Quando si muove incontro sulla trequarti, Romelu Lukaku pianta le gambe e invita i compagni a giocargli palle verticali difficili sul petto. Puoi star sicuro che lui le proteggerà dai giocatori avversari, prenderà per mano i compagni e li aiuterà a risalire il campo. Il modo in cui pressa, combatte con i difensori e si dedica al gioco sporco è quello di un giocatore che ha sposato la causa dell’Inter e del suo allenatore in modo viscerale. Il giocatore che quando rientra alla pinetina dopo la vittoria batte la mano sul simbolo dello scudetto sorridendo. «È stata la migliore annata della mia carriera» ha detto, e magari può suonare strano per il miglior marcatore della storia della Nazionale belga, che ha giocato per Chelsea e Manchester United. Ma la storia di Lukaku è stata anche quella di una lunga sottovalutazione e di continui pregiudizi che lo hanno riguardato, fraintendimenti tecnici e autentico razzismo si sono mescolati attorno a lui in maniera a volte indistinguibile. È stato appena il secondo campionato nazionale che è riuscito a vincere in carriera: l’ultimo era stato dieci anni fa con la maglia dell’Anderlecht, quando portava le treccine lunghe e non aveva ancora imparato a gestire la potenza del suo corpo. In camera aveva appesa la foto di Cristiano Ronaldo e il suo stile di vita era lo stesso di ora: «Mangio, mi alleno, dormo».
Il suo allenatore nelle giovanili gli aveva detto che avrebbe segnato 22 gol, ne segnerà 15, quest’anno invece è già arrivato a 22, due in meno della scorsa stagione ma con due partite in più da giocare. Tra quel campionato e questo Lukaku ha attraversato tante squadre come un corpo estraneo, dovendo scendere a patti con le critiche e col fatto di poter essere sempre messo in discussione. Gli hanno detto che non era un professionista, che le sue scelte di carriera erano condizionate dai riti vudù, che non sapeva stoppare la palla. Lui doveva difendersi chiedendo «Più rispetto per i suoi record», e quando diceva di giocare per la squadra, di non essere un giocatore che gioca per sé stesso non avevamo capito quanto quella cosa fosse vera per lui. Da quando è arrivato all’Inter è diventato un corpo unico con il club e con il suo allenatore, decisivo per il suo arrivo. «Conte è un martello»; «Insieme apriremo un ciclo»; «Per lui combatterò fino alla morte» sono solo alcune delle cose che Lukaku ha detto di Conte. Già al Manchester United voleva lavorare con lui, pensava che se lo avesse trovato al Chelsea le cose sarebbero andate diversamente. All’Inter ha trovato finalmente tutto ciò che aveva desiderato dall’inizio: un allenatore che crede in lui, un ambiente che crede al suo talento fino in fondo e che è ben felice di essere portato sulle sue spalle. Una squadra che si affida a lui nelle situazioni più complicate. Lukaku si è votato anima e corpo alla mentalità guerrigliera con cui le squadre italiane sono solite vincere lo scudetto: «Anche noi attaccanti sappiamo che, non concedendo niente dietro, prima o poi il gol arriverà» oppure «Ci dice sempre che l’attaccante è il primo difensore»
Il suo impatto col calcio italiano, la scorsa stagione, è stato devastante: 34 gol in 51 presenze, alcuni dei quali decisivi, sopratutto nel cammino in Europa League. La storia della sua stagione si era però macchiata di un momento paradossale e tragico. Al 73’ della finale d’Europa League contro il Siviglia Diego Carlos si coordina in un ambiziosa rovesciata. Lukaku è davanti la propria porta e il tiro gli finisce sui piedi, rimbalzando poi in porta. Sarà il gol decisivo di una finale dopo la quale Lukaku ha confessato di non aver parlato per quattro giorni. Anche quest’anno, in una partita decisiva, quel corpo che è il principale strumento della sua supremazia si è trasformato in un impaccio. Nella partita decisiva e disperata contro lo Shakhtar, quando l’Inter aveva bisogno di vincere per superare il girone di Champions, un colpo di testa di Sanchez indirizzato in rete lo ha colpito quasi sulla riga. In questi due momenti la sua parabola si è tinta di una tragicità ingiusta. In un’intervista alla Gazzetta, analizzando la scorsa stagione ha rilasciato una dichiarazione che è un bignami del suo carattere: «Solo soffrendo si migliora. La vittoria è fatica, è carattere, è analisi dei propri limiti. È combattività, è voglia di riscatto e di successo. Si può perdere, ma solo per imparare a vincere».
