontare ogni giorno con l'idea di tirarne fuori il meglio, perché poi domani non si sa cosa può accadere. Il meccanismo del pensiero è questo.

Può darsi che l'essere umano sia una macchina che deve per forza passare per un trauma prima di tirare fuori risorse che non pensa nemmeno di avere? Ti sei mai chiesto se davvero era impossibile trovare quei tuoi miglioramenti anche senza passare per l'incidente?

Non lo so se ci sia un altro modo. Però bisognerebbe riuscirci. Anzi bisogna. Faccio l'esempio di Astori. La persona era la stessa anche quando c'era e io mi auguro che tutto quello che ha scatenato la sua morte lui possa averlo ricevuto anche in vita. Perché invece spesso troppe cose si capiscono troppo tardi. Non devi mai avere rimpianti. Quindi per rispondere alla tua domanda: credo che si possa tirare fuori il massimo anche senza un grosso trauma. È difficile ma si può. Si deve.

A proposito di situazioni in cui si tocca il fondo, qualche giorno fa ho letto alcune parole di Manuel Bortuzzo, il nuotatore colpito da una pallottola presa per sbaglio e costretto anche lui su una sedia a rotelle. Anche da lui come da te esce una serenità disarmante e una carica fortissima. Ma non è certamente una reazione scontata. Credi che tu e lui potreste insegnare il giusto approccio a qualcuno che nella stessa situazione invece tendesse ad abbattersi e a subire passivamente la situazione? Insegnarli a non guardare indietro ma solo avanti?

Si spiega ma si spiega male. Solo a parole. Poi devi avercela dentro. Parte tutto dalla soffitta (lo dice indicandosi la testa e ridendo). Come quello che non ha voglia di andare a lavorare: se non c'ha voglia non c'ha voglia, per quanto tu possa dirgli il contrario. Uno sportivo professionista, come nel mio caso e in quello di Bortuzzo, credo parta avvantaggiato per la predisposizione alla fatica, alla gestione della sfida, alla ricerca del risultato.

Mi è capitato di affrontare qualcosa di simile proprio all'ospedale. Con me in quel periodo erano ricoverati anche altri 4 ragazzi, tutti attorno ai vent'anni. Quando sono arrivato alla fine della mia riabilitazione il primario dell'Unità Spinale di Firenze mi ha chiesto se per cortesia fossi potuto tornare per stimolare quei ragazzi. Andavano in palestra e in piscina solo se ci andavo io, altrimenti restavano inchiodati a letto senza darsi da fare per fare progressi. Ho fatto altri due mesi a passare di lì un giorno sì e uno no. Quando c'ero facevano tutto; nei giorni in cui non potevo essere presente tornavano apatici. Ho passato molto tempo a parlargli ma purtroppo so che ora sono chiusi in casa e fanno vite in cui subiscono la loro situazione invece che affrontarla. Se non ti scatta qualcosa dentro è molto difficile aiutarti da fuori.

Ora vorrei spostare il tema sullo sport. La prima domanda all'atleta Giagnoni è se la ricerca della vittoria sia più piacere o sofferenza?

A certi livelli senti più la fatica del piacere. Sai che se vuoi stare davanti devi allenarti di più, devi lavorare. Se vuoi arrivare al piacere devi passare per montagne di fatica.

Restando nel lato oscuro dello sport, passiamo dalla fatica alla sconfitta. Esiste una sorta di idea romantica della sfida secondo cui la sconfitta ha una propria nobiltà, una propria utilità oppure per te è solo un fallimento e preferisci non tenerla nemmeno in considerazione?

La mia accettazione della sconfitta passa dalla consapevolezza di aver dato tutto quello che potevo. Non fa mai piacere perdere, ma se sai di aver fatto il tuo la devi accettare. Credo che un'utilità ce l'abbia e che faccia bene in alcuni precisi momenti. Diventa uno stimolo ed è giusto che ci sia.

Quest'anno ho scelto di fare gare in cui probabilmente prenderò diversi schiaffi. Ma sono contento di rischiare di prenderli perché vengono dal confronto con altri atleti in grado di starti davanti, e andarli a prendere diventa un bell'obiettivo.

Torniamo ora alla vittoria, il tema al centro dell'installazione Triumph che ha ispirato questo nostro stesso incontro. Esistono periodi in cui ti concentri solo sulle micro-vittorie intermedie, quelle del giorno dopo giorno in allenamento, oppure la vittoria del trofeo resta sempre al centro dei tuoi pensieri?

In linea generale preferisco pensare con la filosofia del passo dopo passo. Ho sempre pensato sia troppo rischioso lavorare per un unico grande appuntamento e dedicare tutte le energie anche mentali a quello trascurando tutto il resto. Se poi capita un qualche intoppo si deve buttare via tutto. Molto meglio invece avere a disposizione più sfide e poter pensare sempre a quella immediatamente successiva.

Passo dopo passo vuol dire anche lavorare per le vittorie piccole di ogni giorno, per il risultato in allenamento, per il miglioramento costante e graduale. La tecnologia ti permette di misurare ogni cosa e di avere sempre il riferimento della distanza tra te e l'obiettivo finale. In alcuni momenti sono più concentrato su quelle micro-vittorie nell'immediato, in altri penso più sulla vittoria della gara nel medio-lungo periodo. Dipende molto dal periodo del calendario stagionale. In ogni caso, anche ragionando passo dopo passo, la testa non è mai totalmente abbassata sul presente: in un angolo dei pensieri c'è sempre il bersaglio grosso. Oggi ad esempio è il mondiale di agosto.

Lo sport paralimpico inteso come qualcosa per tenersi occupati, per non pensare alle proprie sfortune. Lo si guarda e si dice “guarda che brave persone” e non “guarda quanto sono forti”. Tu che lo vivi da dentro ti sei fatto un'idea di cosa manchi perché vengano riconosciuti come sport avvincenti? Del perché nella tappa del Giro handbike non ci possa essere lo stesso pubblico che accorre per la tappa del Giro tradizionale?

Domanda difficile. Sono convinto che lo sport paralimpico sia davvero sport nella sua più vera essenza. Al di là di me e delle mia categoria, quelli più fortunati, nelle gare vedi anche atleti di categorie con disabilità maggiori, che magari devono essere calati con imbragature dentro alle bici e a cui magari devono avvolgere con il nastro adesivo le mani alla bici. Tutto per fare anche un solo giro, tutto per andare a velocità molto basse, eppure all'arrivo leggi nei loro occhi una soddisfazione enorme. In quei occhi c'è lo sport.

Poi per arrivare al resto, alla visibilità, non so bene cosa possa mancare. Però sinceramente io preferisco avere le tremila persone che vengono a vedere il Giro handbike che non le ottantamila di uno stadio. Perché tutti quei tremila sono lì e sono contenti di essere lì e di vedere l'essenza dello sport che ti dicevo.

Ora sei al lavoro anche per conquistare Tokyo 2020. A che punto sei?

Un sogno. Un traguardo che spero venga ripagato per quello che uno fa e che spero sia il risultato di sport pulito, dove tutti si gioca leali e senza scorrettezze. Io ci proverò in tutti i modi.

Ad oggi, in Italia, nella mia categoria davanti a me non c'è nessuno e voglio arrivare a stare stabilmente nei primi 5 in Europa. Come Italia abbiamo maturato molti punti e dunque il diritto ad avere diversi posti a Tokyo. Devo continuare a mantenere il mio standard di risultati a livello nazionale e lavorare per alzarlo a livello europeo. Io farò di tutto e di più per farcela.

[In coda all'incontro sono arrivate alcune domande dal pubblico. Una in particolare ha fatto emergere un bell'episodio legato all'ultimo Giro d'Italia handbike, e all'ultima tappa di Torino.]

L'ultima tappa era inutile per la classifica finale ma ci tenevo ugualmente moltissimo. Non mi piace accontentarmi. Anche l'ultima tappa stava andando bene, ero in testa, poi però si è rotta la barra protettiva che sta dietro alle ruote posteriori e che protegge la persona da possibili urti con altre bici. Senza quella non si può correre e si viene immediatamente squalificati. Poteva essere finita ma mi si è spento il lume della ragione. [La signora che ha fatto la domanda era presente a Torino e parlava di un Christian spiritato, con gli occhi furiosi].

Finalmente si è riusciti a trovare questa barra e rimontarla. A quel punto avevo perso circa 1' 30'' ma mi si è chiusa la vena e insomma in venti minuti ho ripreso lo svantaggio e ho vinto. Tutti l'avevano già data per persa e invece è stato bellissimo.

[Un altro intervento dal pubblico ha fatto riferimento al ruolo di capitano che l'Invictus Rugby gli ha appena conferito.]

L'Invictus è un squadra di rugby formata da ragazzi con diversi tipi di problemi. Lo scorso anno hanno perso il loro capitano in circostanze tragiche e ora hanno voluto eleggere me come loro capitano simbolico. Lo sono stato per molti anni dell'Hockey Prato e il ruolo è rimasto un po' legato a me e al mio nome. Ancora oggi il gruppo dei miei tifosi alle gare fa partire il coro “c'è solo un capitano”.

I ragazzi dell'Invictus erano felici e io lo ero più di loro. Gli ho promesso che anche la mia bici si chiamerà Invictus, così li porterò sempre con me ad ogni gara.

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