Da quando è comparso nel calcio europeo come un giovane prodigio, Lukaku non ha mai smesso di migliorare e di lavorare sui propri limiti. Conte gli ha detto «Se diventi forte spalle alla porta è finita. Nessuno può fermarti. La sua idea è sempre stata molto chiara, quindi una volta che siamo riusciti a lavorare insieme non restava altro che fare tutto ciò che vuole. In allenamento mi hanno messo Andrea Ranocchia sulla schiena e mi hanno chiesto di andare fino alla porta. Se avessi perso palla avrei dovuto ricominciare da capo l’esercizio».
Per i difensori della Serie A è diventato ingestibile, mettendoli in situazioni di inferiorità a volte imbarazzanti. Come quando, nella prima partita del 2021, ha spostato Luperto come una porta girevole prima di segnare. Nel video possiamo vedere la fatica inutile di un uomo che cerca di spostare una montagna.
Quest’anno è tornato con una rinnovata capacità di produrre momenti decisivi per la sua squadra. Un aspetto importante per lui, spesso accusato di non fare gol nelle sfide importanti. Ha segnato al Napoli in una della vittorie chiave della stagione dell’Inter; ha segnato alla Roma e una doppietta alla Lazio, quando ha fatto sentire a Parolo tutto il peso della sua età e della normalità suo fisico. Lukaku col tempo è diventato formidabile spalle alla porta, ma è sempre stato immarcabile in campo aperto quando poteva correre contro difensori spaventati.
Nel derby di ritorno contro il Milan è stato il migliore in campo nella sfida che ha ribaltato gli equilibri di forza tra le due milanesi, che quest’anno è stato spesso rappresentato dal conflitto tra i loro numeri nove, Lukaku e Ibrahimovic. Dopo 5’ ha approfittato della cattiva idea del Milan di lasciare Romagnoli a difendere contro di lui a centrocampo. Lukaku ha lasciato scorrere il pallone e poi ha preso velocità lasciando Romagnoli tra la polvere. Quando la dinamica dell’azione lo ha costretto a tornare indietro e a rallentare, ha disegnato un cross teso perfettamente sulla testa di Lautaro Martinez. È sempre stato un numero 9 con ambizioni da numero 10. Nel secondo tempo ha ricevuto un passaggio buttato in avanti da Perisic (con lui in campo i passaggi a casaccio diventano rifiniture) poco oltre il centrocampo. Si è girato e quando si è messo in moto probabilmente Romagnoli aveva già capito che non poteva mettere nessun ostacolo al suo gol del 2-0. È circolato molto, nelle ore successive, il labiale del difensore sconsolato che lamentava «È velocissimo». Dopo quella partita Romagnoli giocherà meno di trecento minuti, perdendo pian piano il posto da titolare. Questo è un altro modo per misurare il peso di Lukaku nella stagione: ha contribuito a far perdere il posto al capitano della squadra rivale dopo una sua prestazione al derby.
Più l’Inter abbassava il proprio baricentro, con l’andare della stagione, più il peso delle sue corse in transizione diventava importante. La sua presenza non era però solo un vantaggio tattico, ma la rassicurazione emotiva, per i suoi compagni, che in qualsiasi situazione di difficoltà potevano affidargli il pallone, sicuri che poi lui ci avrebbe fatto qualcosa.
A inizio aprile Conte è voluto tornare sul suo acquisto e sui pregiudizi che riguardavano Lukaku. «Non dimentico che tanti storcevano il naso il giorno in cui è arrivato. Parlavano di un giocatore sopravvalutato e che era costato tanto, ma è arrivato fin qui con le sue potenzialità. Questo è un diamante che può diventare qualcosa di straordinario». Se quando è arrivato solo i più miopi potevano avere dubbi sul suo valore, non era certo scontata la passione e il trasporto con cui Lukaku ha sposato la causa dell’Inter. Oggi tutto sembra ruotare attorno a lui, che non sembrava aspettare altro: «Sono molto contento per tutti gli interisti nel mondo, per la squadra, per il mister e il suo staff, per il presidente, per tutti. È stato un bell'anno per noi, sono veramente orgoglioso di giocare per l’Inter»